Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 04-02-2011) 10-06-2011, n. 23363

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Pecorella, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo

Con sentenza del 16.12.2008, la 1^ Corte d’Assise di Milano dichiarò B.F. responsabile dei reati di cui all’art. 110 c.p., art. 630 c.p., commi 1 e 3, L. n. 110 del 1945, art. 4, L. n. 497 del 1974, artt. 12 e 14, artt. 110 e 628 c.p., art. 61 c.p., n. 5, art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2 e art. 411 c.p., e ritenuto il vincolo della continuazione tra i reati di sequestro di persona a scopo di estorsione, porto di oggetto atto ad offendere, detenzione e porto in luogo pubblico delle armi di cui ai capi e) e f) della rubrica, lo condannava per i reati in continuazione alla pena dell’ergastolo, per il reato di rapina di cui al capo d) alla pena di anni quattro di reclusione ed Euro milleduecento di multa e alla pena di anni tre di reclusione per il reato di occultamento di cadavere (capo e). Visto l’art. 72 c.p. applicava quindi al B. la pena dell’ergastolo con isolamento diurno per la durata di mesi otto.

Avverso tale pronunzia propose gravame l’imputato, e la Corte d’Assise Appello di Milano, con sentenza del 4 marzo 2010, in parziale riforma della decisione di primo grado riteneva anche il reato di rapina sub d) unito dal vincolo della continuazione, e applicava la pena dell’ergastolo, riducendo l’isolamento diurno a mesi sei.

Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo: 1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e), per inosservanza di nome processuali stabilite a pena di nullità in relazione al combinato disposto di cui agli artt. 70 e 71, art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 24 Cost. e mancanza e manifesta illogicità della motivazione, in ordine alla richiesta di perizia psichiatrica al fine di accertare la capacità dell’imputato a stare in giudizio, in quanto dal diario clinico del carcere, e dalla missiva del dirigente sanitario della Casa circondariale di Voghera, risultava che il B. manifestava "una sintomatologia caratterizzata dalla presenza di un florido delirio a sfondo persecutorio, accompagnata da chiari fenomeni dispercettivi", e ciò nonostante la Corte ha ritenuto l’imputato pienamente capace di stare in giudizio, ritenendo che i disturbi di tipo allucinatorio e psicotico risulterebbero solo in stretta correlazione con l’avvicinarsi del giudizio d’appello, e sono stati formulati dal dottor F., dirigente sanitario e psichiatra della Casa Circondariale di Voghera, sulla base di sensazioni e cose riferite nel colloquio dal B. stesso, e non fondate su altri accertamenti diagnostici. Contraddittoriamente, la Corte ha ammesso un profondo turbamento della personalità del B., tale per cui dai sintomi ansiosi si è passati a quella che lo psichiatra della Casa Circondariale ha definito "una situazione psicotica"; e, infatti, già nell’esame reso in primo grado il 7.7.208, l’imputato aveva dato chiari segni di disturbi psicotici che si sono estrinsecati in una evidente mania di persecuzione aggravatasi negli anni successivi. Erroneamente la Corte non ha ritenuto di dover disporre una perizia psichiatrica, così da accertare se l’imputato non fosse in grado "di partecipare coscientemente al processo"; 2) mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione alla ritenuta capacità di intendere e di volere e al conseguente rigetto della richiesta rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ex art. 603 c.p.p., in relazione alle deduzioni difensive circa le incongruenze della perizia espletata in primo grado, nella quale pur rilevando una condizione psicopatologica senza motivazione alcuna si dichiarava l’imputato pienamente capace di intendere e di volere al momento dei fatti; 3) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 630 c.p. e mancanza e manifesta illogicità della motivazione, in riferimento all’ingiustizia del profitto di cui alla norma in questione, avendo la Corte affermato che l’ingiustizia del profitto era nella specie costituito da somme ben maggiori di quanto la parte offesa avrebbe dovuto restituire al B., in quanto la somma richiesta (Euro 1.000.000 a R. presso il suo studio, Euro 10.000.000 a D.V.) è assolutamente sproporzionata rispetto ai Euro 400.000 che il B. quale socio del R. aveva investito nell’affare anglo-austriaco: "gli stessi legali di B. gli avevano rappresentato l’impossibilità giuridica di agire per le vie legali contro R. e quindi egli era perfettamente a conoscenza che gli importi pretesi quale prezzo per la liberazione costituivano un profitto ingiusto". Secondo il ricorrente, e per come si sono concretamente svolti i fatti relativi al c.d. affare anglo austriaco, l’imputato ben poteva ritenere, nonostante eventuali pareri contrari di conoscenti avvocati, di aver diritto di rivalersi nei confronti del socio R., in effetti essendo da parte sua legittimamente esperibile un’azione per il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2395 c.c., il cui eventuale esito negativo non avrebbe potuto riverberare i suoi effetti sulla pacifica non ingiustizia del profitto poi, invece, materialmente preteso mediante violenza. Il fatto di cui al capo a) deve essere qualificato come delitto di sequestro di persona con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ovvero con quello di estorsione; 4) mancanza e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche, irragionevolmente negate nonostante la confessione, la natura dell’affare di cui all’antefatto che nessuno è stato in grado di ricostruire con esattezza, la circostanza che, pur negando la sussistenza dell’incapacità di intendere e di volere, la stessa perizia psichiatrica condivisa dalla Corte aveva segnalato che a partire dal maggio 2005 gli eventi nei quali era stato coinvolto avevano determinato nel B. l’insorgenza di una sindrome psicopatologica diagnosticabile come disturbo dell’adattamento con umore depresso; tratti ossessivi e borderline;

5) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) per errata interpretazione della legge penale, e mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione con riferimento all’art. 411 c.p., avendo erroneamente la Corte escluso che la sottrazione e la distruzione del cadavere fossero legate all’uccisione dell’ostaggio da una unitarietà di rappresentazione e di deliberazione generica, in quanto "generate dalla paura di essere scoperti sorta nel B. e nei complici per le indagini delle forze dell’ordine".

Chiede pertanto l’annullamento della sentenza.
Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto l’inosservanza di nome processuali stabilite a pena di nullità in relazione al combinato disposto di cui agli artt. 70, 71, art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 24 Cost. e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione a riguardo.

La censura, circa la mancanza e manifesta illogicità di motivazione sulla capacità di stare in giudizio dell’imputato, è inammissibile, posto che ricorrente muove non già precise contestazioni di illogicità argomentativa, ma solo doglianze di merito, non condividendosi da parte sua le conclusioni attinte dalla Corte territoriale, la quale, con ampia e logica motivazione, ha rigettato la richiesta di nuova perizia psichiatrica, evidenziando, in primo luogo, che "la situazione psicotica da cui sarebbe colpito ora il B. non è stata rilevata da nessuno, compresi gli psichiatri che lo hanno esaminato, d’ufficio e di parte, in sede di incidente probatorio e quindi nella fase delle indagini preliminari ed anche durante il giudizio di primo grado da parte dell’organo giudicante e dalla stessa difesa; il difensore in quella sede aveva sì chiesto la diminuente del vizio parziale di mente, ma non aveva mai sostenuto l’incapacità processuale del prevenuto", e, in secondo luogo, che dalla lunga ed articolata versione dei fatti resa dall’imputato, e dalle sue dichiarazioni spontanee all’udienza in grado d’appello, si riscontra una complessiva capacità di contrastare punto per punto la ricostruzione effettuata dal giudice, nè l’imputato "ha mai accennato a onde magnetiche o altri fantasiosi invii da soggetti non identificati diretti a carpire il suo pensiero"(v.pag.17 della sentenza impugnata). Alla luce della perizia psichiatrica già effettuata e delle dichiarazioni rese dall’imputato (che "ha tenuto in concreto e in coerenza con la sua storia clinica, un comportamento che ne ha evidenziato la capacità di partecipare coscientemente al processo, così contraddicendo, in modo assoluto, la valutazione del dott. F.", dirigente sanitario della Casa Circondariale di Voghera e riguardanti peraltro solo gli ultimi due colloqui avuti con l’imputato in occasione di visite psichiatriche in prossimità dell’udienza d’appello), la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha, quindi, ritenuto la piena consapevolezza del B., pur affetto da una qualche patologia psichiatrica, di apprezzare coscientemente la dinamica processuale che lo riguardava.

Considerato che – come indirettamente si evince anche dalla locuzione "se occorre" contenuta nell’art. 70 c.p.p., comma 1 – per accertare la capacità di partecipare al processo dell’imputato, il giudice non è tenuto necessariamente a disporre perizia, potendo formare il suo convincimento al riguardo anche sulla base di elementi già acquisiti agli atti (cfr. Cass.Sez. 6, sent. n. 31662/2008, Rv. 241105), nessuna violazione di legge circa la ritenuta cosciente partecipazione del B. al processo è riscontrabile, sicchè manifestamente infondata si rivela anche l’asserita lacuna istruttoria.

Con il secondo motivo sono stati prospettati analoghi vizi di legittimità, sotto il profilo della richiesta di rinnovazione del dibattimento ex art. 603 c.p.p., con espletamento di nuova perizia sull’imputato al fine di riconoscere il vizio parziale di mente.

La doglianza è priva di consistenza e formulata in termini di una inammissibile richiesta di rivalutazione di fatti.

