Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-04-2011) 10-06-2011, n. 23425 Dichiarazione dei redditi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 12 novembre del 2008, confermava quella pronunciata con il rito abbreviato il 18 marzo del 2005 dal tribunale della medesima città con cui C.E. B. era stato condannato alla pena ritenuta di giustizia, quale responsabile del reato di cui all’art. 110 c.p. e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 per avere, nella qualità di amministratore di fatto della COSMOS ERRE, società cooperativa a responsabilità limitata e della S.D.S., società cooperativa a responsabilità limitata, in concorso rispettivamente con P.C. e L.R.G., omesso di presentare la dichiarazione annuale dei redditi e dell’IVA in relazione all’anno 1999, per la COSMOS, ed in relazione agli anni 1999 e 2000 per la SDS. La vicenda è stata ricostruita dai giudici del merito nella maniera seguente:

Il 7 marzo 2001, personale del Nucleo Provinciale di Polizia Tributaria di Roma si recò presso la sede del Consorzio SIRCO, sito nella città anzidetta alla (OMISSIS), per una verifica fiscale che doveva essere estesa a varie cooperative socie del consorzio, tra le quali la S.C.I.S. – Società Cooperativa a.r.l., con sede in via (OMISSIS); la S.D.S. s.c.a.r.l, con sede legale in (OMISSIS); la COSMOS ERRE, s.c.a.r.l, con sede dichiarata in (OMISSIS);

la GLOBA SERVS s.c.a.r.l, con sede legale dichiarata in (OMISSIS) e la DELTA 2000 s.c.a.r.l, con sede dichiarata in (OMISSIS).

Presso l’indirizzo di via (OMISSIS) gli operanti rinvennero M.M., il quale, presentatosi quale vicepresidente del Consiglio di Amministrazione del consorzio SIRCO, riferì che il presidente, C.E., si trovava all’estero. Alla richiesta di documenti, dopo aver mostrato una serie di atti riferibili al consorzio, relativi al periodo 1999/2000, esibì un documento attestante che le scritture contabili obbligatorie del Consorzio si trovavano presso lo studio commerciale associato D.S., con sede in (OMISSIS), mentre il libro paga ed il libro matricola si trovavano presso lo studio del rag. D.P.. Gli investigatori contattato telefonicamente lo studio commerciale D. S., appresero che in quello studio non era presente la documentazione richiesta. Si recarono quindi presso la sede legale dichiarata della S.C.I.S., in via (OMISSIS), ove constatarono che al numero civico indicato corrispondeva ad un appezzamento di terreno sul quale erano ubicate tre strutture in lamiera. All’interno di una di esse rinvennero, custoditi alla rinfusa, documenti amministrativo-contabili relativi ad un’altra società – la s.r.l. META, con sede dichiarata in (OMISSIS) – della quale il medesimo C.E. risultava legale rappresentante. Per la riferita assenza del C., i militari contattarono C.T., fratello di E. ed a sua volta socio della s.r.l. META, il quale riferì che la sede effettiva della META si trovava al piano terra dello stesso stabile ove aveva sede la SIRCO, in (OMISSIS), e che lui non era in possesso delle chiavi per accedervi.

Gli operanti, ipotizzando che in quel luogo potessero celarsi prove di fatti costituenti reato, chiesero ed ottennero decreto di perquisizione domiciliare, nel corso della quale rinvennero documentazione amministrativo-contabile riferibile alle società S.C.I.S. – Società Cooperativa Servizi a.rl; S.D.S. s.c.a.r.l;

COSMOS ERRE s.c.a.r.l., GLOBA SERVIS s.c.a.r.l., DEITA’ 2000 s.c.a.r.l. e META s.r.l., documentazione che fu sottoposta a sequestro.

Dai documenti reperiti emerse che la S.D.S., benchè posta in liquidazione in data 29 giugno 2000, aveva continuato ad operare anche dopo quella data, circostanza desumibile dalle fatture rinvenute, emesse fino alla data del 30 dicembre 2000, e dalle domande di ammissione come socio, che risultano essere state presentate fino al mese di gennaio del 2001.

