CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE – 9 novembre 2010, n. 39371 – Pres. Milo – est. Gramendola. In tema di abuso di ufficio.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto e diritto

Con la sentenza indicata in epigrafe il G.I.P. del Tribunale di Messina dichiarava non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 cpp., perché il fatto non costituisce reato, a carico di F. Pietro e S. Gianfranco in ordine al reato di cui agli artt. 110-81 cpv. – 323 cp., per avere in concorso tra loro e con F. Vincenzo – per il quale si procedeva separatamente con il rito abbreviato – il F. Pietro presidente e il F. Vincenzo vice presidente della F.C. Messina Peloro s.r.l., quali privati avvantaggiati, istigatori e determinatori della condotta abusiva e lo S., pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni di direttore generale del Comune di Messina, istruito e proposto al Consiglio Comunale di Messina – che lo approvava nella seduta del 30/8/2005 – un accordo procedimentale tra l’ente pubblico e la società sportiva per l’affidamento diretto a quest’ultima della gestione degli stadi comunali e delle aree pertinenziali, in violazione degli artt. 113/bis D.Lgs. n. 267/2000 (TUEL) e 37 e segg. legge n. 109/1994, che prescrivono l’adozione di procedure concorrenziali di evidenza pubblica, in tal modo procurando intenzionalmente alla F.C. Messina Peloro s.r.l. un ingiusto vantaggio patrimoniale con corrispondente ingiusto danno per l’ente pubblico.
Fondava il G.I.P. la pronuncia assolutoria, analoga a quella assunta nei confronti del F. Vincenzo all’esito del giudizio abbreviato, in estrema sintesi sulla base della convinzione che, pur essendo palese l’illegittimità della procedura adottata in violazione delle regole sull’evidenza pubblica, ed evidente il corrispondente vantaggio dei privati, l’approdo all’accordo procedimentale era da considerarsi legittimo, giacché dipeso da una precisa scelta politica dell’ente, maturata a seguito di una vera e propria trattativa con la società sportiva, e che la conclusione in tempi ristretti di un accordo che assicurasse le risorse finanziarie reclamate dalla squadra rispondeva ad una ferma intenzione del Consiglio Comunale di garantire la sopravvivenza della squadra di calcio cittadina, impegnata nel torneo di massima divisione e di dare prestigio alla città di Messina; il tutto alla stregua delle produzioni documentali versate dall’imputato S., nella memoria difensiva, depositata in data 14 gennaio 2010 riguardanti resoconti di sedute del Consiglio Comunale e articoli di stampa.
Contro tale decisione ricorre il Procuratore della Repubblica presso quel Tribunale, che a sostegno della richiesta di annullamento ne denuncia l’erronea applicazione dell’art. 425 cpp., l’erronea applicazione dell’art. 323 cp. e la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, testualmente rilevabile.
Quanto al primo motivo, evocata la natura processuale e non di merito della sentenza emessa ai sensi dell’art. 425 cpp. e richiamata l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale formatasi in materia, sostiene che il giudice a quo, violando la regola di giudizio, che deve sovrintendere all’udienza preliminare, finalizzata alla verifica della possibilità o meno di sostenere l’accusa in giudizio, si era formato un convincimento di innocenza degli imputati sulla base di una motivazione insufficiente e con riferimento alla valenza attribuita ai dati ricavabili dalle parziali produzioni difensive, acquisite in udienza, e soprattutto in riferimento alla asserita immutabilità di dette acquisizioni in dibattimento, contraddicendo la logica elementare e le risultanze processuali, dalle quali emergeva che l’azione amministrativa portata avanti dal city manager S., divenuto consulente dei fratelli F., a costoro già in precedenza legato da rapporti personali e economici, era unicamente finalizzata a sostenere l’iniziativa della F.C. Messina Peloro di imboccare la via dell’affidamento diretto alla società calcistica, che ne traeva enorme giovamento economico, nella piena consapevolezza della illegittimità dell’abbandono della procedura di “project financing”, unica consentita nella specie. La motivazione espressa nell’impugnata decisione, ad avviso dell’organo requirente, confermava l’errore di prospettiva, nel quale era incorso il G.I.P. nel negare ingresso a una domanda di giudizio che non meritava di essere paralizzata senza l’accertamento dibattimentale dei contributi causali posti in essere da ciascuno degli imputati.
Quanto al secondo motivo e al terzo motivo di ricorso. Il P.M. evidenzia come il G.I.P. disapplicando i principi espressi nella giurisprudenza di legittimità in ordine all’elemento psicologico del reato di abuso di ufficio, immotivatamente avesse negato rilievo ai gravi e concordanti indizi scaturenti dalla condotta dello S. e dei dirigenti della società, attribuendo piena valenza probatoria a meri resoconti di sedute del Consiglio e di Commissioni, e più ancora al fine politico, che aveva animato l’organo elettivo del Comune nel richiedere la conclusione in tempi ristretti di un accordo, che assicurasse le risorse finanziarie, reclamate dalla società, pena la possibilità di iniziative di forte impatto emotivo, quali la cessione della squadra, in tal modo contravvenendo al prevalente insegnamento di questa Corte, a mente del quale il fine politico deve essere espressamente escluso dal novero dei fini pubblici. Anche a voler condividere la tesi che lo S. si fosse limitato a recepire e tradurre in un atto amministrativo illegittimo una scelta politica del Consiglio Comunale, ciò non varrebbe ad escludere la sua responsabilità, ma imporrebbe semmai ad estenderne l’ambito soggettivo.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento per quanto di ragione.
