Cass. sez. VI – sentenza 05 ottobre 2010 n. 35748. Societas puniri potest: anche i crediti vantati dalla persona giuridica possono costituire profitto del reato ai sensi dell’art. 19 D. Lgs. n. 231 del 2001.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. – Torna all’esame di questa Corte il procedimento cautelare avente ad oggetto il sequestro preventivo del profitto conseguito dalle società ricorrenti, costituite all’epoca in Associazione Temporanea di Imprese – A.T.I. (OMISSIS), per gli illeciti commessi nel loro interesse. Il sequestro era stato disposto originariamente dal G.i.p. di Napoli il 26.6.2007, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 53, nei confronti delle società indagate, aggiudicatarie dell’appalto del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani della Campania, sequestro funzionale alla confisca prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, in relazione al reato presupposto di truffa ai danni dello Stato, ricompreso nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 24. La misura cautelare aveva riguardato la somma complessiva di 750 milioni di Euro, ritenuta equivalente al valore del profitto tratto dall’illecito consumato nell’interesse delle società.
Con decisione del 24.7.2007 il Tribunale di Napoli, in sede di riesame, aveva confermato il provvedimento del G.i.p. e contro questa decisione le società indagate erano ricorse in Cassazione che, in data 27.3.2008, decideva a Sezioni unite e, ritenuto che le utilità confiscabili erano state individuate in maniera astratta, senza ricercare l’esistenza di un rapporto causale, diretto ed immediato, fra illecito e vantaggio conseguito, aveva disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
Il Tribunale di Napoli, in data 24.7.2008, in sede di rinvio annullava il provvedimento di sequestro preventivo del G.i.p., affermando che la mancata allegazione di elementi idonei ad individuare le prestazioni conseguite a seguito di attività decettive, distinguendole dalle prestazioni regolari, non consentiva l’accertamento del profitto confiscabile. Quindi disponeva il dissequestro delle somme.
Sull’impugnazione del pubblico ministero la Seconda Sezione della Cassazione, con sentenza del 16.4.2009, interveniva nuovamente sulla questione. Rilevava che il Tribunale di Napoli aveva, sostanzialmente, omesso ogni motivazione sulle singole somme sequestrate, senza applicare i principi di diritto fissati dalle Sezioni unite. Questa decisione chiariva che le Sezioni unite non avevano affermato che le somme sequestrate non potessero costituire il profitto del reato di truffa, ma avevano imposto al giudice di merito l’obbligo di una motivazione adeguata e ottemperante ai principi fissati, verificando per ogni singola somma la provenienza diretta ed immediata dalla condotta illecita. Veniva quindi annullato il provvedimento del Tribunale che aveva disposto la restituzione di tutte le somme sequestrate, confermando solo il dissequestro della somma di Euro 301.641.238, relativa alla tariffa di smaltimento dei rifiuti effettivamente incassata dall’A.T.I..
Si arriva, quindi, all’ordinanza oggi impugnata, emessa dal Tribunale di Napoli in data 20.10.2009, sempre quale giudice di rinvio, che dopo avere ricostruito attentamente i fatti contestati alle società ricorrenti, ha proceduto all’esame delle singole somme sequestrate, confermando il provvedimento cautelare con riferimento alle seguenti somme:
– Euro 115.521.757,27, relativa ai crediti certi, liquidi ed esigibili aventi ad oggetto la tariffa di smaltimento dei rifiuti che l’A.T.I. vantava nei confronti dei comuni e che non aveva ancora incassato;
– Euro 99.092.457,23, corrispondente alle spese sostenute dal Commissariato di governo, a seguito dei verificatisi inadempimenti, per lo smaltimento fuori regione dei rifiuti solidi urbani (RSU) delle frazioni a valle della lavorazione degli impianti di produzione di combustibile derivato dai rifiuti (CDR);
– Euro 51.645.689,90, costituente la somma relativa al mancato deposito cauzionale che l’A.T.I. si era impegnata a versare a garanzia dell’adempimento del contratto.
Ha invece disposto l’annullamento del sequestro sia in relazione alla somma di Euro 103.404.000,00, corrispondente al valore delle opere realizzate nella costruzione del termovalorizzatore di (OMISSIS), sia di quella di Euro 53.000.000,00, cioè della somma anticipata dal Commissariato per la costruzione impianti di produzione di combustibile derivato dai rifiuti (CDR) nelle province diverse da quella di Napoli, sia, infine, dell’importo costituente l’aggio riconosciuto all’A.T.I. per l’attività di riscossore diretto delle somme da consegnare al Commissariato, escludendo, in quest’ultimo caso, che si possa sequestrare per equivalente una somma per la quale manca ogni prova relativa al suo incasso.
