Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 14-10-2011, n. 21267 licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

B.G. e Z.A., con separati ricorsi poi riuniti esponevano al Tribunale del Lavoro di Genova di essere stati illegittimamente licenziati dalle Ferrovie dello Stata (oggi R.F.I.) come accertato con sentenza passata in giudicato con declaratoria dell’obbligo di reintegra.

A seguito della pronuncia aveva esercitato l’opzione per le 15 mensilità in sostituzione della reintegra, ma non essendo stata soddisfatta l’obbligazione vicaria chiedeva il pagamento di quanto maturato fino alla data dell’effettivo soddisfo dell’obbligazione.

La Società si costituiva resistendo alla domanda risarcitoria per la parte maturata successivamente all’esercizio dell’opzione.

Eccepiva che con l’opzione di cui in discorso cessa l’obbligo della reintegra, con conseguente estinzione dell’obbligo risarcitorio.

Il Tribunale rigettava le domande con sentenza che veniva riformata in secondo grado, con sentenza non definitiva, relativa all’an debeatur. In particolare, la Corte d’Appello di Genova, in adesione al dominante orientamento della, giurisprudenza di legittimità, osservava che con l’esercizio dell’opzione l’obbligazione della reintegrazione è sostituita dall’obbigazione di pagare l’indennità, la quale, ponendosi sullo stesso piano della prima, trae fondamento dalla permanenza dell’obbligo giuridico contrattuale, la cui risoluzione è stata posta nel nulla.

Per la cassazione di tale pronuncia, ricorre la Rete Ferroviaria Italiana, già Ferrovie dello Stato società di trasposrti e Servizi per Azioni, con due motivi. Resistono i lavoratori con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, la società denuncia violazione e falsa applicazione del combinato disposto della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5, (come modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 1) e dell’art. 1286 c.c., comma 2, ( art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 12 preleggi, comma 2, della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5, (come modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 1) e dell’art. 1286 c.c., comma 2, ( art. 360 c.p.c., n. 3).

La ricorrente, dopo aver contestato la ricostruzione di Corte Cost.

81/92, che identifica l’istituto dell’opzione ex art. 18 Stat. Lav. come un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore dopo avere rimarcato che l’obbligazione c.d. facoltativa è sconosciuta al codice, che disciplina solo quella alternativa con applicabilità del disposto di cui all’art. 1286, comma 2 per cui la scelta determina la concentrazione dell’obbligazione con contestuale estinzione delle alternative non prescelte, osserva che tale conclusione sarebbe supportata anche dalla disciplina specifica dell’opzione, che ne prevede un termine decadenziale di esercizio, talchè l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici imporrebbe che non sussistessero dubbi sulla ulteriore permanenza del rapporto di lavoro. Pertanto o in via di applicazione diretta dell’art. 1286 c.c., comma 2, o in via analogica ex art. 12 preleggi, comma 2, andrebbe cassata l’affermazione della Corte ligure sulla cessazione del rapporto di lavoro solo al pagamento dell’opzione, con conseguente maturazione, medio tempore, del credito risarcitorio.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5 come modificati dalla L. n. 108 del 1990, art. 1 e degli artt. 1218 1223 c.c. ( art. 360 c.p.c., n. 3). Argomenta al riguardo che sarebbero state violate le regole sul risarcimento del danno in quanto non può esserci risarcimento se il lavoratore non ha scongiurato il danno, offrendo la sua prestazione o comunque mantenendo la sua disponibilità ad offrirla. E siccome, dopo l’esercizio dell’opzione, la prestazione lavorativa diviene inesigibile sarebbe "inconcepibile che sia dovuto un risarcimento la cui causa sta nel rifiuto di accettazione (con la reintegra) di una prestazione divenuta inesigibile per fatto del lavoratore", così come invece sostenuto dalla Corte d’appello.

Il ricorso, pur valutato nelle sue diverse articolazioni, è privo di fondamento.

La L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5 come modif. dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, stabilisce che, fermo restando il diritto al risarcimento del danno di cui al comma precedente, al prestatore di lavoro illegittimamente licenziato è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.

La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che, nel caso di scelta, da parte del lavoratore illegittimamente licenziato, dell’indennità sostitutiva della reintegrazione ai sensi dell’art. 18, comma 5, cit., fino all’effettivo pagamento dell’indennià il datore è obbligato a pagare le retribuzioni globali di fatto (Cass. 6 marzo 2003 n. 3380, 28 luglio 2003 n. 11609, 16 marzo 2009 n. 6342).

Il sistema dell’art. 18 cit. come ancora puntualizzato da questa Corte (v. Cass. 16 novembre 2009 n. 24199) – si fonda sul principio di effettiva realizzazione dell’interesse del lavoratore a non subire, o a subire al minimo, i pregiudizi conseguenti al licenziamento illegittimo; principio che Cass. n. 6342 del 2009 chiama "di effettività dei rimedi" e che impedisce al datore di lavoro di tardare nel pagamento dell’indennità in questione assoggettandosi al solo pagamento di rivalutazione e interessi ex art. 429 c.p.c. Il principio di effettività dei rimedi giurisdizionali, espressione dell’art. 24 Cost., significa per quanto qui interessa che il rimedio risarcitorio, ossia del risarcimento del danno sopportato dal lavoratore per ritardato percepimento dell’indennità sostitutiva ex art. 18 cit., deve ridurre il più possibile il pregiudizio subito dal lavoratore e, in corrispondenza, distogliere il datore di lavoro dall’inadempimento o dal ritardo nel l’adempiere l’obbligo indenitario. Ciò posto, va precisato, in considerazione delle deduzioni della società ricorrente – che non è dubbio che la scelta dell’indennità sostitutiva da parte del lavoratore sia irrevocabile è che il rapporto di lavoro non possa perciò′ essere ricostituito. Tuttavia l’ammontare del risarcimento del danno da ritardo dev’essere pari alle retribuzioni perdute, fino a che il lavoratore non venga effettivamente soddisfatto. Nè sembra necessario stabilire se trattisi di obbligazione con facoltà alternativa, schema che la dottrina dubita poter ricorrere quando la scelta spetti al creditore e che la Corte costituzionale evocò con l’ord. n. 291 del 1996 in specifica questione qui estranea, potendosi piuttosto ravvisare una dichiarazione di volontà negoziale del lavoratore, i cui effetti limitatamente all’ammontare dell’indennità sono sottoposti al termine dell’effettivo ricevimento di essa.

Rigettato il ricorso, le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 40,00, oltre Euro 2.000,00 per onorari, ed oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 6 luglio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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