Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 19-04-2011) 10-06-2011, n. 23478 Mezzi di prova

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

e ha insistito nell’accoglimento dei motivi di ricorso.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 17 giugno 2010, la Corte di appello di Salerno confermava la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva ritenuto D.C.A. responsabile del reato di falsa testimonianza e che lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, con i benefici di legge.

Al D.C. era addebitato di aver deposto il falso, sentito dinanzi al Tribunale di Salerno in qualità di parte offesa di un’estorsione, nel procedimento penale a carico di F.A. ed altri, imputati di partecipazione all’associazione di stampo camorristico, denominata "clan Forte", e di estorsione continuata.

Il D.C., imprenditore edile, aveva dichiarato in particolare di aver affidato i lavori di sbancamento e scavo in un cantiere di (OMISSIS) alla ditta "Costruzioni generali" – formalmente intestata a D.G., ma in realtà di esclusiva proprietà di F.G. – non per le particolari modalità minacciose della richiesta avanzatagli da costoro (accompagnata dalla frase "tutti dobbiamo campare"), bensì per una sorta di obbligo morale derivante da un pregresso rapporto contrattuale per una fornitura di calcestruzzo effettuata alla suddetta ditta, una volta ottenutane l’integrale pagamento; inoltre aveva riferito che sin dall’inizio dei lavori aveva deciso di ripartire in tre lotti i lavori di sbancamento e scavo, da affidare a tre imprese, tra le quali la ditta del D..

In motivazione, la Corte territoriale condivideva a pieno il giudizio formulato in prime cure in ordine alla responsabilità dell’imputato, non ritenendo in alcun modo credibile la versione dei fatti resa nella deposizione testimoniale circa i motivi che lo avevano determinato ad affidare alla ditta riferibile ai F. i lavori di sbancamento. In particolare, la Corte riteneva provata l’estorsione compiuta dagli esponenti del clan Forte ai danni del D.C., sulla base della sentenza irrevocabile ed acquisita al giudizio ex art. 238 bis c.p.p., con la quale erano stati condannati D.G. e F.G. per il reato di estorsione, corroborata da ulteriori riscontri, costituiti da elementi di prova sia rappresentativa che logica. Secondo la Corte di merito, la tesi dell’obbligo morale appariva intrinsecamente inverosimile sia per l’entità del credito – di gran lunga inferiore all’importanza dell’appalto – sia per l’assenza di competenza specifica nel settore degli scavi della ditta dei F. – testimoniata dal fatto che solo pochi giorni prima dell’affidamento dei lavori si era procurata i macchinari necessari.

In ogni caso, contrastavano con la versione fornita dal D.C. le testimonianze degli imprenditori che, secondo costui, dovevano dividersi i lavori con la ditta dei F.. Costoro avevano infatti riferito di essere stati contattati dal D.C. mesi prima per i lavori di sbancamento in questione e di non aver poi ricevuto alcun riscontro all’offerta, comportamento che veniva giustificato dal D. C. con la seguente spiegazione: "i tre scavi dovevano farli quelli della ditta Forte". 2. Avverso la suddetta sentenza, propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato.

Con un primo motivo denuncia la violazione dell’art. 207 c.p.p., comma 2, e art. 529 c.p.p., per omessa declaratoria dell’improcedibilità dell’azione penale, avendo la Corte di Appello rigettato la questione sollevata dalla difesa (sin dall’udienza preliminare), relativa alla mancanza della condizione di procedibilità prevista dall’art. 207 c.p.p., comma 2.

Secondo il ricorrente, il procedimento a carico del D.C. si sarebbe dovuto definire con una sentenza di non luogo a procedere per difetto di una "condizione di procedibilità", atteso che il giudice del procedimento principale – in cui il D.C. avrebbe commesso il reato di falsa testimonianza – non aveva ravvisato, a carico del teste, gli indizi del reato di cui all’art. 372 c.p., non disponendo la trasmissione degli atti all’Ufficio del pubblico ministero.

Osserva il ricorrente che la ratio della disposizione contenuta nell’art. 207 c.p.p., sarebbe quella di proteggere il testimone da tutte le fonti di possibile condizionamento, al fine di assicurare la massima genuinità delle risposte, e di porlo – attraverso l’ammonimento del giudice ed il reiterato avvertimento dell’obbligo di dire la verità – nelle condizioni di percepire il rischio cui potrebbe andare incontro a causa delle dichiarazioni rese o non rese, determinandosi, eventualmente e spontaneamente, a ritornare sui suoi passi e ritrattare la versione dei fatti fornita. E per tale ragione la norma riserverebbe al solo giudice di dare impulso al procedimento per falsa testimonianza a carico del testimone, risultando, conseguentemente, precluso al pubblico ministero di perseguire, autonomamente e di propria iniziativa, i testimoni ritenuti sospetti di falsità.

