Cass. civ. Sez. III, Sent., 18-10-2011, n. 21509 Cosa in custodia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La domanda ex art. 2051 cod. civ. – proposta dalla F. (con atto di citazione notificato il 5 gennaio 2000) nei confronti dell’Arcipretura Collegiata di Castelfranco di Sotto, in persona del parroco – per il risarcimento dei danni patiti, in esito alla caduta da uno scalino all’interno della Chiesa, veniva rigettata dal Tribunale di Pisa, sezione di Pontedera. Il giudice di primo grado aveva dichiarato l’attrice decaduta dalla prova testimoniale, per non essere stati tempestivamente indicati i nominativi, e aveva ritenuto mancante la prova del nesso causale.

2. La Corte di appello di Firenze (sentenza del 31 marzo 2009) confermava la decisione del primo giudice.

3. Avverso la suddetta sentenza propone ricorso per cassazione F.L. con sette motivi, corredando di quesiti quelli concernenti violazioni di diritto.

Resiste con controricorso l’Arcipretura Collegiata di Castelfranco di Sotto.

Entrambe le parti hanno presentato memorie.
Motivi della decisione

1. La sentenza impugnata ha ritenuto decaduta l’attrice dalla prova testimoniale, essendo stati indicati i nominativi tardivamente, nella memoria di replica del 30 maggio 2001, e non nel termine (15 maggio 2001) assegnato, ex art. 184 cod. proc. civ., per la formulazione dei mezzi di prova diretta.

Ha rigettato la domanda per difetto di prova dei nesso di causalità fra la dedotta anomalia (mancanza di illuminazione e insidiosità della struttura) dello scalino e la caduta, sulla base delle seguenti essenziali argomentazioni: a) le foto riproducono due scalini in apparente buono stato di manutenzione e sembrano escludere insidiosità degli stessi; b) nessun elemento specifico può essere desunto dalle dichiarazioni rese dal parroco in sede di interrogatorio formale, che ha appreso da terzi la caduta; c) nessuna prova risulta in ordine alla dinamica della caduta, in particolare se l’evento si è verificato per essere stata la F. tratta in inganno in ordine alla presenza dello scalino, con la conseguenza che l’evento può essere derivato da qualunque condizione soggettiva, indipendente dalla conformazione dei luoghi. Secondo il giudice, a tal fine rileva: la presenza della luce naturale (ore 12) proveniente da porta e finestra (secondo le dichiarazioni del parroco, non contestate); la conformazione del gradino in pietra serena che, al termine di un breve corridoio in cotto immette in un vano più ampio, pure in cotto, risultante dalle fotografie; caratteristiche che lo rendono ben visibile; la conseguente irrilevanza della dichiarazione del parroco secondo la quale il gradino si vede male perchè da la sensazione di essere in piano; comunque, è risolutivo il rilievo che l’attrice non ha provato di essere caduta per un errore indotto da questa sensazione; tanto più che era una normale frequentatrice dei luoghi.

2. E’ applicabile ratione temporis l’art. 366-bis cod. proc. civ. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità dei motivi, primo e quinto, per il mancato rispetto del suddetto articolo, come interpretato dalla costante giurisprudenza di legittimità. 2.1. Con il primo e quinto motivo si deducono vizi motivazionali: per non aver il giudice preso in considerazione, al fine di dare rilievo ad una situazione dei luoghi idonea a trarre in inganno, il precedente verificarsi di altre cadute e l’apposizione della luce sotto i gradini dopo l’incidente in argomento; circostanze ammesse dal parroco in sede di interrogatorio formale (primo); per aver ritenuto risultante dagli atti, al fine di escludere che la donna non si fosse resa conto del gradino, l’abitualità della frequentazione della parrocchia da parte della F., in mancanza di qualunque prova sul punto. I suddetti motivi sono privi del momento di sintesi.

La giurisprudenza della Corte è costante nel ritenere che, affinchè sia rispettato l’art. 366-bis. cod. proc. civ. in riferimento ai motivi concernenti vizi motivazionali, la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo dei quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di i formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Sez. Un., 1 ottobre 2007, n. 20603).