Inoltre, benchè dai verbali del Consiglio di Amministrazione e dal libro soci del consorzio SIRCO la medesima società S.D.S. risultasse essersi dimessa, in data 23 luglio 1999, dalla qualità di socio del consorzio, sono state reperite fatture emesse nei confronti del medesimo consorzio fino al 30 dicembre 2000. Nonostante l’esistenza di fatturazioni relative agli anni 1998, 1999 e 2000, emerse che la società S.D.S. non aveva mai presentato le dichiarazioni fiscali obbligatorie (IVA e imposte dirette), fatta eccezione per l’esercizio 1997, per il quale risultava presentato il mod. 760/98 con valori nulli.

Le attività ispettive eseguite in relazione alla società COSMOS ERRE evidenziarono che anche quest’ultima cooperativa aveva omesso di presentare le dichiarazioni fiscali obbligatorie, fatta eccezione per il 1997 (anno di costituzione), per il quale risulta presentata la dichiarazione ai fini delle imposte dirette, con valori nulli.

Inoltre, la società non aveva depositato i bilanci relativi agli esercizi 1998, 1999 e 2000. Anche La COSMOS ERRE, come la S.D.S., si era dimessa da socio del consorzio alla stessa data del 23 luglio 1999, continuando però ad emettere fatture nei confronti del consorzio medesimo.

L’imponibile delle fatture emesse dalla COSMOS ERRE nell’anno 1999 è stato quantificato in L.2.538.176.485, con IVA evasa pari a L.507.635.297, mentre l’imposta sui redditi evasa è stata calcolata in L.939.125.300. Per la S.D.S., limitatamente ai fatti oggetto del presente processo, emersero, per l’anno 1999, ricavi pari a L.1.328.979.036, con evasione dell’imposta sui redditi calcolata in L.491.722.000, e con evasione dell’IVA pari a L.265.795.807; per l’anno 2000, ricavi pari a L.2.450.381.191, con evasione dell’IVA di L.245.038.000, e dell’imposta sui redditi – pari a L.306.618.548.

Nel corso dell’interrogatorio reso alla P.G. su delega del PM in data 26 marzo 2002, in presenza del difensore di fiducia, P.C. dichiarò che l’omissione delle dichiarazioni fiscali obbligatorie era stata determinata da mera trascuratezza ed inesperienza. Aggiunse che era lui ad occuparsi dell’amministrazione della COSMOS ERRE, provvedendo direttamente a pagare i dipendenti ed a curare la parte amministrativa; precisò che i documenti della società si trovavano solo occasionalmente presso i locali di via (OMISSIS), perchè il C. li aveva ritirati per eseguire delle attività di controllo. A specifica domanda di chiarire come mai non fosse in possesso delle scritture contabili obbligatorie e non fosse a conoscenza della circostanza che la sede della società cooperativa si trovasse in via Nelli, il medesimo si avvalse della facoltà di non rispondere. Successivamente, il 18 marzo del 2003, il predetto si presentò spontaneamente insieme con il proprio difensore e ritrattò le precedenti dichiarazioni precisando che era stato il C. a chiedergli di assumere la carica di legale rappresentante della cooperativa COSMOS ERRE, quando lui era dipendente dello stesso C. da circa due anni, e che in quella circostanza il datore di lavoro si era impegnato a tenerlo indenne da responsabilità penali o di carattere economico o fiscale, senza peraltro mantenere l’impegno, perchè nel momento in cui pervenne l’avviso di pagamento di alcune cartelle esattoriali, il C. si dichiarò estraneo alla gestione della società. Nella stessa circostanza, il P. dichiarò che il C. lo aveva sempre tenuto all’oscuro dell’attività svolta dalla cooperativa; aggiunse che alla data dell’atto (18/3/03) il C. continuava a svolgere la medesima attività.

Il L.R., interrogato dalla P.G. su delega del PM in data 28 marzo 2002, dichiarò che nell’ambito della società S.D.S., della quale risultava legale rappresentante, aveva il ruolo di un semplice dipendente, che si limitava a provvedere alle pulizie e ad organizzare il lavoro che gli veniva delegato dal consorzio SIRCO, con orario lavorativo dalle 9,00 alle 13,00 e dalle 15,00 alle 19,00.