Con un secondo motivo, si deduce l’inosservanza dell’art. 238 bis c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3, in relazione all’utilizzazione come prova della sentenza che ha condannato il F. e il D. per l’estorsione ai danni dell’imputato, pure in carenza del necessario riscontro di ulteriori elementi probatori che confermino l’accertamento compiuto. Il convincimento del giudice si sarebbe fondato sui medesimi dati probatori, ovvero le dichiarazioni rese da M.G., P.G. e P.D..

Con un terzo motivo, il ricorrente lamenta la assoluta carenza della motivazione, anche per l’omessa valutazione di elementi decisivi rappresentati dalla difesa, con i quali era stato denunciato un quadro di profonda incertezza probatoria, inidoneo a sostenere, oltre ogni ragionevole dubbio, l’affermazione di colpevolezza del D. C.. Si sostiene al riguardo che la Difesa aveva espresso le proprie doglianze in un articolato atto di appello, censurando, punto per punto, la motivazione della sentenza di primo grado, sia perchè non corrispondente al materiale probatorio acquisito al processo, sia perchè, sotto plurimi profili, illogica e contraddittoria.

In particolare, in relazione alla affermazione dei giudici in prime cure dell’inverosimiglianza della tesi sostenuta dall’imputato circa i motivi che lo avevano spinto a scegliere la ditta "Costruzioni Generali" sol perchè la data della fattura era di molti mesi prima l’affidamento dell’incarico, la difesa aveva dedotto in appello che la data della fattura nulla dimostrava circa il momento in cui era stato effettuato il relativo pagamento, posto che quest’ultimo poteva essere successivo l’emissione della fattura.

Si rileva inoltre che, con l’appello, era stato sostenuto che le dichiarazioni rese dal D.C. in dibattimento non erano contrastanti con quelle verbalizzate dagli agenti di polizia giudiziaria, in quanto in sede di deposizione dibattimentale l’imputato aveva dichiarato che le stesse, apparentemente diverse, circostanze (ovvero i motivi per i quali aveva affidato i lavori alla ditta del D. e la data del pagamento dell’assegno per la fornitura) erano state riferite ai carabinieri, ma non verbalizzate.

La difesa aveva rappresentato a tal riguardo l’approssimatività della verbalizzazione operata dai carabinieri di un colloquio di più ampia portata durato molte ore e connotato da vivace dialettica tra chi tentava di ottenere una ben precisa risposta e chi, invece, si ostinava a ribadire altro.

Si deduce altresì che, nell’atto di appello, la difesa aveva svolto ampie argomentazioni sulla frase "tutti dobbiamo campare", la cui valenza minacciosa era stata ritenuta dai giudici del processo contro il clan Forte, ma che non implicava affatto la falsa testimonianza del D.C., in quanto costui non aveva percepito nella stessa alcuna minaccia. Altre considerazioni era state svolte infine sulla assenza di divergenze tra le dichiarazioni rese dall’imputato circa la sua decisione di dividere i lavori tra le tre ditte e quelle rese dagli altri testi (in particolare, prima dell’intervento degli inquirenti, tale decisione era già stata comunicata a P. D., come risulta dalle dichiarazioni di quest’ultimo rese in data 6 luglio 1999) e sulla sussistenza dell’elemento soggettivo.

Su tutti tali punti, secondo il ricorrente, la Corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi, limitandosi a fare integrale rinvio alla sentenza di primo grado, a svolgere considerazioni di carattere puramente logico ed a trascrivere alcune delle dichiarazioni del M. e dei P., senza neanche sforzarsi di sottoporle a valutazione e di confrontarle con l’asserita falsa testimonianza del D.C..
Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato e deve essere pertanto rigettato.

2. Quanto al primo motivo, deve ribadirsi che la trasmissione degli atti al pubblico ministero da parte del giudice del dibattimento, ai sensi dell’art. 207 c.p.p., perchè proceda nei confronti del testimone sospettato di falsità o reticenza e del testimone renitente, non costituisce una condizione di procedibilità dell’azione penale (Sez. 6, n. 33709 del 13/04/2010, dep. 16/09/2010, P.S., non mass.).

Infatti, così come non è dubbio che l’esercizio del potere-dovere del giudice di trasmettere gli atti al pubblico ministero non vincola il pubblico ministero all’esercizio dell’azione penale, in quanto non incide sul suo potere di chiederne l’archiviazione, altrettanto indubbio è che la mancata trasmissione degli atti stessi non gli sottrae il potere di esercitarla.