2. – Contro questa decisione hanno proposto ricorso per cassazione il pubblico ministero, nonché le società indagate, tramite i loro difensori di fiducia.
2.1. – Nel suo ricorso il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli censura l’ordinanza limitatamente all’annullamento del sequestro preventivo relativo alla somma di Euro 53.000.000 e all’importo di crediti per complessivi Euro 103.404.000.
Assume che si tratta di somme di denaro che proprio in base ai principi stabiliti dalla sentenza delle Sezioni unite avrebbero dovuto essere sottoposti a sequestro.
Rileva il ricorrente che i 53 milioni di Euro sono stati esclusi dal provvedimento cautelare reale perché non utilizzati esclusivamente per la costruzione degli impianti di produzione di combustibile derivato dai rifiuti (CDR) collocati fuori della provincia di Napoli, ma usati in genere per la realizzazione complessiva del progetto relativo al piano di smaltimento dei rifiuti in Campania, ragion per cui il Tribunale ha ritenuto impossibile procedere al calcolo della eventuale utilitas indicata dalle Sezioni unite della Cassazione come uno dei parametri per individuare l’ammontare del profitto sequestrabile. Questa argomentazione viene criticata dalla parte ricorrente che evidenzia, innanzitutto, come non risulti che la somma in questione non sia stata usata in tutto o in parte per la costruzione degli impianti di produzione di combustibile derivato dai rifiuti (CDR) fuori della provincia napoletana e, inoltre, rileva come i giudici non abbiano neppure indicato quali siano stati gli altri interventi realizzati. Si assume che la somma, corrisposta dal Commissariato all’A.T.I. a titolo di finanziamento/prestito per assicurare la rapida costruzione degli impianti di produzione di combustibile derivato dai rifiuti (CDR) situati nelle province campane diverse da quella di Napoli, rappresenti una erogazione che si pone quale diretta conseguenza della condotta artificiosa posta in essere dalle società indagate, in quanto l’A.T.I. era consapevole che gli impianti erano inidonei tecnicamente e ciononostante si dichiarava pronta alla loro realizzazione, affermando falsamente la loro idoneità alla effettuazione della prestazione unitaria, acquisendo in tal modo il finanziamento che era causalmente giustificato dalla asserita capacità dell’A.T.I. di realizzare tali impianti. In questo modo la somma conseguita rappresenta un risultato economico positivo e non dovuto, nè lecitamente acquisibile, dal momento che il finanziamento non sarebbe stato neppure erogato se fosse stata conosciuta l’inidoneità degli impianti. In altri termini, si tratta di una delle parti del profitto del reato, incamerato in maniera truffaldina dall’A.T.I. affidataria e costituisce conseguenza immediata e diretta della condotta decettiva.
Riconosciuto che l’importo in questione costituisce il profitto del reato il ricorrente ha escluso l’esistenza di una utilitas derivante dall’illecito incameramento del denaro, peraltro non indicata neppure dalla difesa.
Per quanto concerne il sequestro della somma di Euro 103.404.000 il ricorrente deduce sostanzialmente la totale mancanza di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine all’esistenza del nesso fattuale di derivazione causale dalla condotta truffaldina dell’A.T.I..
2.2. – Le società indagate hanno presentato distinti ricorsi, che però possono essere esaminati congiuntamente in quanto propongono motivi sostanzialmente coincidenti, volti a dedurre la violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 19 e 53 in relazione alle somme per le quali l’ordinanza impugnata ha confermato il sequestro preventivo per equivalente, sostenendo che il Tribunale abbia disapplicato la nozione di profitto dal reato fornita dalle Sezioni unite.