Aggiunse che era il consorzio a provvedere ai pagamenti ed a gestire la società, e che lui stesso veniva retribuito da personale amministrativo del consorzio per l’attività svolta, in contanti oppure con assegni della stessa S.D.S., sempre predisposti dall’amministrazione del consorzio. Nella stessa circostanza il L. R. precisò che aveva accettato l’incarico perchè il C., persona da lui conosciuta perchè aveva eseguito per suo conto dei lavori di carrozzeria, avendo appreso che egli era rimasto senza lavoro, gli aveva proposto di lavorare per lui, dicendogli che aveva bisogno di una persona di fiducia.

Sulla base degli elementi innanzi evidenziati è stata affermata la responsabilità dell’imputato per il delitto contestatogli.

Ricorre per cassazione il prevenuto per mezzo del proprio difensore deducendo:

1) la violazione degli artt. 64 e 350 c.p.p., per avere la Corte affermato la responsabilità dell’imputato sulla base di elementi di prova inutilizzabili perchè acquisiti in violazione dei divieti imposti dalla legge, disattendendo la relativa eccezione e più precisamente sulla base delle dichiarazioni spontanee rese dal P. alla Polizia il 18 marzo del 2003 in assenza degli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, a nulla rilevando che gli avvertimenti previsti dalla norma fossero stati effettuati precedentemente durante il primo interrogatorio;

2) violazione degli artt. 430 e 191 c.p.p. in relazione al mezzo di annullamento di cui all’art. 606, lett. c), per avere la sentenza impugnata affermato la responsabilità del prevenuto sulla base di elementi probatori inutilizzabili perchè assunti dopo il decreto di citazione a giudizio, a nulla rilevando che il decreto di citazione a giudizio sia stato successivamente dichiarato nullo;

3) Violazione degli artt. 125 e 546 c.p.p. in relazione ai mezzi di annullamento di cui all’art. 606, lett. b) ed e) per avere la corte affermato la responsabilità del prevenuto con motivazione carente ed illogica posto che lo stesso non aveva alcun obbligo giuridico di presentare la dichiarazione; si assume che, all’amministratore di fatto può essere ascritta una penale responsabilità limitatamente agli atti compiuti ma non a condotte omissive relative a fatti per i quali non ha alcun obbligo di ingerirsi, 4) violazione dell’art. 110 c.p. per avere la Corte affermato la responsabilità del prevenuto a titolo di concorso morale senza la prova della partecipazione dello stesso alla sussistenza di qualsiasi forma di causalità psicologica con la condotta dei compartecipi;

5) omessa motivazione sull’affermazione di responsabilità;

sull’eccessività della pena e dell’aumento per la continuazione nonchè sull’istanza subordinata di conversione della pena.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza di tutti i motivi.

Con riferimento al primo si osserva che il ricorrente confonde l’interrogatorio con le dichiarazioni spontanee. Come già anticipato nella parte narrativa, il P. era stato già sentito come indagato dalla Polizia alla presenza del proprio difensore di fiducia ed in quella occasione ricevette gli avvertimenti di rito. In quell’interrogatorio l’indagato si giustificò asserendo di avere omesso di presentare la dichiarazione per trascuratezza Successivamente si presentò spontaneamente alla polizia insieme con il proprio difensore ed alla presenza di questi spontaneamente precisò che egli era in realtà solo un prestanome che era stato il C. a chiedergli di assumere la carica di amministratore dicendogli che sarebbe stato esonerato da qualsiasi responsabilità.

Ciò premesso, il ricorrente non contesta che si tratti di dichiarazioni spontanee, ma sostiene che le stesse sarebbero ugualmente inutilizzabili anche nel giudizio abbreviato perchè non erano stati reiterati gli avvisi di cui all’art. 64, comma 2 ancorchè formulati in occasione del primo interrogatorio.

L’assunto non può essere condiviso perchè in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte.

Le dichiarazioni spontaneamente rese dall’indagato alla polizia sono previste dall’art. 350, comma 7, il quale dispone che le stesse non possono essere utilizzate nel dibattimento tranne che per le contestazioni. L’inutilizzabilità è quindi limitata alla fase dibattimentale e non si estende al giudizio abbreviato (cfr per tutte Cass. n. 18064 del 2010). Inoltre l’inutilizzabilità non riguarda nè le dichiarazioni favorevoli all’indagato nè quelle relative a persone coinvolte dall’indagato (cfr. Cass. Sez. Un. 9 ottobre 1996 Carpanelli), Infine alle dichiarazioni spontanee rese da chi ha assunto la qualità di indagato non si applica la disciplina di cui agli artt. 63 e 64 c.p.p. prevista e richiamata solo per le dichiarazioni sollecitate o provocate dalla polizia (Cass. sez. 5^, Di Stadio e altro, rv. 231.689 e Sez. 2, 24/1/06, Falco e altro, rv.