La lettura della norma proposta dal ricorrente – che verrebbe a giustificarsi con la intenzione del Legislatore di salvaguardare la libertà di autodeterminazione del testimone – risulta non trovare fondamento proprio nella Relazione al progetto preliminare del codice di rito, dalla quale si evince al contrario che "anche in assenza di una tale notitia criminis, il pubblico ministero potrà promuovere l’azione penale contro il testimone in base a una propria autonoma valutazione di falsità della deposizione e in qualsiasi momento:

perciò, anche prima che il processo in cui il teste ha deposto sia stato concluso con sentenza irrevocabile e, al limite, mentre è ancora in corso il relativo dibattimento" (Rel. prog. prel., 64). Si è invero ritenuto in sede di elaborazione del codice che una diversa soluzione avrebbe determinato la procrastinazione di ogni iniziativa del pubblico ministero alla conclusione con sentenza irrevocabile del processo principale, con il rischio di una impunità di fatto per i testimoni falsi. Alle medesime conclusioni si è tra l’altro assestata l’opinione prevalente della Dottrina.

Nè alcuna influenza può assumere sulla configurabilità del reato ascritto al prevenuto la mancanza dell’avvertimento previsto dall’art. 207 c.p.p., comma 1, (Sez. 2, n. 31384 del 16/07/2004, dep. 06/07/2004, Caddeo, Rv. 229730). Tale norma, invero, dispone che, se nel corso dell’esame un testimone renda dichiarazioni contraddittorie, incomplete e contrastanti con le prove già acquisite, il presidente o il giudice glielo fa rilevare, rinnovandogli, "se del caso", l’avvertimento previsto dall’art. 497 c.p.p., comma 2. L’espressione "se del caso", usata dal legislatore, implica di per sè il carattere non obbligatorio di tale adempimento, la cui omissione non comporta tra l’altro alcuna sanzione processuale.

Privo di pregio giuridico è altresì il rilievo secondo cui, non essendo stata attivata la sequela procedimentale di cui all’art. 207 c.p.p., l’imputato non è stato posto in condizione di ritrattare utilmente. Già questa Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 376 c.p., nella parte in cui prevede la possibilità della ritrattazione, quando il reato di falsa testimonianza sia contestato successivamente alla chiusura del dibattimento, in cui è stata resa la deposizione incriminata (cfr. Sez. 6, n. 8459 del 16/05/1975, dep.30/08/1975, Rondina, Rv. 131638). Finalità primaria dell’art. 376 c.p. è infatti quella di favorire l’accertamento della verità nel processo in cui la testimonianza è stata resa, prima ancora che soddisfare l’interesse del falso testimone ad evitare la sanzione comminata per il reato ormai posto in essere (Corte cost. nn. 206 del 1982, 26 del 1974). La punibilità, dunque, viene esclusa per ragioni di tutela del bene protetto, in una prospettiva essenziale di eliminazione degli effetti ulteriormente lesivi del fatto illecito già realizzato. In questa prospettiva, la ritrattazione è manifestazione di un ravvedimento operoso, e come tale atto personale e "volontario" del falso testimone, che si caratterizza, rispetto ad altre forme di riparazione positiva, in ragione della peculiare natura del fatto stesso cui il soggetto vuole, appunto, riparare, per essere rivolta al processo nel quale il falso ebbe ad intervenire e per la conseguente necessità di doversi quindi esplicare, a sua volta, in tale processo (nonchè, in tempo ed in modo utili allo svolgimento ed alla conclusione di questo).

2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

La Corte di appello ha fatto corretta applicazione della regola probatoria contenuta nell’art. 238 bis c.p.p..

Tale norma, nel prevedere che le sentenze irrevocabili possono essere acquisite al processo ai fini della prova del fatto, stabilisce che le stesse sono valutate a norma dell’art. 187 c.p.p., e art. 192 c.p.p., comma 3. Ciò vuoi dire che le sentenze emesse in altro procedimento, benchè divenute irrevocabili, non costituiscono piena prova dei fatti in esse accertati, ma necessitano di riscontri esterni dei quali il giudice deve dare motivatamente atto. Tali riscontri possono consistere in qualsiasi elemento o dato probatorio, non predeterminato nella specie e qualità, e quindi in elementi di prova sia rappresentativa che logica.