Con riferimento al sequestro pari ad Euro 99.092.457,23 si sostiene che questa somma è stata spesa autonomamente dalla pubblica amministrazione per far fronte alle difficoltà emerse durante l’esecuzione del contratto mediante lo smaltimento di una parte dei rifiuti al di fuori della Regione Campania, sicché non vi sarebbe alcuno spazio per riconoscere che si tratti di profitto del reato, inteso come vantaggio economico di diretta e immediata derivazione dalla truffa contrattuale. Le parti ricorrenti censurano l’ordinanza per avere, tra l’altro, travisato il contenuto della decisione delle Sezioni unite sul punto, omettendo di considerare che queste avevano rilevato come l’imputazione a profitto delle spese in questione fosse in realtà una sorta di "pretesa restitutoria o risarcitoria della controparte pubblica e non un profitto del reato", escludendo anche che potesse parlare di "risparmio di spesa". Ritengono infatti che nella specie si tratti effettivamente di somme da risarcire alla amministrazione e per le quali vi è già stata una specifica domanda giudiziale da parte del Commissariato con atto di citazione notificato alle società in data 25.5.2005; inoltre, escludono che le somme possano essere imputate a profitto sotto specie di risparmi di spesa, anche in considerazione del fatto che le società non hanno introitato alcun vantaggio a fronte di tali spese, essendo beneficiaria altra società, la (OMISSIS). Peraltro, si assume che manchi anche il nesso di immediatezza causale tra la somma sequestrata e il reato di truffa, in quanto l’ordinanza impugnata non avrebbe chiarito quale sia stato lo specifico artificio o raggiro che avrebbe indotto in errore la pubblica amministrazione inducendola a sostenere tali spese. In effetti, secondo le ricorrenti si sarebbe trattato di spese effettuate per far fronte ad una situazione di emergenza connessa alle concrete difficoltà di smaltimento dei rifiuti e a talune improprie modalità di esecuzione del contratto, rispetto alle quali eventuali condotte dissimulataci sono solo mediato e indiretto rapporto con le somme in questione.
In relazione al sequestro per Euro 51.645.689,90 le parti ricorrenti sottolineano che la questio facti affidata al giudice di rinvio era costituita dall’accertamento della fideiussione bancaria offerta in sostituzione del deposito cauzionale, la cui esistenza avrebbe determinato l’illegittimità del sequestro. Invece, il Tribunale avrebbe ritenuto che, nella specie, il vantaggio economico per le società sarebbe consistito non nell’omesso deposito cauzionale, ma nel mancato incameramento delle garanzie bancarie, peraltro violando il principio della domanda e della correlazione tra richieste cautelari e decisione del giudice. Sul piano sostanziale si ritiene che anche in questo caso non di profitto dal reato si tratta, ma di una possibile pretesa risarcitoria: le società non hanno incamerato alcun corrispettivo per la ritardata escussione delle garanzie fideiussorie, ed anzi a seguito della escussione della garanzia bancaria operata dal Commissariato del Governo sin dal 2007 non potranno certo astenersi dal rifondere agli istituti di credito laddove la pretesa risarcitoria del Commissariato fosse accolta.
Per quanto concerne il sequestro pari ad Euro 115.521.757,27 le ricorrenti società deducono l’illegittimità del mutamento del titolo del sequestro, da sequestro per equivalente e sequestro diretto sui documenti costituenti il credito vantato nei confronti dei comuni e non ancora incassati, con conseguente violazione del principio della domanda. Inoltre, assumono che l’ordinanza si pone in contrasto con il dictum delle Sezioni unite che avevano escluso il sequestro, a titolo di profitto, di crediti anche certi, liquidi ed esigibili, ma non ancora effettivamente conseguiti. Viene citata una decisione della Quinta Sezione di questa Corte che ha ritenuto non confiscabili i semplici crediti quando non corrispondenti ad alcuna utilità. Inoltre, si sostiene la non sequestrabilità della somma, in quanto risulterebbe violata la clausola di salvezza contenuta nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, che esclude dalla confisca la parte che può essere restituita al danneggiato, disposizione che trova applicazione anche nella fase cautelare. I ricorrenti passano quindi a contestare l’ordinanza anche nell’ipotesi che le Sezioni unite abbiano inteso ammettere il sequestro diretto dei documenti rappresentativi dei crediti, rilevando che nella specie si tratta di crediti incerti sia nell’an sia nel quantum. Inoltre, si rileva come il Tribunale non abbia distinto il profitto derivante dalla truffa da quello frutto del regolare svolgimento del rapporto contrattuale anche di inadempimenti non truffaldini, passando direttamente ad individuare l’esistenza di una utilitas anche parziale, trascurando i risultati della consulenza del prof. (OMISSIS) che ha ritenuto non distinguibile il profitto illecito da quello lecitamente conseguito.
Infine, entrambi i ricorsi deducono l’indeterminatezza dell’ordinanza, che nella parte dispositiva omette ogni specificazione dell’importo del sequestro e dei beni da assoggettare a provvedimento cautelare reale.
Nell’interesse di (OMISSIS) il difensore ha depositato una memoria difensiva, in cui oltre a ribadire le ragioni dei motivi proposti, censura il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica di Napoli.

