Cass. pen., sez. I 17-07-2008 (01-07-2008), n. 29968 Coscienza e volontà dell’azione cosiddetta suitas – Capacità di intendere e di volere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

RITENUTO IN FATTO
Il reato oggetto della sentenza in esame, emessa all’esito di giudizio abbreviato, è l’omicidio compiuto dal ricorrente, che ha ucciso il proprio figlio P., freddandolo con quattro colpi di pistola. La vittima viene descritta – con contenuti di fatto non contestati – come una persona violenta che sottoponeva a continue angherie e violenze la propria convivente, tanto da costringerla ad allontanarsi più volte dalla casa comune, ove era stata indotta a tornare nel giorno in cui si sarebbe verificato l’omicidio, per consentire all’uomo di incontrarsi con la figlioletta G.. In occasione di questo incontro, i genitori di lui erano stati invitati a recarsi nella sua casa per fare le pulizie e giungendo lo avevano visto nudo in presenza della nipotina. Il padre, dopo una breve discussione, gli aveva sparato con la propria pistola Magnum calibro 357, aveva sommariamente coperto il cadavere e poi aveva chiamato la polizia consegnandosi agli agenti.
La Corte d’appello ha respinto l’appello dell’imputato e, accogliendo quello del procuratore generale, ha escluso le attenuanti della provocazione e del risarcimento del danno che erano state concesse in primo grado, ha riconosciuto la responsabilità per il porto abusivo dell’arma, che era stata esclusa per mancanza dell’elemento soggettivo e, tenendo fermo il giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante contestata, ha riderminato la pena per l’omicidio in anni 14 di reclusione, anzichè 11, irrogando quella di anni 1 di reclusione ed Euro 210,00 di multa per il porto della pistola, ridotte per il rito a complessivi anni 10 di reclusione ed Euro 140,00 di multa.
Propone ricorso il difensore dell’imputato, deducendo:
1. l’erronea applicazione di legge e il difetto di motivazione, concretizzatesi nella confusione tra la coscienza e volontà dell’azione (cd. suitas) disciplinate dall’art. 42 c.p., comma 1 e la capacità di intendere e di volere richieste ai fini dell’imputabilità dell’art. 85 cod. pen., con la precisazione che la disposizione di cui all’art. 90 c.p., secondo la quale gli stati emotivi o passionali non escludono l’imputabilità, hanno in ogni caso rilievo rispetto all’art. 42 c.p., con ulteriori specificazioni riferirete alla punibilità, inerenti:
a) alla mancanza di motivazione a proposito della sussumibilità della fattispecie nell’ipotesi de fortuito o della forza maggiore, della legittima difesa o dell’eccesso colposo in legittima difesa;
b) alla mancata assunzione di prova decisiva (perizia sulla incapacità di intendere e di volere, quantomeno transitoria) richiesta con l’atto di appello;
2. illogicità della motivazione neh" accogli ere l’appello del procuratore generale e nel negare l’attenuante della provocazione, riconosciuta in primo grado;
3. violazione di legge ed illogicità della motivazione – sempre a proposito dell’accoglimento dell’appello del procuratore generale – nell’escludere l’attenuante del risarcimento del danno, non richiesto dalle persone danneggiate dal reato, ma mai offerto;
4, inesistenza del reato di porto abusivo di arma, trattandosi di arma legittimamente detenuta per uso sportivo regolarmente autorizzato, il cui porto sarebbe consentito indipendentemente dalle ragioni per cui avviene.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo ampio motivo di ricorso non può essere accolto. Esso, tutto incentrato sulla distinzione tra coscienza e volontà dell’azione (suitas) riconducibili all’art. 42 c.p. e capacità di intendere e di volere richieste dall’art. 85 c.p., è – in realtà – un pregevole studio sui problemi teorici posti dalla esigenza di coordinamento delle due norme, problemi irrisolti anche dalla dottrina (tanto che alcuni nutrono dubbi sulla autonomia normativa dell’art. 42 c.p. rispetto all’art. 85 c.p.). Tuttavia, pur volendo riconoscere l’autonomia delle due norme, nei limiti in cui ciò rileva per l’operatore pratico, deve ritenersi che siano coscienti e volontarie tutte quelle condotte attribuibili alla volontà del soggetto, essendo tali anche quelle che con uno sforzo del volere potevano essere impedite. La coscienza e volontà richiamate dall’art. 42 c.p., pertanto, devono essere intese come dominio di sè, piuttosto che come consapevolezza di ledere o esporre a pericolo il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice (art. 85 c.p.). In altri termini, la coscienza e volontà come dominio anche solo potenziale dell’azione od omissione rappresentano il livello iniziale di considerazione della condotta umana rilevante per il diritto penale.
