T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent., 13-06-2011, n. 5228

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Ministero della Giustizia – Dipartimento per gli Affari di Giustizia, con decreto del 19 novembre 2010, ha concesso al Governo degli Stati Uniti d’America l’estradizione di Kate S. in relazione ai reati di cui al mandato di arresto emesso l’8 gennaio 2001 da un Giudice della Corte degli Stati Uniti, Distretto Centrale del Connecticut, ad esclusione del reato di riciclaggio.

Di talché, la sig.ra S. ha proposto il presente ricorso, articolato nei seguenti motivi:

Violazione degli artt. 7, 8 e 10, lett. b), l. 241/1990. Lesione dei diritti partecipativi della ricorrente.

Il decreto di estradizione sarebbe stato emanato senza che sia stato dato alla ricorrente la notizia dell’avvio del procedimento amministrativo e senza che sia stata presa in considerazione la memoria presentata il 19 novembre 2010.

Violazione dell’art. 6 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, ratificata con legge 4 agosto 1955 n. 848. Violazione dell’art. 1, co. 4, DPCM 1° febbraio 2007. Sviamento.

Il decreto impugnato avrebbe recepito l’esito della fase giurisdizionale dell’estradizione senza tenere conto che tale fase è stata celebrata in violazione delle regole del giusto processo, negando alla ricorrente il diritto alla pubblica udienza e negandole il diritto alla prova. Il processo di estradizione, in particolare, avrebbe comportato, sotto entrambi i profili, la violazione dell’art. 6 della CEDU, per cui, stante la invalidità del processo presupposto, il Ministero avrebbe dovuto negare l’estradizione.

Violazione degli artt. 2, 3 e 7 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, dell’art. 6 del Trattato di Lisbona e degli artt. 2 13, co. 4, e 27 Cost. Violazione dell’art. 1, co. 4, DPCM 1° febbraio 2007. Eccesso di potere nella forma della mancanza di proporzionalità ed adeguatezza. Motivazione omessa o insufficiente. Istruttoria carente.

Il Ministero della Giustizia avrebbe concesso l’estradizione semplicemente ritenendo di essere a tanto vincolato dall’esito della fase giurisdizionale dell’estradizione.

L’esito della fase giurisdizionale dell’estradizione, invece, varrebbe solo a fissare l’esistenza delle condizioni legali dell’estradizione, mentre all’autorità amministrativa sarebbe demandata una più complessa ed articolata valutazione, poggiante su ampia discrezionalità forse anche nell’an e certamente nel quomodo.

In particolare, il rispetto dei diritti fondamentali inciderebbe fortemente sul quomodo dell’estradizione.

La ricorrente versa in uno stato di salute che la stessa autorità giurisdizionale italiana ha ritenuto incompatibile con la detenzione in carcere, per cui il Ministro avrebbe dovuto sospendere temporaneamente l’esame della richiesta di estradizione ovvero condizionarla alla prestazione di idonee garanzie circa la possibilità della ricorrente di beneficiare degli arresti domiciliari e di potersi adeguatamente curare.

Il decreto di estradizione sarebbe stato emanato senza acquisire alcun impegno formale alla non applicazione del cumulo materiale delle pene, con ciò rendendo del tutto vano ed inutile il controllo di "legittimità" operato dalla Corte di Cassazione circa i presupposti dell’estradizione, controllo dichiaratamente fondato sulla riconosciuta astratta possibilità di applicazione del cumulo giuridico.

Il decreto di estradizione emanato senza avere acquisito dal Governo americano la garanzia dell’applicazione del cumulo giuridico delle pene sarebbe privo di proporzionalità ed adeguatezza.

Il decreto, inoltre, sarebbe stato emanato senza acquisire la garanzia da parte degli Stati Uniti d’America che la restrizione della libertà personale, cui la ricorrente è stata sottoposta nel corso del procedimento di estradizione, sarebbe computata nella pena che eventualmente dovesse esserle irrogata all’esito del processo da celebrarsi negli USA.

L’Avvocatura Generale dello Stato ha contestato la fondatezza delle censure dedotte concludendo per il rigetto del ricorso.