MOTIVI DELLA DECISIONE
3. – Preliminarmente appare opportuno precisare che l’oggetto del presente procedimento non riguarda più né la somma di Euro 301.641.238, relativa alla tariffa di smaltimento dei rifiuti incassata dall’A.T.I., né l’importo – non determinato -costituente l’aggio riconosciuto per l’attività di riscossore diretto svolto sempre dall’A.T.I., in quanto per la prima somma è intervenuto il dissequestro da parte del Tribunale di Napoli (ordinanza del 24.7.2008), poi confermato dalla sentenza del 16.4.2009 della Cassazione, mentre per l’altro importo vi è stato l’annullamento del sequestro disposto dal Tribunale di Napoli con l’ordinanza del 20.10.2009, annullamento che non è stato impugnato dal pubblico ministero.
Per quanto riguarda le residue somme, cui si riferiscono i ricorsi presentati dalle parti, in questa sede occorrerà verificare se il Tribunale del riesame di Napoli, quale giudice del rinvio, ha correttamente applicato i principi di diritto fissati dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza del 27.3.2008 e sostanzialmente ribaditi dalla successiva decisione del 16.4.2009 della Sezione seconda della Cassazione.
4. – Nell’operazione di verifica del profitto sequestrabile in funzione della futura confisca ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19 è quindi imprescindibile il riferimento a quanto stabilito dalla sentenza n. 26654 del 27.3.2008, secondo cui il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 cit. si identifica con il "complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti", escludendo l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico e superando la dicotomia tra profitto netto e profitto lordo, su cui inizialmente le società ricorrenti avevano molto insistito. La sentenza recupera la giurisprudenza precedente ribadendo che il profitto del reato presuppone l’accertamento della sua "diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente" e precisa come il parametro della pertinenzialità al reato del profitto costituisca l’effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo, occorrendo che vi sia sempre una diretta correlazione tra reato e profitto, con esclusione di quei vantaggi, anche di natura patrimoniale, privi di un nesso causale con l’illecito, dovendo il profitto essere comunque una "conseguenza economica immediata ricavata dal fatto di reato". Allo stesso tempo, prende atto di una nozione di profitto in senso estensivo, frutto non solo del contributo giurisprudenziale in materia di confisca del profitto di reati contro la pubblica amministrazione, che ha riconosciuto il collegamento causale al fatto illecito anche nel caso di reimpiego del denaro (Sez. un., 25.10.2007, n. 10280, Miragliotta), ma anche di precisi indirizzi contenuti nei vari strumenti internazionali che si sono occupati di questo tema.
Per quanto riguarda la valutazione della nozione di profitto, la decisione delle Sezioni unite opera una distinzione tra la condotta dell’agente che sia inserita in un contesto di attività totalmente illecita e quella inserita in un’attività lecita "nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il reato", per introdurre un’ulteriore differenziazione circa l’individuazione del profitto tra il c.d. "reato contratto", in cui l’illecito si realizza unicamente con la stipula del contratto, e il c.d. "reato in contratto", ove il comportamento penalmente rilevante non si perfeziona con la stipula, ma incide solo sulla fase di formazione o di esecuzione del contratto. Mentre nel primo caso il profitto costituisce immediata e diretta conseguenza del contratto e, di conseguenza, sarà assoggettato a confisca; nell’altro caso non può non considerarsi che dal contratto possono derivare conseguenze del tutto lecite, sicché il corrispondente profitto tratto dall’agente non sempre è ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.
Il reato di truffa contestato alle imprese ricorrenti rientra, secondo la sentenza richiamata, nella categoria dei "reati in contratto", sicché occorre differenziare il vantaggio economico derivante direttamente dal reato e che può essere oggetto di confisca ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, dall’incremento economico determinato da una prestazione lecita eseguita in favore della controparte nel corso del rapporto contrattuale, che rappresenta il profitto non confiscabile, nella misura in cui risulta estraneo all’attività criminosa posta in essere. Le Sezioni unite hanno posto in risalto come "la genesi illecita di un rapporto giuridico, che comporta obblighi sinallagmatici destinati anche a protrarsi nel tempo, non necessariamente connota di illiceità l’intera fase evolutiva del rapporto, dalla quale, invece, possono emergere spazi assolutamente leciti ed estranei all’attività criminosa nella quale sono rimasti coinvolti determinati soggetti e, per essi, l’ente collettivo di riferimento". In altri termini, "il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure". Diversamente, una nozione dilatata del profitto di reato potrebbe portare ad una irragionevole e sostanziale duplicazione della sanzione, nelle ipotesi in cui l’ente, adempiendo al contratto, che pure ha trovato la sua genesi nell’illecito, pone in essere un’attività i cui risultati economici non possono essere posti in collegamento diretto ed immediato con l’illecito.
