CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE – 12 novembre 2010, n. 40107 – Pres. Bardovagni – est. Prestipino. In materia di truffa aggravata.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Hanno proposto ricorso per cassazione M.M. e C. P., per mezzo dei propri difensori, avverso la sentenza della Corte di Appello di Lecce del 24.11.2008, che in riforma della più severa sentenza di condanna pronunciata nei loro confronti dal locale Tribunale il 13.3.2008, per il reato di cui all’art. 640 bis c.p., concesse ad entrambi le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, e ridusse la pena a mesi dieci di reclusione ed Euro 300 di multa ciascuno, pena sospesa per entrambi e con l’ulteriore beneficio della non menzione per il C., determinando entro i limiti della pena detentiva la durata della pena accessoria e confermando nel resto la decisione di primo grado.
Secondo l’accusa i due imputati, il M. nella qualità di imprenditore del settore vinicolo e titolare della soc. M.M. e s.a.s., il C. come commercialista incaricato della preparazione della domanda di finanziamento, avrebbero indebitamente ottenuto dal Mediocredito Centrale di Roma, agente quale concessionario del Ministero delle Attività Produttive, un contributo a fondo perduto di L. 903.160.000 a favore della società "Maci" per la realizzazione di un nuovo stabilimento di produzione vinicola, con artifici e raggiri consistenti nella presentazione di una falsa fattura, di dichiarazioni scritte attestanti la solidità dell’azienda e di reversali contraffatte al fine di dimostrare fittiziamente l’afflusso alla società finanziata di capitali provenienti dai soci.
Nell’interesse del M., la difesa deduce con un primo motivo il vizio di violazione di legge e il difetto di motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), lamentando l’indebita e arbitraria affermazione dei giudici di appello della consapevolezza della frode da parte del ricorrente, sulla base della presunzione che lo stesso non potesse ignorare gli scopi delittuosi del coimputato; gli stessi profili di censura solleva con riguardo all’affermazione della sussistenza del danno, escluso secondo la difesa, dall’operatività della polizza fideiussoria prestata a garanzia del finanziamento, nonchè con riguardo alla mancata riqualificazione del fatto ex art. 316 ter c.p.; lamenta, infine, il vizio di violazione di legge e il difetto di motivazione della sentenza impugnata anche in ordine alla mancata dichiarazione della prescrizione del reato, deducendo l’inefficacia, come atto interruttivo della prescrizione, dell’interrogatorio reso al PM il 21.3.2006, in quanto in sostanza qualificabile come verbale di spontanee dichiarazioni, e rilevando che la data del commesso reato doveva farsi risalire al decreto di finanziamento e non alla effettiva percezione della somme ammesse a contributo. In ogni caso, la prescrizione si sarebbe maturata tra la pronuncia del dispositivo e il deposito della sentenza di appello.
A sua volta il difensore del C. rileva il vizio di carenza, contraddittorietà e illogicità della motivazione della sentenza, anzitutto sul rilievo che i giudici di appello avrebbero trascurato l’estraneità dello stesso ricorrente alla formazione dei documenti falsi prodotti a supporto della domanda di finanziamento, ignorando il contenuto delle inequivocabili affermazioni rese al riguardo dal verbalizzante Ma. e valorizzando oltremodo la falsa fattura intestata alla ditta Convertino, nonostante l’importo assolutamente marginale indicato nel documento e nonostante i dati utilizzati nella fatturazione fosse facilmente accessibili a chiunque attraverso gli strumenti informatici, con la conseguente irrilevanza dei precedenti rapporti professionali tra il Co. e il C..
La sentenza impugnata sarebbe inoltre incorsa nel vizio di violazione di legge in relazione all’art. 192 c.p.p., in punto di valutazione dell’attendibilità delle propalazioni accusatorie formulate nei confronti del C. dal M., che si era risolto alle sue rivelazioni nel timore di un imminente arresto. Con l’ultimo motivo, infine, il ricorrente segnala sotto il profilo del vizio di violazione di legge, l’incerta identificazione da parte dei giudici di appello della "pena" accessoria contenuta nei limiti della pena detentiva, rilevando come il Tribunale avesse applicato non una, ma più pene accessorie.
I ricorsi sono manifestamente infondati.

Premesso che la falsità della documentazione allegata alla domanda di contributo è pacifica, non si presta a censure la motivazione della Corte territoriale in punto di responsabilità di entrambi gli imputati, con la confutazione della tattica processuale dei ricorrenti di rovesciare l’uno sull’altro l’iniziativa della truffa.
Riguardo al C., peraltro, bisognerebbe ammettere che lo stesso, per compiacere il proprio cliente, procurandogli nella specie indebiti contributi pubblici, si fosse spinto a commettere gravi fatti di reato all’insaputa del committente, rischiando di coinvolgerlo in un’eventuale indagine penale, il che non sembra molto corrispondente già a criteri di logica comune. La valorizzazione della fattura " Co." da parte dei giudici di appello, è ugualmente più che ragionevole. La tesi che "altri" (ovviamente soltanto il coimputato) potessero accedere ai dati anagrafici e fiscali dell’intestatario attraverso sistemi informatici, è soltanto suggestiva nella misura in cui implica del tutto assertivamente l’assoluta generalizzazione della visibilità sul web dei dati di tutti i contribuenti-imprenditori, e sorvola inoltre sulla straordinaria coincidenza che si sarebbe allora verificata, per avere il M. intercettato, contro tutte le probabilità statistiche, proprio un altro cliente del C..