Su questo requisito, la risposta – anche implicita – della sentenza impugnata, esaminata e coordinata con quella – conforme – di primo grado, è sufficiente e corretta. Inoltre il ricorso, pur diffondendosi molto sugli aspetti teorici, non indica alcun convincente elemento di fatto dal quale si possa desumere (o, per meglio dire, si possa chiedere al giudice del merito di rivalutare), nello sventurato omicida, la mancanza del requisito minimo necessario a ricondurre l’elemento soggettivo nell’ambito della mancanza di suitas.
Questo requisito dovrebbe, in ogni caso, discostarsi anche dallo stato emotivo e passionale, afferente alla sfera emotiva o affettiva, più che a quella intellettiva e volitiva (invece interessata dalla norma prioritariamente invocata), la cui irrilevanza ai fini del giudizio di imputabilità della persona è sancita dall’art. 90 c.p..
Forse consapevole di questa carenza e della conseguente genericità della riflessione teorica, il ricorso tenta di specificarsi censurando la sentenza in due punti:
1. mancanza di motivazione a proposito della sussumibilità della fattispecie nell’ipotesi del fortuito o della forza maggiore, della legittima difesa o dell’eccesso colposo in legittima difesa;
2, mancata assunzione di prova decisiva (perizia sulla incapacità di intendere e di volere, quantomeno transitoria) richiesta con l’atto di appello;
E’ però evidente che, quanto al primo punto, manca, anche in via di mera allegazione, qualsiasi presupposto di fatto legittimante una prosecuzione dell’indagine nella direzione auspicata, mentre, quanto al secondo, si urta contro l’espresso divieto sancito dall’art. 220 c.p.p., n. 2, u.p..
Inaccoglibile è anche il terzo motivo di ricorso (del secondo si dirà in seguito), concernente l’esclusione, avvenuta in grado di appello, dell’attenuante di cui all’art. 626 c.p., concessa dal primo giudice. Invero, come giustamente rileva la sentenza impugnata, la riparazione del danno, perchè possa condurre all’applicazione della relativa attenuante, deve essere effettiva, integrale e volontaria.
Trattasi di requisiti (sui quali si sofferma ulteriormente ed in modo corretto la sentenza impugnata) che non sono riscontrabili nel caso di specie, perchè non solo non vi è la prova che sia avvenuto un qualche risarcimento, ma nemmeno che l’imputato si sia posto il problema del risarcimento stesso: le dichiarazioni delle persone danneggiate dal reato di non aver nulla da pretendere appaiono semplicemente come un atto di piena liberalità e solidarietà nei confronti dell’imputato.
Da respingere è anche il quatto motivo, concernente il reato di porto abusivo dell’arma, perchè, pur nella oscillazione della giurisprudenza a proposito delle finalità del porto nel caso in cui esista l’autorizzazione all’uso sportivo, deve osservarsi che la autorizzazione di cui era munito il B. non gli avrebbe consentito in nessun caso il porto della pistola o del revolver, sussistendo per queste armi, qualora se ne voglia effettuare un uso sportivo, un tipo di autorizzazione diverso da quello in suo possesso, essendo egli autorizzato – secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata – al porto di carabina per il tiro a volo.