In conclusione, sulla base delle argomentazioni sinteticamente riportate, le Sezioni unite hanno stabilito che nel sequestro preventivo funzionale alla confisca ex artt. 19 e 53 D.Lgs. cit. il profitto del reato consiste nel "vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente".
Ed è in base a questo principio di diritto che deve essere condotto l’accertamento sulla legittimità dell’ordinanza impugnata in relazione ai motivi fatti valere dai ricorrenti su ciascuna delle somme interessate dal provvedimento di sequestro preventivo.
5. – Passando all’esame dei ricorsi proposti dalle società indagate, si osserva che per quanto riguarda la somma di Euro 51.645.689,90, relativa al mancato deposito cauzionale che l’A.T.I. si era impegnata a versare a garanzia dell’adempimento del contratto, la sentenza delle Sezioni unite aveva rilevato come non si cogliesse il collegamento causale diretto con l’illecito e che non fosse chiaro se, in sostituzione della cauzione, le imprese aggiudicatane avessero o meno offerto fideiussioni bancarie.
Il Tribunale ha accertato che la garanzia è stata effettivamente prestata nella forma della fideiussione bancaria – come del resto consente la L. 10 giugno 1982, n. 348, art. 1 -, tuttavia ha comunque sostenuto la confiscabilità della somma, quale profitto del reato, in base ad un ragionamento che però tradisce la mancanza di una effettiva relazione diretta con il reato di truffa contestato alle società, dal momento che non si fa più riferimento all’omesso deposito cauzionale, ma, come hanno correttamente rilevato le difese delle società ricorrenti, al mancato incameramento delle garanzie bancarie. In altri termini, i giudici di merito assumono che la condotta truffaldina delle società avrebbe determinato un ritardo nella interruzione del rapporto contrattuale per la mancata cognizione dell’inadempimento, con l’indiretta conseguenza di impedire una escussione immediata delle fideiussioni. Ma in questo modo si opera una confusione tra quello che potrebbe essere un danno indiretto arrecato alla pubblica amministrazione, peraltro oggetto di una pretesa risarcitoria, e il profitto del reato: infatti, anche a voler ritenere che il ritardo nell’acquisizione delle garanzie personali sia collegabile in qualche modo al reato presupposto, appare evidente che le società ricorrenti non hanno acquisito alcun incremento patrimoniale in conseguenza della ritardata escussione delle garanzie fideiussorie, sicché deve escludersi che la somma in questione costituisca profitto nei termini indicati dalle Sezioni unite. Tra l’altro, come rilevato dalle ricorrenti, occorre considerare che a seguito della escussione della garanzia bancaria operata nel 2007 da parte del Commissariato di Governo le stesse società dovranno rifondere gli istituti di credito qualora la pretesa risarcitoria del Commissariato dovesse trovare accoglimento.
Le conseguenze di tali ipotizzabili situazioni sarebbero nel senso di produrre una duplicazione del sacrificio economico a carico delle società, esposte sia agli obblighi risarcitoli, sia all’ablazione conseguente alla futura confisca.
Deve, in conclusione, escludersi che l’importo corrispondente alla fideiussione possa qualificarsi come profitto del reato, non costituendo vantaggio patrimoniale di immediata e diretta derivazione dal reato.
5.1. – L’ordinanza impugnata ha confermato il sequestro anche con riferimento alla somma di Euro 99.092.457,23, corrispondente alle spese sostenute dal Commissariato, a seguito dei verificatisi inadempimenti, per lo smaltimento fuori regione dei rifiuti solidi urbani (RSU) delle frazioni a valle della lavorazione degli impianti di produzione di combustibile derivato dai rifiuti (CDR). In particolare, il Tribunale ha rilevato che tale spesa avrebbe dovuto essere sopportata dall’A.T.I. ai sensi dell’art. 24 del contratto d’appalto, che obbligava le società del gruppo a smaltire tutti i rifiuti solidi urbani prodotti dalle province campane e che al successivo art. 29 prevedeva che, in caso di fermo degli impianti, le società affidatane dovessero procedere comunque alla ricezione dei rifiuti ed al loro smaltimento. Si sarebbe trattato di un inadempimento contrattuale realizzato attraverso condotte truffaldino che hanno determinato la spesa non dovuta da parte del Commissariato di Governo per assicurare lo smaltimento dei rifiuti. In altri termini, secondo i giudici di merito, il profitto del reato sarebbe costituito in questo caso dalla spesa sostenuta dal Commissariato di Governo, in luogo del Gruppo (OMISSIS), per lo smaltimento dei rifiuti nel periodo dell’emergenza.