3. Logicamente preliminare è il settimo motivo, con il quale si impugna la parte della decisione che conferma la decadenza dalla prova testimoniale, per tardività nell’indicazione delle generalità dei testi, e si deduce la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 184 cod. proc. civ., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Al di là di qualche ambiguità nella formulazione del quesito, la questione che si pone alla Corte – nell’ambito di un fatto processuale pacifico (indicazione dei nominativi tardivamente, nella memoria di replica del 30 maggio 2001, e non nel termine del 15 maggio 2001, assegnato, ex art. 184 cod. proc. civ., per la formulazione dei mezzi di prova diretta) – è se, ai sensi dell’art. 184 cit.(nella formulazione, applicabile alla specie, introdotta dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, a decorrere dal 30 aprile 1995), l’indicazione delle generalità dei testimoni deve essere effettuata nel termine per la formulazione dei mezzi di prova.

3.1. Secondo la costante giurisprudenza della Corte (a partire da Cass. 16 giugno 2005, n. 12959, confermata sino a tempi recentissimi, alla quale si contrappone solo una decisione risalente e rimasta isolata Cass. 19 luglio 1999, n. 7682) Nel processo civile disciplinato dalla L. n. 353 del 1990, che ha abrogato gli ultimi due commi dell’art. 244 cod. proc. civ., il termine assegnato dal giudice istruttore ai sensi dell’art. 184 cod. proc. civ., comma 1 per deduzioni istruttorie concernenti la prova testimoniale, riguarda non solo la formulazione dei capitoli, ma anche l’indicazione dei testi;

pertanto, una volta che il giudice abbia provveduto sulle richieste avanzate dalle parti non è più possibile effettuare tale indicazione od integrare la lista testi, in quanto l’unica attività processuale giuridicamente possibile circa le prove ammesse consiste nell’assunzione delle medesime. Il giudice di merito ha correttamente applicato il suddetto principio, cui il Collegio intende dare continuità. Infatti, come già messo in evidenza nella pronuncia richiamata, il legislatore ha inteso stabilire per le deduzioni istruttorie, una precisa e rapida procedura, di cui il provvedimento di ammissione costituisce l’atto finale; proprio la rigorosa scansione dei tempi processuali emergente dalla disciplina processuale non lascia dubbi sul fatto che anche l’indicazione dei testi deve precedere detto provvedimento di ammissione e che dopo quest’ultimo l’unica attività processuale giuridicamente possibile consiste nell’assunzione delle prove ammesse, salvo le eccezioni previste dall’art. 184 c.p.c., comma 3 e dall’art. 184-bis cod. poc. civ. Pertanto, il settimo motivo di ricorso va rigettato.

4. Con il secondo e sesto motivo, che si sovrappongono, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2733 cod. civ., in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, rispetto alla confessione giudiziale resa dal parroco in sede di risposta all’interrogatorio formale. Secondo la ricorrente il giudice, acquisita la confessione giudiziale di un fatto sfavorevole, consistente nell’aggiungere, dopo aver riconosciuto che c’era luce e si trattava di un gradino normale di pietra…, ma si vede male perchè da la sensazione di essere in piano, mentre invece c’è un gradino in discesa, avrebbe violato il valore legate attributo dalla legge alla confessione giudiziale.

Facendo prevalere, sulla base delle foto, la propria valutazione, secondo la quale il luogo (per la presenza della pietra serena e del cotto) sarebbe inidoneo ad una percezione erronea della realtà fisica, non avrebbe ritenuto accertato il fatto sfavorevole al confidente in ordine alla conformazione dei luoghi, così valutando le ammissioni del parroco come mere affermazione non giustificate.

Mentre, la confessione giudiziale è vincolante, sia nei confronti della parte che l’ha resa, sia nei confronti del giudice, il quale non può valutarla liberamente, nè accertare diversamente il fatto confessato.

4.1. La censura posta con il secondo e sesto motivo va rigettata.

La sentenza è conforme a diritto nella parte in cui valuta la dichiarazione in argomento, rilasciata dal parroco, insieme alle altre prove e non le conferisce valore di confessione giudiziale di un fatto sfavorevole al confitente, con i conseguenti vincoli discendenti dal valore di prova legale.

Tuttavia, poichè il giudice di merito si limita a parlare di pretesa confessione giudiziale è necessario integrare la motivazione, nei termini che seguono.