In questo ordine di considerazioni, non si vede come possano influire le dichiarazioni del verbalizzante B., oltretutto genericamente citate per relationem e soltanto parzialmente, ed è in effetti valorizzarle anche il contributo eteroaccusatorio del M….
Quanto a quest’ultimo, vale poi l’ovvia considerazione dei giudici di appello circa il suo ineludibile intervento nella vicenda come firmatario della domanda.
Per il resto, la questione della qualificazione giuridica del fatto con riferimento al rapporto tra l’art. 640 bis c.p. e l’art. 316 ter c.p., non era stata dedotta dal M. con l’atto di appello, e non può essere esaminata per la prima volta in questa sede, involgendo profili di fatto estranei al giudizio di legittimità.
L’identificazione dell’uno o dell’altro titolo del reato, dipende infatti dalla concreta connotazione della condotta criminosa, da accertare caso per caso, e l’accertamento dell’esistenza di un’induzione in errore, quale elemento costitutivo del delitto di truffa, ovvero la sua mancanza, con la conseguente configurazione del delitto previsto dall’art. 316 ter c.p., è questione di fatto, riservata al giudice del merito (Corte di Cassazione, sez. 2^, SENT. 10231 10/02/2006 Fasolo; non diversamente, in definitiva, Cass. Sez. un., 16568/2007 citata dal ricorrente, quando indica tra l’altro, come criterio dirimente, non solo la normativa che regola il singolo contributo pubblico, ma anche le concrete modalità di svolgimento della procedura di concessione, ribadendo peraltro esplicitamente i principi affermati da Cass. 10231/2006 cit.).
Per quel che riguarda le questioni sulla prescrizione, va ribadito che essa non era ancora maturata all’epoca della sentenza di appello.
In conformità a quanto correttamente rilevato dai giudici territoriali, deve anzitutto ritenersi la validità come atto interruttivo della prescrizione nei confronti di entrambi gli imputati, dell’assunzione da parte del PM delle dichiarazioni spontanee del M. in seno al verbale del 21.3.2006. La Corte territoriale ha infatti precisato, al riguardo, che in quell’occasione i fatti erano stati contestati all’imputato in forma chiara e precisa giustificandosi quindi, ai fini dell’interruzione della prescrizione, l’equiparazione dell’atto all’interrogatorio (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 39352 del 31/10/2002 Sarno), senza che la difesa abbia rilevato alcunchè sui concreti termini delle contestazioni del PM, essendosi limitata ad insistere nella tesi della assoluta inidoneità delle dichiarazioni spontanee a determinare l’effetto interruttivo della prescrizione.
Ma la prescrizione non si è maturata neanche nel corso del giudizio di merito.
Va senz’altro disattesa, al riguardo, l’affermazione difensiva che il termine decorra dalla presentazione della domanda di contributo, essendo ovvio che nel caso dell’art. 640 bis c.p. l’interesse del reo sia rivolto al conseguimento delle erogazioni indebite, che definisce il momento della fattispecie "compiuta".
E’ vero anzi che il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche suddivise in più rate somministrate in tempi diversi è reato a consumazione prolungata giacchè il soggetto agente sin dall’inizio ha la volontà di realizzare un evento destinato a protrarsi nel tempo. Con specifico riferimento alla prescrizione, la giurisprudenza di questa Corte ha poi coerentemente precisato che il momento consumativo, e il "dies a quo" del termine, coincidono con la cessazione dei pagamenti, perdurando il reato – ed il danno addirittura incrementandosi – fino a quando non vengano interrotte le riscossioni (vedi su questi ormai pacifici principi, Cass. Sez 2, Sentenza n. 28683 del 09/07/2010, Imputato: Battaglia e altri; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11026 del 03/03/2005, Becchiglia).
Quanto al motivo sulla presunta incertezza della pena accessoria in concreto rimodulata dai giudici di appello, esso è fondato sull’evidente forzatura di quella che appare al più una semplice imprecisione terminologica della sentenza impugnata, essendo la generica espressione "pena accessoria" sostanzialmente riferibile a tutte le "interdizioni" temporanee derivanti dal reato in contestazione e già applicate del giudice di primo grado, con statuizione in parte qua riformata soltanto quanto alla durata delle misure, peraltro per tutte identicamente regolata dall’art. 37 c.p., con la conseguente superfluità di particolari distinzioni.
Alla stregua delle precedenti considerazioni, i ricorsi devono pertanto essere dichiarati inammissibili, con la conseguente preclusione di ogni indagine sull’eventuale prescrizione del reato in contestazione successivamente alla sentenza di appello (cfr., da ultimo, Cass Sez. 1, 04/06/2008, Rayyan).
I ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende, commisurata al grado di colpa degli stessi ricorrenti nella determinazione della causa di inammissibilità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in delle spese processuali e ciascuno al pagamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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