Anche in questo caso il Tribunale del riesame ha operato una indebita equiparazione tra pretesa risarcitoria e profitto di reato, inteso nel senso indicato dalle Sezioni unite. Infatti, la somma in questione altro non è se non la spesa autonomamente sostenuta dalla pubblica amministrazione per far fronte alle gravi difficoltà emerse durante l’esecuzione del contratto e rappresenta l’eventuale danno che la condotta delle società ricorrenti ha cagionato all’amministrazione nel campo dello smaltimento dei rifiuti, rendendo necessario l’intervento straordinario del Commissariato di Governo, ma non può sostenersi che corrisponda al profitto del reato, in quanto il pregiudizio economico cagionato alla controparte contrattuale non equivale ad un incremento patrimoniale conseguito dalle società ricorrenti quale diretta e immediata conseguenza del reato presupposto. Con il comportamento inadempiente le società ricorrenti hanno potuto cagionare un danno alla pubblica amministrazione, ma non può dirsi che al danno prodotto corrisponda automaticamente un profitto da queste realizzato. Per danno, come fatto giuridico, si intende un nocumento o un pregiudizio ovvero un’alterazione di una situazione nell’ambito della sfera di interessi altrui e l’art. 185 c.p. prevede espressamente che ogni reato che cagioni un danno, patrimoniale o non patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento. Nel caso di specie, la somma di Euro 99.092.457,23, così come rappresentata nella stessa ordinanza impugnata, potrà costituire, sulla base di prove adeguate, la pretesa risarcitoria della parte pubblica rispetto alla condotta illecita posta in essere dalle società, ma non può ritenersi profitto del reato, in quanto il danno non si è tradotto anche in un vantaggio patrimoniale direttamente scaturente dal reato.
D’altra parte, deve anche escludersi che il valore della somma in questione possa rientrare nella nozione di profitto inteso come "risparmio di spesa", in quanto le stesse Sezioni unite hanno avuto modo di precisare che tale concetto presuppone un ricavato comunque introitato, che non venga decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere: secondo questa interpretazione per poter parlare di profitto come risparmio di spesa conseguito sarebbe stato necessario individuare un risultato economico positivo concretamente determinato dalla contestata condotta di truffa, situazione che non si riscontra nella specie, in cui non vi è stato alcun introito da parte delle società indagate.
5.2. – Riguardo alla somma in sequestro relativa ai crediti aventi ad oggetto la tariffa di smaltimento dei rifiuti, che l’ATI vantava nei confronti dei Comuni e che non ha ancora incassato, le Sezioni unite, dopo avere rilevato una contraddizione tra la motivazione del provvedimento genetico e il dispositivo, in quanto nel primo si parla di "vincolo per equivalente", mentre nella parte dispositiva si "orienta equivocamente il sequestro sui documenti rappresentativi dei crediti o sulla maggiore o minore somma nell’importo da determinarsi in sede di esecuzione, hanno sostenuto che l’imputazione a profitto di semplici crediti, anche se certi, liquidi ed esigibili, "non può essere condivisa, trattandosi di utilità non ancora effettivamente conseguite", aggiungendo che il provvedimento di confisca (e quindi quello di sequestro ad essa funzionale) "dovrebbe in questo caso ricadere sui crediti stessi (confisca diretta), considerato che la confisca di questi per equivalente porrebbe il destinatario nella condizione di vedersi privato di un bene già a sua disposizione in ragione di una utilità non ancora concretamente realizzata".
Il Tribunale ha ritenuto di risolvere la contraddizione segnalata dalle Sezioni unite tra la parte motiva e il dispositivo del provvedimento emesso dal G.i.p., assumendo che si sarebbe trattato di un "sequestro diretto dei documenti relativi a tali crediti". Quindi, ha operato una detrazione pari ad Euro 26.179.699,29, tenendo conto della quantità di scarti, metalli e pecolato prodotti, corrispondente alla effettiva utilità tratta dalla collettività come conseguenza dell’azione lecita del Gruppo (OMISSIS), riducendo il sequestro alla somma finale di Euro 115.521.757 e annullandolo nel resto. Questa somma è stata ritenuta conseguenza diretta e immediata delle condotte illecite delle società, i cui vertici erano perfettamente consapevoli che gli impianti, per le loro caratteristiche tecniche, non erano in grado di raggiungere gli scopi indicati negli elaborati progettuali di gara ed esecutivi.