Ai sensi dell’art. 603 c.p.p., comma 1, il giudice di appello, quando una parte la richiede, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. Poichè la norma fa riferimento generico alla istruzione dibattimentale, senza alcuna distinzione all’interno di questa nozione, deve ritenersi che essa riguardi tutta la istruzione dibattimentale che può essere assunta in primo grado; ne consegue che la rinnovazione dell’istruttoria in appello, come disciplinata dall’art. 603 c.p.p., comprende tutti i fatti che possono essere oggetto di prova ai sensi dell’art. 187 c.p.p., e cioè i fatti che si riferiscono alla imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza, che indubbiamente comprendono sia i profili attinenti alla responsabilità dell’imputato sia quelli attinenti alla sua imputabilità ex art. 185 c.p. e ss..

L’eccezionaiità della rinnovazione dell’istruttoria in appello prevista dall’art. 603 c.p.p., comma 1 riguarda pertanto anche le prove volte ad accertare la capacità di intendere e di volere dell’imputato o altre condizioni di imputabilità: prove che pertanto il giudice di appello deve ammettere solo quando non si ritiene in grado di decidere allo stato degli atti (cfr. Cass.Sez. 3, Sent.n. 4646/1999, rv. 213086).

Nella fattispecie, la Corte territoriale ha motivato sul punto in modo congruo e logico – come tale incensurabile in sede di legittimità (cfr. Cass.Sez. 3, sent. n. 4646/1999 rv. 213086; Cass. Sez. 1, sent.n. 6911/1992, rv. 190555) -osservando che le circostanze addotte dalla difesa non erano tali da poter mettere in dubbio la capacità di intendere e di volere del B.. Non era tale infatti la lettera del Dirigente sanitario e psichiatra della Casa Circondariale di Voghera in data 28.2.2010, come ampiamente illustrato in sentenza in merito alla capacità processuale dell’imputato. Ancor meno avevano rilievo a tal fine le considerazioni del consulente di parte, secondo il quale, al momento del sequestro del R., la personalità del B. era in qualche modo scissa e pertanto egli aveva commesso l’omicidio "quasi intendesse commettere un suicidio, nel tentativo di sottrarre il suo io all’impatto provocato dai tragici avvenimenti", essendo tale tesi sfornita di alcun appiglio concreto. L’omicidio del R. non è, infatti, intervenuto subito dopo il sequestro dell’ostaggio, in un accesso di rabbia e di frustrazione nei confronti dell’uomo, che aveva mandato a monte l’occasione di una vita, e le tragiche conseguenze dell’agire di B. appaiono chiaramente dettate non da un temporaneo stato di incapacità di intendere e di volere, ma dalla logica criminale dell’imputato e dei suoi complici, i quali, peraltro, mai hanno accennato a forme deliranti del medesimo durante la preparazione e l’esecuzione del sequestro, o nei momenti successivi all’uccisione. Ha infine evidenziato la Corte d’Assise d’Appello che il collegio di periti, che ha esaminato l’imputato nel corso della perizia espletata in primo grado, pur segnalando l’insorgenza a partire dal maggio 2005 di una sindrome psicopatologica diagnosticabile come disturbo dell’adattamento con umore depresso, ha quindi concluso per la sussistenza nel B. della capacità di intendere e di volere nel periodo precedente, concomitante e successivo al sequestro (v.pagg.18-23 della sentenza impugnata).

Con il terzo motivo, il ricorrente ha chiesto l’annullamento della sentenza per violazione di legge e per omessa motivazione in relazione all’art. 630 c.p., sul rilievo che non è configurarle il sequestro di persona a scopo di estorsione, quando il sequestro ed il profitto siano direttamente ricollegabili ad una causa preesistente peraltro lecita di guisa che, ricorrendo un preesistente rapporto tra estorsore e vittima, nel caso di specie sarebbe configurabile il concorso dei reati di sequestro di persona e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all’art. 393 c.p., ovvero di estorsione.

Tale motivo di ricorso è infondato, e non merita pertanto accoglimento.

Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale che il Collegio condivide (v. Cass. S.U., sent.n. 962/2004, rv. 226489; Cass. Sez. 5, sent.n. 12762/2006, rv. 234553; Cass.Sez. 1, sent. n. 17728/2010, rv.

247071), integra gli estremi del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione previsto dall’art. 630 c.p. la condotta criminosa consistente nella privazione della libertà di una persona finalizzata a conseguire come prezzo della liberazione una prestazione patrimoniale, anche se pretesa in esecuzione di un precedente rapporto. Il delitto previsto dall’art. 630 c.p. è infatti un reato plurioffensivo, nel quale l’elemento obbiettivo del sequestro viene tipizzato dallo scopo di conseguire un profitto ingiusto dal prezzo della liberazione; ne consegue che ove ricorrano i due elementi della privazione della libertà personale e della finalità di ottenere un profitto ingiusto come prezzo della liberazione, si verifica quella forma particolare di delitto che è prevista dall’ordinamento nella norma in questione. Ogni scissione del fatto unitario è priva di qualsiasi fondamento, in quanto si lucra un prezzo per la liberazione anche quando la vittima sia sequestrata per riscuotere, a mezzo della sua liberazione, un vantaggio patrimoniale ingiusto che trovi la sua causa in un rapporto già esistente tra sequestratore e vittima.