La ricorrente ha depositato altre memorie a sostegno delle proprie ragioni chiedendo, tra l’altro, che sia ordinata la cancellazione della frase, contenuta nella memoria dell’Avvocatura erariale, con cui è indicato che "la S. cerca evidentemente con ogni mezzo… di sfuggire alle conseguenze dei crimini che ha commesso, abbarbicandosi ad ogni suggestione giuridica".

All’udienza pubblica del 20 aprile 2011, il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
Motivi della decisione

Il Ministero della Giustizia, con decreto del 19 novembre 2010, ha concesso al Governo degli Stati Uniti d’America l’estradizione di Kate S. in relazione ai reati di cui al mandato di arresto emesso l’8 gennaio 2001 da un Giudice della Corte degli Stati Uniti, Distretto Centrale del Connecticut, ad esclusione del reato di riciclaggio.

Il provvedimento – visti gli artt. 697, 699, 705 e 708 c.p.p. nonché il Trattato bilaterale sottoscritto a Roma il 13 ottobre 1983, come modificato con accordo bilaterale sottoscritto il 3 maggio 2006 – è stato adottato in quanto:

il Governo degli Stati Uniti d’America ha chiesto l’estradizione della ricorrente sulla base del mandato di arresto emesso l’8 gennaio 2001 da un Giudice della Corte degli Stati Uniti, Distretto Centrale del Connecticut, affinché sia giudicata per reati di truffa in materia di telecomunicazioni (15 capi di accusa), riciclaggio (4 capi di imputazione), truffa relativa alla compravendita di valori mobiliari (1 capo di imputazione), conduzione e partecipazione negli affari di una impresa attraverso attività di racket (1 capo di imputazione), associazione per delinquere (1 capo di imputazione);

tra la Repubblica Italiana e gli Stati Uniti d’America i rapporti in materia di estradizione sono regolati dal Trattato bilaterale sottoscritto a Roma il 13 ottobre 1983, come modificato con accordo bilaterale sottoscritto il 3 maggio 2006;

i reati per i quali l’estradizione è richiesta sono puniti con la pena della reclusione e sono compresi tra quelli per i quali il Trattato consente l’estradizione;

la sentenza in data 20 aprile 2010 ha deliberato favorevolmente all’estradizione, con esclusione del reato di riciclaggio, ed è divenuta irrevocabile il 15 novembre 2010, in seguito al rigetto del ricorso per Cassazione pronunciato con sentenza in data 9 novembre 2010, depositata il 15 novembre 2010;

i reati ascritti alla ricorrente non hanno carattere politico e non si ravvisano motivi per ritenere che la domanda di estradizione sia stata avanzata allo scopo di perseguire o di punire la persona per considerazioni razziali, di religione o di opinioni politiche;

nei confronti dell’estradanda non risultano pronunziate nello Stato sentenze definitive di condanna o pendenti procedimenti penali per gli stessi reati oggetto della domanda di estradizione.

Il Collegio fa presente in linea generale che la procedura di estradizione passiva si articola in due fasi, una giurisdizionale ed una amministrativa, strettamente connesse ma facenti capo a distinti poteri dello Stato (cfr. TAR Lazio, Roma, I, 26 novembre 2008, n. 10767).

Il Ministro della Giustizia è l’esclusivo titolare del potere di attivare la procedura e di disporre la trasmissione della domanda estera di estradizione al Procuratore generale presso la Corte d’Appello competente per territorio, il quale, esperiti gli accertamenti preliminari, investe a sua volta la Corte, attivando la fase giurisdizionale propriamente detta.

In considerazione del fatto che l’estradizione coinvolge i diritti di libertà dell’estradando, il codice di procedura penale, infatti, impone quale presupposto imprescindibile dell’eventuale decreto di estradizione, la cosiddetta garanzia giurisdizionale, vale a dire il giudizio positivo di un organo giudiziario dotato di competenza funzionale che emette la sua decisione al termine di un iter processuale integralmente sorretto dal principio del contraddittorio.

Il procedimento giurisdizionale di estradizione passiva, ponendosi quale mezzo di garanzia, conferisce alla sentenza favorevole del giudice penale efficacia di condizione necessaria per l’estradizione, ma l’avverarsi di tale condizione non è sufficiente a determinare l’estradizione, essendo la decisione finale riservata al Ministro della Giustizia ai sensi dell’art. 708 c.p.p.

Il sistema vigente, pertanto, è ispirato ad un criterio misto, che abbina il potere del Ministro di concedere o meno l’estradizione alla garanzia giurisdizionale, sotto il profilo sia dell’accertamento delle condizioni legittimanti l’estradizione sia della tutela della libertà personale dell’estradando.

Il decreto di estradizione, in definitiva, non ha natura di atto politico, ma di atto di alta amministrazione, atteso che non coinvolge immediatamente interessi superiori dello Stato, ma dispone in modo diretto ed immediato di interessi essenzialmente individuali.

Ciò ne comporta la normale sindacabilità da parte del giudice amministrativo, ferma restando la preclusione di ogni tipo di accertamento che si traduca nel riesame di provvedimenti giurisdizionali adottati dal giudice penale, allorquando questi abbia riscontrato la sussistenza delle condizioni tecnico giuridiche di estradabilità, trattandosi di questioni concernenti lo status libertatis ed involgenti comunque posizioni di diritto soggettivo.

Il Collegio rileva ancora che l’art. 696 c.p.p. – nel prevedere che le estradizioni e gli altri rapporti con le autorità straniere, relativi all’amministrazione della giustizia in materia penale, sono disciplinati dalle norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazione generale e che, se tali norme mancano o non dispongono diversamente, si applicano le norme seguenti – stabilisce il principio di prevalenza, sul diritto interno, delle convenzioni e del diritto internazionale generale.

Nella fattispecie in esame, l’estradizione è stata disposta ai sensi del trattato bilaterale tra Italia e Stati Uniti d’America sottoscritto in data 13 ottobre 1983, modificato con accordo bilaterale sottoscritto il 3 maggio 2006, il cui art. 1, rubricato "obbligo di estradare", sancisce che "le parti contraenti concordano di consegnarsi reciprocamente, in applicazione delle disposizioni del presente trattato, le persone che siano perseguite o che siano state condannate dalle autorità della parte richiedente per un reato che dà luogo all’estradizione".

Tale norma, quindi, impone un vero e proprio obbligo, che non prevede facoltà di deroga se non per ipotesi, quali i reati politi o i reati militari che non siano reati in base alla legge penale comune, che nel caso di specie non ricorrono.

Sulla base di tutto quanto esposto, la censura di omessa comunicazione di avvio del procedimento si rivela infondata già in considerazione del fatto che, articolandosi la procedura di estradizione in due fasi, la prima giurisdizionale e la seconda amministrativa, la ovvia conoscenza della fase giurisdizionale implica la conoscenza della fase amministrativa, tanto che, ai sensi dell’art. 708, co. 1, c.p.p., il Ministro della Giustizia decide in merito all’estradizione entro quarantacinque giorni dalla ricezione del verbale che dà atto del consenso ovvero dalla notizia della scadenza del termine per l’impugnazione o dal deposito della sentenza della Corte di Cassazione.

D’altra parte, la circostanza che la memoria depositata dalla ricorrente in data 19 novembre 2010 non sia stata espressamente riportata e confutata nel decreto impugnato, da un lato, dà conto del fatto che la sig.ra S. ha comunque partecipato al procedimento, dall’altro, non è di per sé sufficiente ad escludere che la memoria stessa sia stata valutata dall’amministrazione procedente.

Le doglianze con le quali è stata prospettata l’invalidità della presupposta fase giurisdizionale, come evidenziato, sono inammissibili in ragione del limite alla sindacabilità dell’atto impugnato, costituito dalla preclusione di ogni tipo di accertamento che si traduca nel riesame di provvedimenti giurisdizionali adottati dal giudice penale.

Per quanto concerne, invece, la prospettazione secondo cui, versando la ricorrente in uno stato di salute che la stessa autorità giurisdizionale italiana ha ritenuto incompatibile con la detenzione in carcere, il Ministro avrebbe dovuto sospendere temporaneamente l’esame della richiesta di estradizione ovvero condizionarla alla prestazione di idonee garanzie circa la possibilità dell’interessata di beneficiare degli arresti domiciliari e di potersi adeguatamente curare e secondo cui il decreto di estradizione sarebbe stato emanato senza acquisire alcun impegno formale alla non applicazione del cumulo materiale delle pene, occorre in primo luogo rilevare che già la sentenza della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, 9 novembre 2010, n. 40169, nel rigettare il ricorso proposto dall’interessata avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino 20 aprile 2010, ha fatto presente che "trattandosi di estradizione verso un Paese di antica e luminosa democrazia, non sono verificabili dall’autorità giudiziaria i paventati trattamenti disumani nell’esecuzione delle pene".