Ciò premesso, deve ritenersi che non appare fondato il motivo proposto nei ricorsi delle difese delle società ricorrenti, secondo cui il Tribunale avrebbe violato il principio della domanda per aver mutato il titolo della misura cautelare richiesta dal pubblico ministero, da sequestro per equivalente a sequestro diretto, in quanto a tale valutazione è stato chiamato in qualità di giudice del rinvio, avendo la sentenza di annullamento della Corte di cassazione imposto di risolvere l’equivoco derivante dalla contraddittorietà tra motivazione del provvedimento e dispositivo.
Allo stesso modo sono infondati i motivi con cui le società ricorrenti contestano l’ordinanza impugnata per avere sostenuto che la decisione delle Sezioni unite avesse ritenuto, in astratto, legittimo il sequestro diretto dei crediti, limitandosi ad escluderne solo la sequestrabilità per equivalente. Invero, dalla lettura della sentenza in questione emerge in maniera evidente come il principio affermato, che nega l’imputazione a profitto di semplici crediti, anche se certi, liquidi ed esigibili, in quanto utilità non ancora effettivamente conseguite, si riferisce esclusivamente al sequestro (e alla confisca) per equivalente, dal momento che l’esclusione è giustificata in relazione alla circostanza che in tale ipotesi il destinatario della misura cautelare si vedrebbe "privato di un bene già a sua disposizione in ragione di una utilità non ancora concretamente realizzata". Tale situazione, che appare irragionevolmente pregiudizievole, non viene invece a determinarsi nel caso di sequestro diretto del credito e della sua documentazione, a condizione che, oltre ad essere considerato come profitto del reato, si tratti di un credito certo, liquido ed esigibile.
Nella specie, il Tribunale ha sostenuto che una parte della tariffa di smaltimento dei rifiuti vantata dall’A.T.I. nei confronti dei Comuni, decurtata del valore dell’utilità comunque ricavata dalle amministrazioni e dalla collettività, corrisponda al profitto che le società indagate hanno ricavato direttamente dalla attività truffaldina posta in essere, consistita, secondo la ricostruzione contenuta nell’ordinanza, nel non avere prodotto né il compost idoneo al recupero ambientale, né il combustibile derivato dai rifiuti (CDR) conforme alle specifiche contrattuali, inoltre omettendo di assicurare il recupero energetico e una gestione corretta degli impianti, nella consapevolezza di non poter garantire una serie di risultati e di servizi proprio a causa delle caratteristiche tecniche degli impianti. In conclusione, i giudici del riesame hanno ritenuto che, allo stato degli atti, il profitto del reato di truffa potesse essere appunto individuato nei crediti dell’A.T.I. – ancora non riscossi – nei confronti dei comuni, che dovevano corrispondere la tariffa di smaltimento dei rifiuti a fronte di servizi erogati male e solo in parte.
Deve, tuttavia, rilevarsi che il sequestro preventivo diretto, funzionale alla confisca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19 del profitto del reato costituito da crediti è ammesso a condizione che questi siano certi, liquidi ed esigibili, cioè non contestati e determinati con precisione nel loro ammontare. Infatti, solo un credito che abbia tali caratteristiche potrebbe essere considerato alla pari di un incremento patrimoniale ovvero di un vantaggio direttamente e immediatamente derivante da reato; mancando tali caratteri si tratterebbe di una utilità futura e incerta, che mai assumerebbe i connotati e la natura di profitto come sopra inteso. In altri termini, la certezza, la liquidità e la immediata esigibilità del credito lo rende un bene sostanzialmente già nella disponibilità dell’avente diritto, sicché si giustifica la sua apprensione ai sensi degli artt. 19 e 53 D.Lgs. cit..
Ebbene, su questo aspetto rilevante l’ordinanza impugnata non ha offerto alcuna motivazione, omettendo al riguardo ogni verifica, dando luogo così ad una carenza nell’accertamento della natura dei crediti in sequestro puntualmente rilevata dalle società ricorrenti, che hanno sostenuto l’assoluta incertezza sia nell’an che nel quantum dei crediti in questione.