Nel caso in esame, la Corte territoriale, ancorando il proprio giudizio ad elementi specifici, ha correttamente e logicamente ritenuto la sussistenza del reato in questione, evidenziando l’ingiustizia del profitto in riferimento alla duplice circostanza dell’assoluta sproporzione tra la somma richiesta per la liberazione dell’ostaggio e la somma investita dal B. nell’affare angloaustriaco, e della impossibilità giuridica da parte dell’imputato di agire per le vie legali nei confronti della vittima, dal momento che la somma di Euro 400.000 da lui conferita, nell’affare del tutto aleatorio in questione, in posizione paritetica al R., rappresentava la quota di capitale che egli aveva versato, "rischiando così come aveva rischiato il R., conferendo analogo importo"( v.pag.24 della sentenza impugnata).

Anche i restanti motivi, relativi alla mancata concessione delle attenuanti generiche ed in merito alla richiesta continuazione ex art. 81 c.p. tra il reato di sequestro di cui al capo a) e il reato di distruzione e sottrazione del cadavere di cui al capo c) della rubrica sono infondati e vanno, pertanto, rigettati.

In ordine alle richieste attenuanti, va osservato che la concessione delle attenuanti generiche risponde a una facoltà discrezionale, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Tali attenuanti non vanno intese come oggetto di una benevola concessione da parte del giudice, nè l’applicazione di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negativi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimento della esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di positivo apprezzamento (cfr. Cass.Sez. 1, Sent. n. 46954/2004 Rv. 230591). Nella specie, la Corte territoriale ha spiegato di non ritenere il B. meritevole delle invocate attenuanti, non solo perchè il fatto appariva di notevole gravita, ma anche perchè, sotto tutti i profili evidenziati dalla difesa, non potevano ravvisarsi elementi idonei a giustificare il riconoscimento delle attenuanti generiche, e ha rimarcato, in particolare, che il B. era consulente finanziario di un certo successo, in grado non solo di capire che tipo di investimento gli proponeva R., ma anche di concordare con lo stesso le condizioni dell’affare – come dimostrano le circostanze che egli si era fatto assistere da legali, e si era recato in (OMISSIS) nello studio D.V. per vedere di risolvere la situazione in compagnia dell’avv. Brunelli -, e "quindi non vi era quel rapporto di incompetenza e/o di subordinazione rispetto al finanziere milanese che è descritto nell’appello" (v.pag.27 della sentenza impugnata).

Si tratta di considerazioni ampiamente giustificative del diniego, che le censure del ricorrente non valgono minimamente a scalfire.

Per quanto riguarda poi la richiesta di continuazione del reato contestato al capo a) con il reato sub c), rileva il Collegio che l’accertamento della sussistenza dell’unicità del disegno criminoso costituisce una questione in fatto demandata al giudice di merito, e pertanto il diniego è sindacabile in sede di legittimità solo ove non sia sorretto da adeguata motivazione e da vizi logici e giuridici (v. tra le tante Cass. sez. Sez. 4, sent. n. 25094/2007, rv. 237014;

Cass. sez. 4, sent. n. 10366/1990 rv. 184908). E nella fattispecie, il giudice d’appello – con motivazione esente da evidenti vizi logici e giuridici, e quindi non sindacabile in questa sede – ha affermato che la distruzione e la sottrazione del cadavere non appaiono legate al sequestro e all’uccisione dell’ostaggio da una unitarietà di rappresentazione e di deliberazione generica, e pertanto non possono essere considerati quale naturale sviluppo dell’azione omicidiaria, anzi "sono stati generati dalla paura di essere scoperti sorta nel B. e nei complici per le indagini delle forze dell’ordine che essi vedevano pericolosamente avvicinarsi", soprattutto nei confronti del B. (v.pag.28 della sentenza). Del tutto irrilevante è poi la circostanza invocata dalla difesa che, con riferimento alla posizione di T.E., autore con il B. del fatto di cui al capo c) e giudicato separatamente con rito abbreviato, tutti i reati compresa la fattispecie di cui all’art. 411 c.p., siano stati unificati dal vincolo della continuazione, tenuto peraltro conto che nella sentenza nei confronti del correo non vi è alcuna precisa motivazione a riguardo.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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