Nel caso di specie, la Corte di Appello ha utilizzato, quale elemento di conferma dei fatti accertati nella menzionata sentenza definitiva, le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari dallo stesso D.C.nel procedimento a carico del clan Forte e dai testi M.G. e dai fratelli P.D. e P. G..

Contrariamente all’assunto della difesa, l’art. 238 bis c.p.p. non esclude affatto che i riscontri esterni possano essere individuati in elementi già utilizzati nell’altro giudizio, sempre che gli stessi non vengano recepiti acriticamente, ma siano sottoposti a nuova ed autonoma valutazione da parte del giudice procedente (Sez. 6, n. 42799 del 30/09/2008, dep. 17/11/2008, Campesan, Rv, 241860).

La ratto della norma ora citata è infatti quella di non disperdere elementi conoscitivi acquisiti in provvedimenti che hanno acquistato autorità di cosa giudicata, fermo restando il principio del libero convincimento del giudice, nel senso che l’utilizzazione ai fini del decidere di risultanze di fatto emergenti dalle sentenze divenute irrevocabili implica innanzi tutto l’accertamento della rilevanza di dette risultanze in relazione all’oggetto della prova e poi una verifica in ordine alla sussistenza o meno degli indispensabili elementi esterni di riscontro individualizzanti, di qualsiasi natura, da acquisire nel contraddittorio delle parti, che ne confermino la valenza di elemento di prova, per legge non autosufficiente (Sez. 1, n. 12595 del 16/11/1998, dep. 01/12/1998, Hass, Rv. 211768).

Tali elementi, per la possibilità della circolazione della prova offerto dall’art. 238 c.p.p., possono essere quindi anche i verbali di prove utilizzati nel procedimento a quo, purchè sia preservata l’autonomia delle valutazioni giudiziali.

Nel caso in esame, il giudice del gravame non si è limitato a recepire ed utilizzare, ai fini decisori, i fatti e i giudizi contenuti nei passaggi argomentativi della precedente sentenza passata in giudicato, ma ha proceduto ad un’autonoma valutazione critica delle circostanze rilevanti, individuando gli elementi di riscontro che confermano la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli.

Va infine osservato che se è corretto rilevare che, attraverso l’acquisizione in dibattimento delle sentenze irrevocabili ex art. 238 bis c.p.p., non può darsi improprio ingresso ai verbali di dichiarazioni raccolte in altro procedimento, in violazione alle regole previste dall’art. 238 c.p.p. (Sez. 3, n. 8823 del 13/01/2009, dep. 27/02/2009, Cafarella, Rv. 242768), nel caso in esame il rilievo difensivo appare del tutto infondato, posto che l’utilizzazione dei suddetti verbali è avvenuta, come si evince dalla sentenza impugnata, a norma dell’art. 238 c.p.p., comma 4. Tra l’altro, la stessa difesa dell’imputato nulla aveva eccepito nei motivi di appello circa la loro utilizzazione in contrasto con l’art. 238 c.p.p..

3. Quanto infine al dedotto vizio di motivazione, le doglianze sono infondate, ai limiti dell’inammissibilità.

La sentenza impugnata resiste infatti ai denunciati vizi motivazionali, in quanto il ragionamento probatorio della Corte di appello si rivela articolato – come in narrativa esposto in sintesi e nei suoi punti più salienti – e rispettoso dei canoni di ordine logico, che devono orientare il giudice di merito nelle scelte da compiere nel proprio lavoro di ricostruzione storica dei fatti da provare. La Corte ha esposto le ragioni, per le quali i fatti non potessero essere ricostruiti nel senso indicato dall’imputato, fornendo le risposte ai punti critici della ricostruzione operata dal giudice di primo grado.

La sentenza impugnata ha infatti superato quei rilievi formulati nell’atto di appello, che ora il ricorrente ripropone pedissequamente, senza confrontarsi con le valutazioni in proposito espresse dal giudice del gravame, risultando pertanto l’atto di impugnazione non in sintonia con le ragioni motivazionali del gravato provvedimento.

In particolare, con riferimento ai rilievi difensivi svolti avverso la sentenza di prime cure, con i quali si intendeva dimostrare che non era probante, al fine della credibilità della versione fornita dal D.C., la data della fatturazione effettuata a favore della ditta riferibile ai fratelli F., la Corte di appello ha considerato che la prova della falsità delle dichiarazioni discendeva non dalla circostanza valorizzata dal primo giudice, bensì da altri elementi di prova. Pertanto, perdeva di rilevanza e decisività la dimostrazione – sollecitata dalla difesa – della non contestualità dell’emissione della fattura e del relativo pagamento che avrebbe giustificato l’affidamento dell’incarico.