4.2. La questione giuridica è se la dichiarazione del parroco sopra richiamata verte su un fatto, atteso che, pacificamente, secondo la dottrina e la giurisprudenza, solo un fatto può essere oggetto della confessione. La dottrina, in riferimento alla nozione di fatto, previsto dall’art. 2730 e dall’art. 2733 cod. civ., è pacifica nel senso di richiedere la materialità del fatto, in senso ontologico e storico. La giurisprudenza ha spesso messo in evidenza che: la confessione deve avere ad oggetto fatti obiettivi; è compito del giudice la qualificazione giuridica degli stessi (Cass. 27 febbraio 2001, n. 2903); la confessione non può avere per oggetto opinioni o giudizi (Cass. 18 aprile 1969, n. 1242); in fattispecie relative a giudizi di risarcimento del danno in esito a sinistri stradali, non ha valore di confessione l’ammissione che un certo evento sia ascrivibile a propria colpa, trattandosi di un giudizio a formare il quale concorrono valutazioni di ordine giuridico (Cass. 3 agosto 2005, n, 16260). Nella specie, la dichiarazione….ma si vede male il gradino ndr perchè da la sensazione di essere in piano, mentre invece c’è un gradino in discesa, non ha per oggetto l’ammissione della materialità di un fatto. Questa sarebbe stata rinvenibile se, esemplificativamente, si fosse riconosciuto che: il gradino era sconnesso; era consunto dall’uso; quel giorno era bagnato perchè era stato appena pulito. Invece, oggetto della dichiarazione resa è la valutazione soggettiva da parte del parroco di un dato empirico costituito dal luogo; è la ritenuta idoneità dei luoghi ad indurre un errore di percezione visiva. I motivi vanno, pertanto, rigettati perchè la dichiarazione, pur astrattamente idonea a integrare confessione giudiziale perchè resa nel corso dell’interrogatorio formale, non verte su fatti, ma esprime una valutazione soggettiva di una realtà fisica.

5. Il terzo e quarto motivo sono collegati al seguente periodo, contenuto nella sentenza: In ogni caso è risolutivo il rilievo che l’attrice non ha provato di essere caduta per un errore indotto da questa sensazione (la sensazione di essere in piano, secondo la dichiarazione del parroco, n.d.r.).

Con il terzo si deduce la nullità della sentenza, per violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4 e l’insufficienza-illogicità della motivazione.

In particolare, si sostiene che la Corte di merito avrebbe errato nel ritenere la prova di uno stato d’animo come decisiva e prevalente rispetto alle altre prove (quesito) e si argomenta nel senso che una erronea percezione sensoriale, quale l’inganno indotto nell’agente da una situazione di apparente assenza di un pericolo, non può essere oggetto di prova storica.

Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2051 cod. civ., per avere la sentenza impugnata ritenuto gravante sul danneggiato l’onere di fornire la prova della carenza di un nesso causale alternativo alla causazione dell’evento (quesito).

Sostanzialmente, il giudice avrebbe errato nel ritenere spettante alla danneggiata la prova di un nesso causale non riconducibile allo stato dei luoghi (che è inciampata, ha avuto un mancamento, qualunque altra ragione indipendente dalla conformazione dei luoghi) e non al custode la prova del caso fortuito o del fatto della danneggiata.

5.1. I motivi, a parte il profilo motivazionale del terzo, che non contenendo la richiesta sintesi, è inammissibile, devono rigettarsi.

Innanzitutto perchè, al di là della asserzione dello stesso giudice in termini di carattere risolutivo della argomentazione censurata, tale argomentazione non è decisiva rispetto alla decisione. Infatti, elemento portante della riconosciuta mancanza di prova in ordine alla riconducibilità della caduta allo stato dei luoghi (nesso causale) è la valutazione che il giudice ha fatto dei luoghi attraverso le foto, secondo la quale il luogo sarebbe inidoneo ad una percezione erronea della realtà fisica (l’alternarsi di pietra serena e cotto di cui si è detto). Inoltre dal complesso della decisione si comprende che il termine provato, usato nell’argomentazione criticata, deve intendersi come allegato, il quale ultimo ben si coordina con quanto riportato nella stessa sentenza, secondo cui l’attrice aveva allegato – a proposito dei luoghi – l’assenza di luce e la generica insidiosità, non l’inganno ottico che poteva derivare dalla realtà fisica.

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese processuali, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna F.L. al pagamento, in favore della Arcipretura Collegiata di Castelfranco di Sotto, delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.900,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *