Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 10-06-2011) 13-06-2011, n. 23680

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

UCCOLIERI Lillo, che si è associato alla richiesta del Procuratore generale.
Svolgimento del processo

1. Con decisione in data 7 maggio 2010, la Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza pronunziata il 16 novembre 2009 dal Tribunale di Torino, che aveva condannato N.D. alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, comma 5-quater, (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), accertato il 13 novembre 2010.

Il fatto addebitato a N.D. consiste nel non avere ottemperato all’ordine di lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni, nuovamente impartitogli il 23 agosto 2009 dal Questore di Torino ai sensi dell’art. 14, comma 5-bis, a seguito di due precedenti intimazioni in data 3 settembre 2008 e 29 ottobre 2008, entrambe non ottemperate, nonchè alla condanna in forza di sentenza di applicazione della pena in data 28 ottobre 2008 per il reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, accertato il 18 ottobre 2008, relativo alla violazione della prima di dette precedenti intimazioni.

2. L’imputato proponeva personalmente ricorso e chiedeva l’annullamento della sentenza per mancanza di motivazione e per insussistenza del fatto, affermando: che l’ordine di allontanamento del 23 agosto del 2009 era da disapplicare perchè non era stato acquisito il precedente ordine del 3 settembre 2008, sul quale si basava; che la mancanza di documenti costituiva legittimo impedimento; che gli atti amministrativi erano stati tradotti soltanto in francese, lingua non adeguatamente conosciuta.

Il difensore d’ufficio dell’imputato depositava quindi memoria integrativa, con la quale evocava la sentenza n. 359 del 2010 della Corte costituzionale e deduceva anche che in dibattimento all’imputato era stata negata l’assistenza di un interprete di lingua francese, a lui nota, ed era stato nominato un interprete di dialetto sconosciuto.

3. Il Procuratore generale chiedeva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, sostenendo che la norma incriminatrice o, comunque, la disciplina dell’espulsione che ne costituisce il presupposto, è in contrasto con la Direttiva 2008/115/CE. 4. Con ordinanza in data 8 marzo 2010 questa Corte, dubitando che la norma incriminatrice, come riformulata a seguito della L. 15 luglio 2009, n. 94, si ponesse in contrasto, con la Direttiva 2008/115/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare), e ne compromettesse gravemente il risultato, sospendeva il giudizio e chiedeva alla Corte di giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla compatibilità con il diritto dell’Unione – e in particolare con gli articoli 2, par. 2, lett. b);

7, par. 1 e 4; 8, par. 1 e 4; 15, par, 1, 4, 5 e 6, della Direttiva citata – delle fattispecie previste dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, che puniscono a titolo di delitto le violazioni agli ordini di allontanarsi volontariamente dal territorio nazionale impartiti ai cittadini di Stati terzi non regolarmente soggiornanti, finendo con il sanzionare con la reclusione la sola mancanza di cooperazione al rimpatrio volontario.

5. Il 28 aprile 2011, è stata tuttavia depositata la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel procedimento C-61/11 PPU, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale avanzata dalla Corte d’appello di Trento in relazione alla compatibilità con la Direttiva 2008/115/CE del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter.

6. A seguito di tale pronunzia la Corte di giustizia ha interpellato questa Corte per conoscere se ha ancora interesse ad una specifica risposta alla questione d’interpretazione prospettata con l’ ordinanza in data 8 marzo 2011, restituendo gli atti già trasmessi in originale per le eventuali determinazioni in proposito.

7. Le parti sono state convocate per l’udienza odierna in vista della decisione in contraddittorio e hanno concluso come in epigrafe.
Motivi della decisione

1. Preliminare e assorbente rispetto ad ogni altra questione è il rilievo che con la sentenza 28 aprile 2011, emessa nel procedimento C- 61/11 PPU, su domanda della Corte d’appello di Trento nell’ambito del procedimento a carico di H.E.D., la Corte europea ha dichiarato che "Z.a direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo". 2. A ragione della decisione, la Corte di giustizia ha osservato:

– che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 risponde a una esigenza di "gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato – la concessione di un termine per la sua partenza volontaria – alla misura che maggiormente limita la sua libertà – il trattenimento in un apposito centro -, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità";

– che, in quest’ottica, persino il trattenimento, che rappresenta la misura più restrittiva della libertà consentita dalla direttiva, è strettamente regolamentato, quanto a durata e modalità, "allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi";

– che, "in particolare, la durata massima prevista all’art. 15, nn. 5 e 6, della direttiva 2008/115 ha lo scopo di limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo (sentenza 30 novembre 2009, causa C-357/09 PPU, Kadzoev, Racc. pag. 1-11189, punto 56)", la direttiva intendendo "così tener conto sia della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il principio di proporzionalità esige che il trattenimento di una persona sottoposta a procedura di espulsione o di estradizione non si protragga oltre un termine ragionevole, vale a dire non superi il tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito (v., in particolare, Corte eur. D.U, sentenza Saadi c. Regno Unito del 29 gennaio 2008, non ancora pubblicata nel Recueil des arrets et decisions, 72 e 74), sia dell’ottavo dei "Venti orientamenti sul rimpatrio forzato" adottati il 4 maggio 2005 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, ai quali la direttiva fa riferimento nel terzo considerando", secondo cui "il trattenimento ai fini dell’allontanamento deve essere quanto più breve possibile";