E’ fondata, invece, la censura contenuta nel secondo motivo di ricorso, concernente il mancato riconoscimento in appello dell’attenuante della provocazione di cui all’art. 62 c.p., n. 2, che era stata concessa dal primo giudice. Invero, la sentenza impugnata, pur prendendo le mosse da premesse teoriche condivisibili, finisce per cadere in un vizio di motivazione perchè, dopo aver riconosciuto in linea di fatto che l’atteggiamento del figlio del prevenuto è stato sempre violento e menefreghista nei rapporti sociali e che un analogo comportamento è stato sempre tenuto nei confronti della convivente, finisce per escludere qualsiasi rilevanza, ai fini dell’attenuante, a questa situazione di fatto, semplicemente perchè non vi era la convivenza tra padre e figlio. Una volta esclusa la rilevanza di quei comportamenti, la sentenza impugnata focalizza tutta l’attenzione sulla circostanza che La vittima si trovasse in stato di nudità, sebbene nella medesima abitazione fosse presente la figlioletta di sei anni. Nella motivazione della sentenza, la valutazione psicologica e la negatività da attribuirsi, secondo talune teorie psicologiche, avversate da altre, allo stato di nudità dei genitori in presenza dei figli finisce per divenire elemento risolutivo per negare, stante la sua palese insufficienza e contraddittorietà, l’attenuante.
Se non che, la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel ritenere, con pronunce risalenti ma mai contraddette, che ai fini dell’applicazione dell’attenuante della provocazione, l’acquiescenza o la mancata reazione dell’imputato di fronte ad una pluralità di fatti, oggettivamente ingiusti, perchè contrari a norme etiche o giuridiche o di costume od alle regole della convivenza sociale, non esclude la sussistenza dello stato d’ira, nè sul piano psicologico nè su quello giuridico, qualora la vittima ponga in essere un nuovo ed ulteriore fatto ingiusto, che ricollegandosi a quelli precedenti per il nesso di derivazione psichica che. li avvince, scateni nell’offeso un irrefrenabile moto di reazione violenta e porti, quindi, alla commissione del delitto (per tutte, Sez. 1, Sentenza n. 7513 del 11/03/199 Ud. (dep. 12/07/1991) Rv. 187983).
Esaminato alla luce di questo principio, lo stato di nudità del soggetto potrebbe porsi come semplice fattore scatenante di una situazione psicologica di grave compressione, derivante dai comportamenti precedenti del figlio, situazione già posta in luce dal giudice di primo grado, il quale ha richiamato (e sui dati di fatto non vi è contestazione alcuna) gli anni di vessazioni psicologiche e fisiche che la vittima aveva imposto a tutti i suoi familiari. Senza contare che la nudità rileva non solo con riferimento all’aspetto psicologico del rapporto genitore-figli minori, preso in esame dalla sentenza, ma anche, al di fuori delle teorie psicologiche focalizzate sull’infanzia, come fattore sintomatico dell’atteggiamento vessatorio ed ingiurioso del figlio adulto nei confronti dei genitori, posto che il primo, dopo averli chiamati e sapendo che sarebbero giunti, non si è peritato dal farsi trovare nudo. Vi e perciò una carenza motivazionale nell’esaminare questa pacifica situazione di fatto, quale emerge dal complesso delle due sentenze di merito, e nel valutarne la rilevanza ai fini del determinarsi dello stato d’ira provocato dalla nudità intesa come "detonatore" di una situazione di grave compressione psicologica, durata anni e ben lumeggiata dall’altro sintomatico dato di fatto e cioè che l’uomo aveva "convocato" gli anziani genitori perchè la madre provvedesse a pulirgli la casa.
Così impostati i termini giuridici e fattuali inerenti alla provocazione, è evidente che perderebbero rilievo i due cardini sui quali si è basata la sentenza impugnata per escludere l’attenuante:
a) la mancata coabitazione (irrilevante rispetto alle vessazioni psicologiche e fisiche imposte dalia vittima); b) il suo stato di nudità al momento del fatto, elemento controverso – quest’ultimo – rispetto alla sua negatività psicologica nei confronti della figlia minore, ma certamente elemento discutibile, idoneo ad essere percepito come ultimo anello di uno stato di continue vessazioni nei confronti di tutti i familiari, destinato a scoppiare nel moto d’ira improvvisa.
Sul punto, pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio alla corte d’appello di Perugia, essendo stata pronunciata da una Corte – quella di Ancona – non divisa in sezioni.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente alla provocazione e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla corte d’assise di appello di Perugia. Rigetta nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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