Cass. civ. Sez. V, Sent., 13-09-2013, n. 20980

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. L’Ufficio di Lugo dell’Agenzia delle Entrate, sulla base di un p.v.c. della Guardia di Finanza del 7.4.2003, rettificava, ai fini IVA, la dichiarazione presentata dalla Si Computer s.p.a., in relazione all’anno 1999, riconoscendo un minor credito di Euro 5.784,00, oltre sanzioni. Contestava, in particolare, la fatturazione di merci asseritamente destinate all’esportazione in favore della Global Trading GMBH con sede in Germania, ma in realtà movimentate esclusivamente in Italia. Ragion per cui era stato indebitamente ritenuto applicabile dalla contribuente il regime delle operazioni intracomunitarie.

2. La CTP di Ravenna accoglieva i ricorsi proposti dalla società contribuente. La Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna, nell’accogliere l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, riformava la decisione di primo grado con sentenza n. 36/XIX/09 del 26 maggio 2009.

3. Osservava il giudice di appello che rispetto alla questione agitata dalla società contribuente le indagini svolte dalla Polizia tributaria avevano conclamato che la Global Trading con sede formale in Germania non aveva alcuna struttura operativa in quel Paese, operando presso la Consul Service srl con sede in (OMISSIS).

3.1 Aggiungeva che dalla stessa verifica era emerso che la mercè acquistata era spedita a cura dei fornitori o dell’acquirente presso magazzini operanti in territorio italiano e prevalentemente in Piemonte.

3.2 Precisava che la Global Trading non aveva provveduto al trasporto in territorio tedesco delle merci acquistate distribuendole a clienti italiani ed avvalendosi di società compiacenti, nei confronti delle quali venivano emesse fatture soggettivamente inesistenti.

3.3 Chiariva, ancora, che la prova della cessione intracomunitaria che il cedente doveva assolvere richiedeva la dimostrazione di avere inviato la merce nello stato estero UE. 3.4 Aggiungeva, pertanto che diversamente da quanto ritenuto dal giudice di primo grado, non poteva ritenersi sufficiente l’indicazione in fattura del codice identificativo del cessionario, nonchè la verifica dell’esistenza del medesimo. Rilevava, ancora, che non poteva condividersi l’assunto per cui il cedente era sollevato da ogni responsabilità per il solo fatto della consegna della merce al vettore, poichè la merce poteva essere recapitata ovunque. Andava infatti rammentato che l’elemento costitutivo della cessione comunitaria era per l’appunto l’invio della merce in altro Stato membro, mancando il quale non poteva riconoscersi il trattamento di non imponibilità previsto dall’art. 41 come convertito dalla L. n. 427 del 1993. Tale principio risultava, del resto, esplicitato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, a cui tenore l’esenzione della cessione era applicabile solo in presenza della prova che la merce aveva lasciato il territorio dello Stato membro di cessione.

3.5 Andava quindi affermato, in linea con la giurisprudenza di questa Corte, che il cedente assume piena responsabilità del compimento delle azioni e che la prova dell’effettivo trasferimento della merce può essere da quest’ultimo assolta anche con la consegna della merce a terzi, purchè venga formalizzato in maniera non equivoca l’obbligo del terzo di effettuare la consegna al cessionario e fuori dal territorio nazionale. Onere che, nel caso di specie, non era stato assolto dall’appellato.

4. La società contribuente ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi, al quale ha resistito l’Agenzia delle Entrate con controricorso. La società contribuente ha depositato memoria.
Motivi della decisione

5. Con il primo motivo la società contribuente ha dedotto violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, artt. 41 e 56, conv.

nella L. n. 427 del 1993, nonchè del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, e dell’art. 1510 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Lamenta che il giudice di merito non aveva fornito una corretta esegesi dell’art.41 cit., ritenendo che la consegna al vettore non costituiva requisito sufficiente per dimostrare l’avvenuta realizzazione della cessione intracomunitaria, richiedendosi che il bene abbia lasciato fisicamente il territorio dello Stato membro di cessione. Poichè nel caso concreto non si era realizzata una vendita "franco fabbrica", in quanto il cedente aveva curato con mezzi propri il trasporto, doveva ritenersi, in forza dell’art. 1510 c.c., che la vendita era stata eseguita con la consegna del bene al vettore, liberandosi il cedente dall’obbligo della consegna invece rimessa al vettore. Pertanto l’art. 41 cit., analogamente alla disciplina civilistica sopra ricordata, non richiedeva in capo al venditore, ormai privatosi della titolarità del bene, l’obbligo di curare il trasferimento fisico delle merce fino alla sua uscita dal territorio nazionale. L’unica ipotesi in cui poteva ritenersi una responsabilità del cedente poteva ricorrere soltanto in ipotesi di partecipazione del venditore ad un accordo fraudolento volto a provocare un danno all’Erario che, nel caso di specie, era stato escluso.

6. Con il secondo motivo la società contribuente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 1687 c.c., e D.L. n. 331 del 1993, art. 41, nonchè della L. n. 1621 del 1960, di ratifica della Convenzione internazionale di Ginevra del 19 gennaio 1956, come modificata dal protocollo di Ginevra del 5.7.1958, reso esecutivo con L. n. 242 del 1982, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

6.1 Precisa che sulla base di alcune risoluzioni successivamente emesse dall’Agenzia delle Entrate era pacifico che la prova della cessione intracomunitaria, in assenza di documenti attestanti la consegna al destinatario per ricevuta, poteva essere fornita con qualsiasi altro documento idoneo a dimostrare l’invio in altro Stato membro. Evidenzia che il CMR con la firma del trasportatore integra tale prova e che la stessa ricorrente aveva prodotto in giudizio la lettera di vettura internazionale, pure riprodotta in ricorso – dalla quale emergeva che il vettore si era obbligato al trasporto presso la Global Trading in Monaco.

Tale documento era stato tralasciato dalla CTR. 7. Con il terzo motivo la società ha dedotto il vizio di omessa o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Lamenta che la CTR, affermando che la stessa non aveva assolto l’obbligo di provare la cessione intracomunitaria, aveva tralasciato di esaminare il documento indicato con il secondo motivo di ricorso.

8. L’Agenzia delle Entrate ha dedotto l’infondatezza di tutti i motivi di ricorso richiamando, quanto al primo motivo, la giurisprudenza della Corte di Giustizia – sent. 27.9.2007 causa C- 184/05-, quanto al secondo la genericità ed astrattezza del quesito di diritto e l’inammissibilità della censura in realtà involgente la valutazione degli elementi probatori, senza dire che il documento richiamato era privo della firma del trasportatore e non era idoneo a dimostrare l’effettiva consegna della merce al destinatario e quanto al terzo l’inammissibilità della censura e comunque la sua infondatezza, risultando la motivazione della sentenza impugnata logicamente motivata.

9. I tre motivi meritano un esame congiunto, stante la loro stretta connessione.

9.1 Occorre muovere dalla premessa che il giudice di appello ha preso le mosse dagli accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza, dai quali era emerso che la Global Trading con sede formale in Germania, aveva in realtà operato presso la sede della Consulservice con sede in Torino. Aggiungeva che i medesimi accertamenti avevano consentito di acclarare che i fornitori della prefata società aveva effettuato dette forniture presso magazzini della Global ubicati in Italia.

9.2 Fatte queste premesse, la CTR ha fatto corretta applicazione del quadro normativo di riferimento che disciplina il sistema delle operazioni intracomunitarie, richiamando puntualmente il contenuto del D.L. n. 331 del 1993, art. 41, comma 1, lett. a). Specificava, ancora, il giudice di appello che incombe sul cedente l’onere di dimostrare che la merce sia giunta in territorio di altro Stato UE’ diverso da quello dello Stato di cessione e che tale prova non era sta fornita dalla società contribuente, non potendosi all’uopo considerare sufficiente il codice identificativo del cessionario nè la consegna al vettore della merce.

9.3 Così facendo, il giudice di appello si è perfettamente uniformato agli insegnamenti espressi da questa Corte in ordine al tema dei presupposti richiesti alla società contribuente per usufruire del beneficio della non imponibilità delle operazioni intracomunitarie, alla stregua dei quali l’onere di provare l’esistenza dello scambio intracomunitario (cioè l’effettivo trasferimento del bene nel territorio di altro Stato membro) grava sul contribuente cedente, che emette la fattura e non applica l’imposta nei confronti del cessionario (D.L. n. 331 del 1993, art. 50, comma 1), dichiarando che l’operazione non è imponibile (D.L. n. 331 del 1993, art. 46, comma 2); ciò proprio in ragione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., secondo il quale l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che legittimano la deroga al normale regime impositivo è a carico di chi invoca la deroga – cfr., da ultimo, Cass. n. 13457/2012 e, in precedenza, Cass. 20575/11, Cass. 3603/09 e Cass. 21956/10 -.

9.4 Pienamente corretto, poi, è risultato il riferimento, compiuto dal giudice di appello, al carattere indefettibile del trasferimento in altro Paese interno all’UE per usufruire della non imponibilità, avendo già questa Corte sottolineato che l’elemento della movimentazione fisica dei beni oggetto di cessione nel territorio dello Stato membro del cessionario deve costituire elemento strutturale della fattispecie normativa, cosicchè la sua mancanza impedisce il riconoscimento dello stesso carattere "intracomunitario" della operazione – Cass. 13457/2012, cit. -.

9.5 Quanto al tema delle modalità con le quali il cedente possa offrire la prova che i beni ceduti siano entrati nel territorio delle Stato membro a cui appartiene il cessionario, al quale la società contribuente si è richiamata sostenendo l’erroneità della decisione nella parte in cui aveva ritenuto necessaria, oltre alla prova della consegna della merce al vettore, quella dell’uscita della merce dal territorio dello Stato membro di cessione, giova rammentare che secondo la giurisprudenza resa dalla Corte di Giustizia spetta al fornitore di beni provare che sono soddisfatte le condizioni di applicazione dell’art. 28 quater, punto A, lett. a), comma 1, cit., della sesta direttiva, comprese quelle imposte dagli Stati membri per assicurare una corretta e semplice applicazione delle esenzioni e prevenire ogni possibile frode, evasione fiscale o abuso (v., segnatamente, Corte giust. 7 dicembre 2010, R, punto 46). Si è pure chiarito che l’art. 22, paragrafo 8, della stessa direttiva, nella versione risultante dall’art. 28 nonies, di quest’ultima, riconosce agli Stati membri la facoltà di adottare provvedimenti diretti ad assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e ad evitare le frodi, purchè, in particolare, non eccedano quanto è necessario per conseguire siffatti obiettivi (v., in tal senso, Corte Giust. 27 settembre 2007, Collie, punto 26, e R, cit., punto 45).

9.6 Tali principi sono stati pienamente ribaditi, anche di recente, da Corte Giust. 27 settembre 2012, causa C-587/10, Vogtlandische Strafien -, Tief – und Rohrleitungsbau GmbH Rodewisch, ove si è nuovamente riconosciuto che gli Stati membri hanno la facoltà di esigere dai fornitori di beni di produrre la prova che l’acquirente è un soggetto passivo, che agisce in quanto tale in uno Stato membro diverso dallo Stato di partenza della spedizione o del trasporto dei beni di cui trattasi, purchè i principi generali del diritto e, in particolare, il requisito di proporzionalità, siano rispettati.

9.7 Quanto al contenuto di siffatto onere, al quale pure la società contribuente ha fatto riferimento, appare ancora una volta utile ricordare come questa Corte, evocando alcune risoluzioni emanate dall’Agenzia delle Entrate(Risoluzione 28 novembre 2007, n. 345/E, Risoluzione 15 dicembre 2008, n. 477/E), ha chiarito che mentre può certamente escludersi che il cedente sia tenuto a svolgere attività investigative sulla movimentazione subita dai beni ceduti dopo che gli stessi siano stati consegnati al vettore incaricato dal cessionario – deve invece affermarsi il dovere del predetto di impiegare la normale diligenza richiesta ad un soggetto che pone in essere una transazione commerciale e, quindi, di verificare con la diligenza dell’operatore commerciale professionale le caratteristiche di affidabilità della controparte – Cass.n. 13457/2012 -, dovendo questi procurarsi mezzi di prova adeguati alle necessità, capaci se non di dimostrare, quanto meno di non lasciare dubbi circa l’effettività dell’esportazione e circa la sua buona fede in ordine a tale dato – cfr., da ultimo, Cass. n. 1670/2013-.

9.8 Resta tuttavia assodato che incombe sul cedente l’onere di provare i presupposti richiesti dal cennato art. 41.

9.9 Non è nemmeno superfluo rammentare che ancora recentemente, l’Agenzia delle Entrate, proprio su impulso di un cedente che aveva consegnato la merce ad un traportatore, è tornata ad occuparsi della questione – Ris. 25 marzo 2013 n. 19/E – precisando che i documenti utili al fine di ritenere provata il trasferimento fuori dal paese in cui si trova il cedente devono comprovare "… che vi è stata la c.d. movimentazione fisica della merce, che deve aver raggiunto un altro Stato membro…", aggiungendo che gli stessi "…sono idonei a fornire prova della cessione intracomunitaria se conservati congiuntamente alle fatture di vendita, alla documentazione bancaria attestante le somme riscosse in relazione alle predette cessioni, alla documentazione relativa agli impegni contrattuali assunti e agli elenchi Intrastat (cfr. Ris. n. 345 del 2007)".

9.10 Tale indirizzo si pone in linea di continuità con la Risoluzione n. 345/E del 28 novembre 2007, ove si era chiarito che il documento di trasporto CMR può costituire prova idonea semprechè dallo stesso risulti "… l’uscita delle merci dal territorio dello Stato per l’inoltro ad un soggetto passivo d’imposta identificato in altro Paese comunitario".

9.11 Ciò, peraltro, nella consapevolezza che la concreta individuazione delle condotte che il cedente deve tenere (o astenersi dal tenere), perchè lo si possa giudicare in buona fede nell’esecuzione di una cessione intracomunitaria non conclusasi con l’effettivo trasferimento dei beni ceduti nello Stato membro di destinazione attiene a valutazioni riservate al giudice di merito in quanto inevitabilmente legate alle specifiche caratteristiche di ciascuna vicenda- Cass. 8132/11 – ma comunque soggette al controllo di logicità e di adeguatezza – in altri termini di correttezza- che la Corte è deputata a svolgere sulla motivazione dell’accertamento di fatto.

9.12 Spetta invece a questa Corte specificare che il tipo di prova adeguato, in questi casi, non è quello diretto ad escludere la prova della malafede, ma è quello che in prima battuta è diretto a provare l’effettività dell’esportazione e, qualora sia invece provato e ammesso che tale esportazione non vi è stata, a provare che il cedente è stato tratto in inganno nonostante avesse adottato le opportune cautele per evitare tale aggiramento.

9.13 Orbene, nel caso di specie la decisione assunta dal giudice di appello è scevra dai profili di illegittimità prospettati dalla società contribuente con il primo motivo, apparendo anzitutto errata la commistione che la ricorrente ipotizza fra disciplina civilistica e la regolamentazione fiscale delle cessioni intracomunitarie sopra succintamente ricordata.

9.14 Per altro verso, del tutto fuori bersaglio risulta la seconda censura che prospetta, con le forme del vizio di violazione di legge- art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – un errore di valutazione delle prove documentali prodotte in giudizio, invece sussumibile nell’alveo del vizio di motivazione – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

9.15 Parimenti infondata risulta la terza censura, proprio in relazione alla sua inidoneità del documento (CMR) riprodotto dalla società contribuente, privo della prova che la merce sia giunta in territorio estero, a conclamare l’uscita dal territorio dello Stato membro di cessione della merce venduta dalla società contribuente.

In questa prospettiva, la decisione della CTR si appalesa correttamente e congniamente motivata, puntualmente evidenziando che gli elementi offerti dalla società contribuente non consentivano di ritenere assolto l’onere probatorio di cui si è detto.

9.16 Così facendo, non pare che il giudice di appello sia incorso nel prospettato vizio di motivazione. Ragion per cui la doglianze esposte dalla parte ricorrente si risolvono nel tentativo, vano, di indurre la Corte a rivisitare le valutazioni di merito offerta in modo congruo e, dunque, in questa sede insindacabili.

10. In conclusione, la sentenza impugnata va esente da critica sicchè il ricorso va rigettato.

11. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in favore dell’Agenzia nella misura di cui al dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società contribuente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 1.500,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 9 luglio 2013.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2013

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