– che la situazione del cittadino di paese terzo intimato ad allontanarsi dal territorio di uno Stato membro perchè il suo soggiorno in detto Stato è irregolare "rientra nell’ambito di applicazione ratione personae della direttiva 2008/115, conformemente al suo art. 2, n. 1"; mentre non incide su tale conclusione l’art. 2, n. 2, lett. b), di detta direttiva, perchè "le sanzioni penali di cui a detta disposizione non concernono l’inosservanza del termine impartito per la partenza volontaria";

– che, pur dovendosi riconoscersi che gli Stati membri restano liberi di adottare misure, anche penali, atte a dissuadere i cittadini di paesi terzi dal soggiornare illegalmente nel loro territorio di detti Stati, ove le misure coercitive adottabili ai sensi dell’art. 8, n. 4, della direttiva (quali l’accompagnamento coattivo alla frontiera) non abbiano consentito di raggiungere il risultato perseguito, essi non possono, tuttavia, applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva e da privare quest’ultima del suo effetto utile;

– che di conseguenza gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive "una pena detentiva, come quella prevista al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma, 5-ter, solo perchè un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale"; dovendo invece essi Stati "continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti".

– che un simile trattamento penale rischia, in ragione delle sue condizioni e modalità di applicazione, di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva e l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio, una normativa quale quella italiana potendo addirittura ritardare l’esecuzione della decisione di rimpatrio;

– che spetta perciò al giudice nazionale "disapplicare ogni disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l’art. 14, comma 5 ter, di tale D.Lgs. (v., in tal senso, sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc. pag. 629, punto 24; 22 maggio 2003, causa C – 462/99, Connect Austria, Racc. pag. 1-5197, punti 38 e 40, nonchè 22 giugno 2010, cause riunite C-188/10 e C 189/10, Melki e Abdeli, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 43). Ciò facendo il giudice del rinvio dovrà tenere debito conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (sentenze 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C 391/02 e C 403/02, Berlusconi e a., Racc. pag. 1-3565, punti 67 69, nonchè 11 marzo 2008, causa C 420/06, lager, Racc. pag. 1-1315, punto 59)". 3. La pronunzia richiamata è stata assunta, come detto, in relazione all’ipotesi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter.

Le conclusioni raggiunte appaiono tuttavia valere, a fortiori, per il reato previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater, cui si riferisce la sentenza oggetto di ricorso, secondo quanto questa Corte ha già affermato con la sentenza m. 22105 del 28/04/2011 (dep. 01/06/2011), Tourghi.

Anche la fattispecie prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater, riguarda, difatti, la mera inottemperanza all’ordine di allontanarsi dal territorio nazionale impartito allo straniero in condizione di soggiorno irregolare, e trova causa esclusiva nella perdurante mancanza di cooperazione di questo al rimpatrio volontario. Necessariamente presupponendo, anzi, l’esistenza di un nuovo provvedimento di espulsione come conseguenza di precedente violazione sanzionata dall’art. 14, comma 5-ter, meno ancora risponde alle esigenze di proporzionalità e ai criteri di adeguatezza rispetto all’effettivo conseguimento dello scopo espulsivo che, stando ai principi cui intende dare attuazione la direttiva 2008/115/CE, condizionano la legittimità dell’intervento limitativo della libertà personale. D’altronde, la dimostrazione che l’apparato statuale abbia posto in essere ogni ragionevole sforzo per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio rispettando la gradazione procedimentale imposta dalla direttiva, non soltanto non è richiesta neppure per la punizione ai sensi dell’art. 14, comma 5-quater, ma, mediante il richiamato art. 14, comma 5-bis, risulta ancora una volta sostituita dal mero reiterato riferimento alla asserita impossibilità di dar corso alla espulsione coattiva o di trattenere lo straniero presso un centro di identificazione ed espulsione.

Atteso dunque lo scopo della direttiva 2008/115 indicato dalla Corte di giustizia – di garantire da un lato che lo Stato membro compia ogni ragionevole sforzo per attuare la politica di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dei paesi terzi; di impedire dall’altro che la privazione della libertà di costoro si protragga, nonostante l’impegno statuale, oltre limiti accettabili e proporzionati al fine espulsivo concretamente da perseguire -, il comando impartito dalla Corte europea al giudice nazionale, di "disapplicare ogni disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998" contraria al risultato che la direttiva intende perseguire, non può che essere inteso come riferito anche al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater.