232.994; Cass. n. 444990 del 2007 rv238702; Cass. n. 34151 del 2008, rv241466; Cass. n. 460940 del 2008 rv 241776; Cass. n. 48508 del 2009, 18064 del 2010). Invero l’art. 63, comma 1 concerne l’esame di persona non imputata o non sottoposta ad indagini mentre l’art. 64 riguarda l’interrogatorio dell’indagato che, come accennato, è atto diverso dalle spontanee dichiarazioni.

In conclusione le dichiarazioni spontaneamente rese dal P., nella parte in cui coinvolgono l’attuale ricorrente, non pongono alcun problema d’inutilizzabilità, ma solo di verifica della loro attendibilità a norma dell’art. 192 c.p.p., comma 3 verifica che è stata adeguatamente compiuta dai giudici del merito con motivazione congrua con la quale sono stati indicati anche i riscontri estrinseci desumibili da altre analoghe dichiarazioni resa dal L.R. e dagli accertamenti compiuti dalla Polizia, ai quali siffatto riferimento nella parte narrativa.

Manifestamente infondato è anche il secondo motivo perchè ancora una volta si confonde l’attività integrativa d’indagine svolta dal pubblico ministero dopo il decreto che dispone il giudizio con la ricezione di dichiarazioni spontanee da parte della polizia. L’art. 430 c.p.p. vieta al pubblico ministero (ed al difensore) dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, di compiere atti per i quali è prevista la presenza del difensore o dell’imputato, ma non gli vieta di compiere altre indagini o di ricevere dall’indagato dichiarazioni spontanee. In definitiva dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio il pubblico ministero non può convocare l’imputato per interrogarlo, ma non può rifiutarsi di ricevere e verbalizzare dichiarazioni spontanee rese dall’indagato alla presenza del proprio difensore di fiducia e soprattutto la norma citata dal ricorrente non vieta alla polizia giudiziaria di ricevere, dopo che è stato disposto il giudizio, dichiarazioni spontanee utili all’accertamento dei fatti. Ad esempio, anche dopo che è stato disposto il giudizio, la polizia giudiziaria ed il pubblico ministero non possono rifiutarsi di ricevere e documentare le dichiarazioni rese spontaneamente da un indagato in merito alla responsabilità di altri o al luogo dove è stato occultato il cadavere dell’ucciso o la refurtiva o l’intenzione dei complici di compiere atti di terrorismo.

In definitiva le dichiarazioni spontanee non possono assolutamente essere parificate a quelle provocate dagli investigatori.

Del pari manifestamente infondati sono il terzo ed il quarto motivo, che vanno esaminati congiuntamente perchè strettamente connessi.

In fatto si è accertato che l’amministratore delle varie società coinvolte nel presente processo era il C. il quale si serviva della sede del consorzio sita in via Siciliana dove erano predisposte le buste paghe e gli assegni di pagamento delle maestranze o dove si trovava tutta la contabilità relativa alle società e dove, tra l’altro, erano stati rinvenuti timbri delle varie società e fogli in bianco con in calce la firma dei rispettivi legali rappresentanti, i quali erano dei dipendenti che non si erano mai interessati della gestione e che erano stati designati come legali rappresentanti al solo scopo di non fare apparire all’esterno il C., che era il vero amministratore delle società. Secondo gli accertamenti compiuti dai giudici del merito le società cooperative consorziate erano mere strutture di comodo utilizzate dal predetto per un’autonoma attività imprenditoriale con finalità lucrative. Il vero dominus della situazione era quindi il C..