Ed invero, quanto al primo profilo, concernente la natura e l’inquadramento sistematico della sentenza di non luogo a procedere, pronunciata all’esito dell’udienza preliminare, la giurisprudenza di legittimità è ormai attestata al principio, qui ampiamente condiviso, a mente del quale il legislatore con la norma di cui all’art. 425 cpp. ha inteso evitare che pervengano alla fase del giudizio situazioni nelle quali risulti con ragionevole certezza che l’imputato meriti il proscioglimento, e ciò avviene nei casi di sicura infondatezza dell’accusa, quando cioè gli atti offrono la prova dell’innocenza dell’accusato o la totale mancanza di elementi a carico, ma altresì in presenza di sicura inidoneità delle fonti di prova acquisite ad un adeguato sviluppo probatorio nella dialettica del contraddittorio dibattimentale, con la conseguenza che in tutti i casi in cui sussistano fonti o elementi di prova, pur contraddittori o insufficienti, che si prestino invece, secondo una inevitabile valutazione prognostica a “soluzioni aperte” è doverosa la verifica dibattimentale (Cass. Sez. VI 9/10-27/11/95 n. 3467 CP 96, 2705; Sez. III 8/11 – 23/12/96 n. 3776 Rv. 206730).
Nel caso in esame non sembra che il G.I.P. si sia adeguato a questa regola di giudizio. Dalla lettura della sentenza impugnata appare infatti evidente che l’innocenza degli imputati è fondata sulla valenza attribuita a dati ricavabili dalle parziali produzioni difensive e sulla asserita immutabilità di dette acquisizioni in dibattimento, pur dandosi atto che “residuano concrete lacune in merito alla configurazione dell’elemento soggettivo del reato”.
Siffatta motivazione non soddisfa i requisiti della logicità e della coerenza, richiesti dall’art. 125/2 cpp.. A prescindere dall’indagine sulla ricostruzione della vicenda, devoluta al giudice di merito, e non censurabile in sede di legittimità, se immune da vizi logici o giuridici, la denunciata erronea applicazione della norma incriminatrice di cui all’art. 323 cp., unitamente al denunciato vizio motivazionale, acquista consistenza giuridica in ordine a quella parte della motivazione sulla valenza della prova dell’elemento psicologico del delitto di abuso di ufficio.
Ricorda infatti il collegio che in tema di abuso di ufficio nella formulazione dell’art. 323 cp., introdotta dalla legge 16/7/1997 n. 234, la giurisprudenza di questa Sezione è ormai orientata nel ritenere che l’uso dell’avverbio “intenzionalmente” per qualificare il dolo ha voluto limitare il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale e arrecare un ingiusto danno, con la conseguenza che, qualora nello svolgimento della funzione amministrativa, il pubblico ufficiale si prefigga di realizzare un interesse pubblico legittimamente affidato all’agente dell’ordinamento, pur giungendo alla violazione di legge e realizzando un vantaggio al privato, deve escludersi la sussistenza del reato (Cass. Sez. VI 22/11-28/12/02 n. 42839 Rv. 222860; 27/6 – 25/8/08 n. 33844 Rv. 240757).
Deve trattarsi tuttavia non di un fine privato per quanto lecito, non un fine collettivo, né un fine privato di ente pubblico e tanto meno di un fine politico.
Nella fattispecie in esame si evince dalla motivazione della decisione impugnata un evidente salto logico nella parte in cui, dopo avere elencato, senza neppure valutarle nella loro obiettiva consistenza, le condotte assunte dagli imputati prima, durante e dopo l’approvazione dell’accordo procedimentale, si passa a riscontrare la tesi della “scelta politica” dell’ente, attribuendo valenza probatoria a meri resoconti sommari di sedute del Consiglio Comunale o di Commissioni, senza neppure avvertire l’esigenza di assumere almeno le dichiarazioni dei protagonisti attraverso i poteri di integrazione probatoria riconosciuti dall’art.422 cpp..
In buona sostanza il giudice a quo, contraddicendo al summenzionato principio, pur richiamato nella decisione impugnata, erroneamente finisce con l’attribuire al fine politico, asseritamente perseguito dai rappresentanti delle forze politiche locali e non dal direttore generale, la qualifica di interesse pubblico, il cui perseguimento valeva comunque ad escludere la configurabilità dell’abuso.
È evidente dunque la manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla valutazione dell’elemento soggettivo del reato, che conduce all’annullamento dell’impugnata sentenza e il rinvio al medesimo Tribunale, che nella demandata nuova deliberazione provveda a eliminare la evidenziata lacuna motivazionale alla luce dell’enunciato principio di diritto.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Messina per nuova deliberazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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