Quanto alla tesi difensiva del D.C. di aver riferito anche ai verbalizzanti i motivi per i quali aveva affidato i lavori alla ditta del D. (sdebitarsi da un obbligo morale), la Corte di appello ha ritenuto che, in ogni caso, la versione riferita dall’imputato nel processo contro il clan Forte era priva di intrinseca verosimiglianza, considerate sia l’entità del pregresso credito (solo L. 8 milioni) rispetto al più vantaggioso appalto concesso in cambio, sia la circostanza riferita dagli stessi rappresentanti della "Costruzioni generali" che solo pochi giorni prima dell’affidamento dell’incarico la ditta aveva acquistato i macchinari per i lavori (così dimostrando anche di non avere nessuna competenza nel settore specifico degli sbancamenti).

Va qui ribadito che nella valutazione probatoria giudiziaria è corretto e legittimo fare ricorso alla verosimiglianza ed alle massime di esperienza. E’ tuttavia necessario – affinchè il giudizio di verosimiglianza sia logicamente e giuridicamente accettabile – che si possa escludere plausibilmente ogni alternativa spiegazione che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile (Sez. 6, n. 4668 del 28/03/1995, dep. 27/04/1995, Layne, Rv. 201152).

E a tal fine la Corte di appello richiamava, quale sicura conferma della inverosimiglianza della versione resa dal D.C., le testimonianze di M.G., P.G. e P. D., che riferirono di essere stati contattati mesi prima dal D. C. per affidare loro i lavori di sbancamento, ma di non aver poi ricevuto alcuno riscontro all’offerta (così P.G.) e di aver appreso dallo stesso D.C. che non aveva potuto affidare loro i lavori, perchè "i tre scavi dovevano farli quelli della ditta Forte" (così P.D.). Proprio tale ultima frase – hanno sottolineato i giudici a quibus – eliminava ogni possibile dubbio sulle ragioni che avevano spinto il D.C. ad affidare i lavori alla ditta dei F..

Alla luce di tali argomentazioni, risultano pertanto prive di decisività le doglianze contenute nell’atto di appello in ordine alla percezione da parte del D.C. della valenza minacciosa della frase "tutti dobbiamo campare", avendo la Corte di appello tratto aliunde – e non solo da tale frase – la dimostrazione che l’affidamento dell’incarico alla ditta dei F. fu una scelta "obbligata" per il D.C..

Quanto alla censura relativa al mancato esame del motivo riguardante la comparazione tra le dichiarazioni rese dall’imputato e quelle degli altri testi, va rilevato che la Corte di merito ha evidenziato i passaggi salienti delle deposizioni dei testi P.D. e P.G. e di M.G. in contrasto con la ricostruzione della difesa. Il ricorrente in realtà sollecita una diversa valutazione della portata dimostrativa di quelle dichiarazioni, che è un giudizio di fatto, che, in quanto privo di illogicità manifeste, è incensurabile in questa sede.

In ordine poi alla mancata risposta al motivo di appello con il quale la difesa intendeva dimostrare, sulla base delle dichiarazioni del 6 luglio 1999 di P.D., che prima dell’intervento degli inquirenti D.C. aveva comunicato a costui di voler dividere tra tre ditte i lavori di scavo, deve osservarsi che anche tale doglianza è manifestamente infondata. La Corte di appello ha smentito infatti tale assunto, riportando un passo della suddetta deposizione, nella parte in cui P.D. riferisce che D.C. gli aveva detto prima dell’intervento degli inquirenti di aver "dovuto" affidare "tutti e tre gli scavi" alla ditta dei F.. Pertanto, anche a voler ritenere denunciato con il presente ricorso un travisamento della prova, era onere de. ricorrente dare dimostrazione del vizio, con la produzione del relativo verbale.

Del tutto infondato, oltre che generico, è infine l’ultimo rilievo sulla sussistenza dell’elemento soggettivo. Il motivo di appello, circa l’inconfigurabilita del dolo – perchè la falsa dichiarazione non sarebbe stata da lui voluta con "l’intenzionalità di arrecare danno all’amministrazione della giustizia" – deve ritenersi manifestamente infondato, con la conseguente irrilevanza del suo omesso esame. Per perfezionare il delitto di falsa testimonianza non occorre infatti il dolo specifico, essendo sufficiente l’intendimento, comunque determinatosi, di dire il falso: è indifferente l’obiettivo avuto di mira dall’agente, perchè quale esso sia, viene sempre leso il normale funzionamento della giustizia che rappresenta l’oggetto della tutela giuridica.

4. Sulla base di quanto premesso, il ricorso deve essere rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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