Per altro verso, in ordine al timore di una pena esagerata, la Suprema Corte, con l’indicata sentenza, ha posto in rilievo che è stata acquisita agli atti una comunicazione dell’US Department of Justice che, proprio con riferimento alla posizione della ricorrente, ha reso conto di un sistema di determinazione della pena analogo a quello del reato continuato nazionale, specificando che "tanto è sufficiente ai fini del controllo di legittimità, mentre l’osservazione della difesa che la comunicazione pervenuta non corrisponde ad un impegno formale a non applicare il cumulo materiale delle pene, può rilevare ai fini dell’esercizio della discrezionalità politica da parte del Ministro".

La pronuncia del giudice penale, in ordine all’impegno formale alla non applicazione del cumulo materiale delle pene, quindi, ha dato solo atto della possibile rilevanza della questione ai fini dell’adozione del decreto di estradizione, laddove il Ministero della Giustizia, con valutazione esente da manifesta illogicità, non ha ritenuto di attribuire incidenza a tale profilo escludendo l’apposizione di una specifica condizione.

In altri termini, il Ministero della Giustizia non ha ritenuto di dover subordinare l’estradizione all’impegno della non applicazione del cumulo materiale delle pene e tale valutazione, tenuto conto sia del fatto, indicato nella sentenza della Corte di Cassazione, che una comunicazione dell’US Department of Justice, proprio con riferimento alla posizione della ricorrente, ha reso conto di un sistema di determinazione della pena analogo a quello del reato continuato nazionale sia della considerazione, anch’essa, oltre che notoria, espressa nella richiamata sentenza della Corte di Cassazione, che si tratta di estradizione verso un Paese di antica e luminosa democrazia, si mostra non illogica o irragionevole né il decreto di estradizione può essere ritenuto per ciò solo privo di proporzionalità ed adeguatezza.

Il Collegio, inoltre, rileva come anche l’assenza della garanzia che la restrizione della libertà personale, cui la ricorrente è stata sottoposta nel corso del procedimento di estradizione, sia computata nella pena che eventualmente dovesse esserle irrogata all’esito del processo da celebrarsi negli USA non può ridondare in un vizio di legittimità dell’atto in quanto, volendo seguire il detto itinerario argomentativo, si arriverebbe alla non condivisibile conclusione che sarebbe sempre necessario subordinare tale tipologia di atti ad una pluralità di prescrizioni, ancorché inutili e ridondanti.

Nel caso di specie, infatti, l’art. 6 del Trattato tra la Repubblica Italiana e gli Stati Uniti d’America espressamente prevede il "ne bis in idem", escludendo l’estradizione quando la persona richiesta ha scontato la pena inflittale dalla parte richiesta per gli stessi fatti per i quali l’estradizione è domandata, il che, pur trattandosi di situazione diversa da quella in esame, implica che già nel Trattato è escluso che per uno stesso fatto la pena possa essere scontata presso entrambi gli Stati.

Infine, occorre evidenziare che la mera proposizione di un ricorso allala Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non determina di per sé l’obbligo per l’Autorità amministrativa di sospendere l’efficacia dell’atto.

In ragione di tutte le considerazioni svolte, il ricorso è infondato e va di conseguenza respinto.

In ordine all’istanza di cancellazione della frase, contenuta nella memoria dell’Avvocatura Generale dello Stato, secondo cui "la S. cerca evidentemente con ogni mezzo… di sfuggire alle conseguenze dei crimini che ha commesso, abbarbicandosi ad ogni suggestione giuridica", il Collegio è dell’avviso che la stessa, sebbene lievemente "sopra le righe" ed imprecisa, dovendo i reati essere accertati, rientri comunque nella fisiologica dialettica processuale tra le parti contrapposte.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e, liquidate complessivamente in euro 1.000,00, sono poste a carico della ricorrente ed a favore dell’amministrazione resistente.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)

respinge il ricorso in epigrafe.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate complessivamente in euro 1.000,00, in favore dell’amministrazione resistente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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