4. Il diritto dell’Unione e in particolare la direttiva 2008/115/CE, come interpretati, in maniera autoritativa e con effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni, dalla decisione della Corte di Giustizia del 28 aprile 2008, impedendo l’applicazione della fattispecie incriminatrice, producono effetti che non possono che considerarsi analoghi all’abolitio criminis.

Non può a tale proposito ingenerare incertezze il riferimento contenuto, nel monito della sentenza El Dridi, alla applicabilità della "pena più mite".

Il richiamo alle tradizioni costituzionali comuni e ai diritti fondamentali rende evidente che i principi evocati dalla sentenza El Dridi sono quelli elaborati, anche dalla Corte EDU, in tema di art. 7 della Convenzione, e la sentenza della CtGUE lager, pure richiamata (e che tratta di sanzioni amministrative), palesa come nel linguaggio della Corte il termine "pene" si riferisca a qualsivoglia regime sanzionatorio o afflittivo, non necessariamente corrispondente ad un trattamento "penale" secondo l’ordinamento italiano. Il richiamo al principio della applicabilità della pena più mite deve perciò intendersi comprensivo sia delle ipotesi di vera e propria successione di legge (penale) più favorevole nel tempo sia delle ipotesi di depenalizzazione o abolitio criminis.

Nell’ordinamento non sono, d’altro canto, individuabili fattispecie sanzionatorie diverse e non incidenti così pesantemente sulla libertà personale, i cui elementi costitutivi siano interamente contenuti nella fattispecie delineata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater, e che siano, perciò, capaci di riespandersi (ovviamente previa riqualificazione, nel rispetto dei principi consegnati dalla sentenza Drassich, 11 dicembre 2007 – ricorso n. 25575/04, della Corte EDU) a fronte della necessaria disapplicazione della fattispecie contestata. Nè potrebbero, in ogni caso prendersi, in considerazione in sede di legittimità eventuali ipotesi di reato alternative, che richiederebbero una modificazione della contestazione in fatto (l’accertamento dunque degli ulteriori e diversi elementi costitutivi, e il riconoscimento del diritto dell’imputato di difendersi anche in relazione ai diversi aspetti richiesti per l’integrazione di tali ipotesi).

In relazione al reato in esame, realizzato prima della scadenza dei termini per il recepimento della direttiva, deve per conseguenza dichiararsi che il fatto non è (più) preveduto dalla legge come reato, adottandosi così la formula che più s’attaglia alla situazione normativa in esame, non espressamente considerata, per ragioni storiche, dai redattori del codice di rito.

Più volte la stessa Corte costituzionale ha d’altra parte riconosciuto che i principi enunciati nella decisione dalla Corte di giustizia si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno, con il valore di jus superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui le norme di questo conservano efficacia e devono essere applicate anche da parte del giudice nazionale (Corte cost., ord. n. 63 del 2003, nonchè nn. 255 del 1999, 125 del 2004 e 241 del 2005).

In tal modo mostrando di annettere valore conformativo alle sentenze della Corte di giustizia che in via d’interpretazione pregiudiziale dichiarano l’incompatibilità del diritto nazionale con quello europeo.

Analogamente, in relazione a ipotesi in qualche modo simile, questa Corte, Sez. 1, sent. n. 16521 del 20/01/2011, Titas Luca, ha già ritenuto (citando altresì Corte Cost. nn. 13 del 1985, 389 del 1989, 168 del 1991, nonchè la conforme giurisprudenza di legittimità) che la pronunzia della Corte di Giustizia che accerta l’incompatibilità della norma incriminatrice con il diritto europeo (si trattava del caso Schwibbert) "si incorpora nella norma stessa e ne integra il precetto con efficacia immediata", così producendo "una sorta di abolitici criminis" che impone, in forza di interpretazione costituzionalmente necessitata, di estendere a siffatte situazioni di sopravvenuta inapplicabilità della norma incriminatrice nazionale, la previsione dell’art. 673 cod. proc. pen..

5. In conclusione, la decisione della Corte di giustizia in data 28 aprile 2011 assunta nel procedimento C-61/11 PPU, El Dridi, appare riferibile anche alla disposizione incriminatrice in esame e soddisfa il quesito interpretativo posto da questa Corte con l’ ordinanza in data 8 marzo 2011.

Revocata la sospensione del giudizio, la sentenza impugnata deve dunque essere annullata senza rinvio perchè il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato, con eliminazione della relativa pena.

La materia della domanda di interpretazione in via pregiudiziale rivolta alla Corte di giustizia dell’Unione europea deve per l’effetto intendersi venuta meno e di tanto deve darsi comunicazione a quella Corte.
P.Q.M.

Revocata la sospensione, annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Manda alla Cancelleria di trasmettere alla Corte di giustizia dell’Unione europea copia della presente decisione, con la quale viene meno la materia della domanda d’interpretazione in via pregiudiziale rivoltaLe con ordinanza 8 marzo 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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