In tale situazione fattuale legittimamente i giudici del merito, richiamando anche la giurisprudenza di questa Corte che in materia societaria, ai fini della responsabilità penale, ha parificato l’amministratore formalmente nominato a quello di fatto, ovviamente allorchè, come nella fattispecie, quello formalmente nominato sia solo un prestanome o come si dice una mera testa di paglia, hanno ritenuto che l’ispiratore delle condotte commissive o omissive formalmente imputabili al legale rappresentante sia il C. che era il vero gestore delle varie società.

Il ricorrente contesta la ritenuta compartecipazione nel reato omissivo in questione del C.. In proposito, partendo dalla premessa che obbligato alla presentazione della dichiarazione sia solo il legale rappresentante della società, sostiene che l’estraneo non potrebbe concorrere nel reato omissivo proprio, commesso dal legale rappresentante perchè non è formalmente titolare di alcuna posizione di garanzia e quindi non ha l’obbligo di impedire l’evento.

La tesi non può essere condivisa perchè porta a risultati iniqui e non è giuridicamente corretta.

Determina risultati palesemente iniqui perchè si addebitano al solo prestanome, per il semplice fatto di avere assunto formalmente la carica di amministratore, tutte le omissioni civilmente o penalmente imputabili a colui che di fatto ha gestito la società mentre rimarrebbe esente da responsabilità civile o penale per i fatti omissivi proprio colui il quale ha il potere ed il dovere di compiere l’azione omessa: nella fattispecie la presentazione della dichiarazione dei redditi. Il prestanome sovente, come avvenuto nella fattispecie, non ha neppure il potere di compiere l’azione doverosa o di impedire che essa sia omessa dall’amministratore di fatto. Nel caso in esame il prestanome, non disponendo neppure delle scritture contabili e degli altri documenti societari, non aveva la possibilità di presentare la dichiarazione.

E’ giuridicamente erronea perchè non tiene conto sia del consolidato indirizzo di questa Corte in materia di amministratore di fatto che degli orientamenti della dottrina nonchè di esplicite disposizioni normative. Invero la dottrina e la giurisprudenza, in presenza di situazioni come quella in esame ossia in presenza di prestanomi, hanno sempre ritenuto irrilevante l’etichetta per privilegiare il concreto espletamento della funzione. Tale orientamento costituisce il recepimento sul piano positivo del cosiddetto criterio funzionalistico o dell’effettività in forza del quale il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente rivestita ovviamente quando alla qualifica non corrisponda l’effettivo svolgimento delle funzioni proprie della qualifica, come avvenuto nella fattispecie.

L’equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti è stato affermata da questa Corte sia nella materia civile che in quella penale e tributaria (Cfr nella materia civile Cass. 5 dicembre del 2008 n. 28819; 12 marzo 2008, n. 6719; Sez. un. civile 18 ottobre 2005 n. 2013; in quella penale per tutte Cass. 7203 del 2008, Cass. n. 9097 del 1993 e per le violazioni tributarie cfr.

Cass. Sez. quinta civile n 21757 del 2005; Cass. pen. n. 2485 del 1995).

Limitando l’indagine alla responsabilità dell’amministratore di fatto nei reati omissivi propri formalmente imputabili al prestanome, la prospettiva dalla quale parte il ricorrente deve essere capovolta nel senso che, in base ai principi dianzi esposti, il vero soggetto qualificato non è il prestanome ma colui il quale effettivamente gestisce la società perchè solo lui è in condizione di compiere l’azione dovuta mentre l’estraneo è il prestanome. A quest’ultimo una corresponsabilità può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all’art. 2392 cod. civ., in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi.

Nelle occasioni in cui questa corte si è occupata di reati, anche omissivi, commessi in nome e per conto della società, ha individuato nell’amministratore di fatto il soggetto attivo del reato e nel prestanome il concorrente per non avere impedito l’evento che in base alla norma citata aveva il dovere di impedire. Proprio perchè il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d’ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, questa corte ha fatto ricorso alla figura del dolo eventuale; si è sostenuto cioè che il prestanome accettando la carica ha anche accettato i rischi connessi a tale carica (cfr. Cass. 26 gennaio, 2006 n. 7208; Cass. 6 aprile 2006 n. 22919, Cass. 26 novembre 1999 Dragomir Rv 215199) Si può discutere se ed entro quali limiti la mera assunzione della carica possa giustificare l’affermazione di responsabilità anche del prestanome, ma è fuori discussione che l’autore principale è colui che, sia pure di fatto, ha l’amministrazione della società.

Con specifico riferimento al reato in esame, si deve rilevare che, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 1 i soggetti obbligati alla presentazione della dichiarazione sono tutti i soggetti che possiedono redditi anche se non consegue alcun debito d’imposta e coloro che sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili. In base al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 1, comma 4 la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta a pena di nullità dal rappresentante legale e, in mancanza, da chi ne ha l’amministrazione anche di fatto, o da un rappresentante negoziale.

Il rappresentante legale si deve considerare mancante, non solo quando manca la nomina, ma anche in presenza di un prestanome che non ha alcun potere o ingerenza nella gestione della società e, quindi, non è in condizione di presentare la dichiarazione perchè non dispone dei documenti contabili detenuti dall’amministratore di fatto. In tale situazione l’intraneo è colui che, sia pure di fatto, ha l’amministrazione della società mentre al prestanome il fatto potrebbe essergli addebitato a titolo di concorso a norma dell’art. 2392 c.c. e art. 40 cpv c.p. a condizione che ricorra l’elemento soggettivo proprio del singolo reato.

Tale principio si riscontra anche in materia di sanzioni amministrative tributarie. Il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 11 parifica il legale rappresentante all’amministratore di fatto sancendo formalmente la diretta responsabilità per le sanzioni anche degli amministratori di fatto.

Il principio dell’equiparazione dell’amministratore di fatto a quello di diritto è stato recentemente recepito dal legislatore in occasione della riforma del diritto societario. Dispone l’art. 2639 c.c. introdotto con il D.Lgs. n. 6 del 2003, che per i reati societari previsti dal titolo quindicesimo del libro quinto del codice civile al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge è equiparato chi esercita in materia continuativa i poteri previsti dalle legge.

La norma, ancorchè riferita esplicitamente ai reati societari previsti dal codice civile, contiene la codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori penali dell’ordinamento e per la sua natura interpretativa è applicabile anche ai fatti pregressi (sull’applicabilità ai fatti pregressi cfr. in motivazione Cass. n. 7203 del 2008). Tale principio incide non solo sulla configurabilità del concorso dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi propri, nel senso che autore principale del reato è proprio l’amministratore di fatto salva la partecipazione di estranei all’amministrazione secondo le regole del concorso di persone nel reato.

Sulla base della considerazioni dianzi svolte appare palese che la tesi del ricorrente, secondo il quale l’amministratore di fatto non potrebbe rispondere del reato in questione nè come autore diretto nè come concorrente, è palesemente infondata perchè in contrasto con orientamenti consolidati della dottrina e della giurisprudenza e con lo stesso dettato normativo.

Con riferimento al quinto motivo si osserva che la censura relativa all’omessa motivazione sulla responsabilità si risolve in una reiterazione, peraltro generica, di analoga censura avanzata con i motivi d’appello e puntualmente disattesa dalla Corte territoriale senza la specifica indicazione dei vizi del ragionamento dei giudici censurati, fatta eccezione per la questione dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni spontanee del P. già esaminata.

Come già accennato, le dichiarazioni del P. sono state confermate non solo da quelle del L.R., ma dagli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza.

La determinazione della pena rientra nella competenza esclusiva del giudice del merito e si sottrae al sindacato di legittimità se non è manifestamente spropositata e nella fattispecie non lo è.

La richiesta di conversione della pena detentiva non può essere formulata per la prima volta davanti alla cassazione.

L’inammissibilità del ricorso per la manifesta infondatezza dei motivi impedisce di dichiarare la prescrizione eventualmente maturata dopo la sentenza impugnata, o anche prima, ma non dedotta dalla parte o rilevata dal giudice secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze del 22 novembre 2000, De Luca e 22 marzo del 2005, Bracale).

Dall’inammissibilità del ricorso discende l’obbligo di pagare le spese processuali e di versare una somma, che stimasi equo determinare in Euro 1000, 00, in favore della Cassa delle Ammende, non sussistendo alcuna ipotesi di carenza di colpa del ricorrente nella determinazione della causa d’inammissibilità secondo l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 186 del 2000.
P.Q.M.

LA CORTE Letto l’art. 616 c.p.p.;

DICHIARA inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1000, 00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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