Inoltre, il Tribunale non ha preso in esame neppure la questione, posta dalle difese, relativa alla non sequestrabilità del profitto di reato che possa essere restituita al danneggiato, evidentemente ritenendo non applicabile al sequestro il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 1, che si riferisce alla confisca. Al contrario, deve ritenersi che, stante la strumentalità rispetto al provvedimento sanzionatorio finale costituito dalla confisca, la misura cautelare reale non possa avere una maggiore capacità di ablazione dei beni costituenti il profitto, ma il suo perimetro di azione sia segnato dagli stessi limiti riconosciuti dalla legge al provvedimento definitivo. Anche da un punto di vista letterale deve riconoscersi che l’art. 53 D.Lgs. cit. nel prevedere la possibilità di "disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca", rinvia integralmente all’art. 19 D.Lgs. cit., ricomprendendo nel rinvio anche il limite costituito dal profitto che può essere restituito.
D’altra parte, la stessa sentenza delle Sezioni unite sembrerebbe avere implicitamente affermato il rilievo della disposizione in esame anche nella fase cautelare, dal momento che nel dare l’esatta definizione del profitto in una vicenda avente ad oggetto un sequestro preventivo ha preso in esame la previsione dell’art. 19 cit., ribadendo che la confisca del profitto non va disposta per quella parte che può essere restituita al danneggiato.
Una volta ritenuta la piena applicabilità della disposizione contenuta nell’art. 19 cit. anche al sequestro preventivo emerge una ulteriore lacuna nel provvedimento impugnato, là dove non contiene alcuna verifica sulla possibilità che i crediti vantati dall’A.T.I. possano essere restituiti alle amministrazioni danneggiate dalle condotte illecite contestate.
6. – Deve, invece, essere rigettato il ricorso del pubblico ministero, con conseguente conferma dell’ordinanza impugnata, in relazione al disposto annullamento del sequestro preventivo avente ad oggetto gli importi pari ad Euro 103.404.000 e ad Euro 53.000.000.
6.1. – Il primo degli importi indicati corrisponde al valore degli investimenti delle società indagate nella costruzione del termovalorizzatore di (OMISSIS) e il provvedimento genetico giustifica il sequestro funzionale alla confisca in quanto, a seguito della risoluzione per legge dei contratti, in base al D.L. n. 245 del 2005 e al nuovo bando di gara, l’onere di rimborsare al Gruppo (OMISSIS) la somma in questione graverebbe sulla nuova affidataria.
La sentenza delle Sezioni unite aveva già evidenziato come, allo stato, questa somma non potesse essere considerata profitto di reato, risultando pacificamente che la realizzazione delle opere era stata fronteggiata con capitali delle società appaltatoci, invitando comunque il giudice di rinvio ad accertare se il rimborso fosse o meno avvenuto e a verificare l’eventuale utilitas tratta dall’amministrazione pubblica dall’opera realizzata.
Il Tribunale ha, innanzitutto, accertato che il Gruppo (OMISSIS) non ha ancora ottenuto la restituzione della somma relativa all’acquisizione dell’opera da parte della società aggiudicataria subentrante. Inoltre, ha escluso che tale somma possa considerarsi conseguenza immediata e diretta della condotta illecita del Gruppo (OMISSIS) e pertanto, non costituendo profitto nei sensi indicati dalle Sezioni unite, non può essere oggetto di sequestro preventivo.
Al riguardo il pubblico ministero ricorrente, deducendo una assoluta carenza di motivazione nonché la violazione del principio di diritto stabilito dalla Cassazione con riferimento alla nozione di profitto, ha sostenuto la sussistenza di un nesso immediato e diretto della somma con il reato presupposto, in quanto il comportamento truffaldino posto in essere dalle società sarebbe stato diretto contemporaneamente a "dissimulare l’esistenza di una attività in corso che stava portando alla creazione di impianti inidonei, sia alla produzione di materiali a valle degli impianti anche essi non conformi, sia alla parallela realizzazione di un termovalorizzatore costituente anche essa attuazione in itinere di un diritto di edificazione in realtà inesistente siccome anche esso fondato su una continuata condotta decettiva".
Va innanzitutto escluso che l’ordinanza impugnata sia priva di motivazione, come erroneamente sostenuto nel ricorso; inoltre, deve riconoscersi la correttezza della decisione del Tribunale nell’escludere che la somma sequestrata possa considerarsi profitto del reato, facendo però ricorso ad una motivazione che prescinda dalla verifica circa la "direzione" degli artifici e raggiri posti in essere dall’ATI, per evidenziare come, anche seguendo la ricostruzione del pubblico ministero circa la complessità dell’attività truffaldina, non potrebbe mai ritenersi che la realizzazione del termovalorizzatore costituisca il profitto del reato di truffa ipotizzato, dovendo, da un lato, escludersi che tale opera sia di per sè illecita, dall’altro, rilevare che l’impianto è stato realizzato con i capitali delle società aggiudicatrici e che il credito vantato dalla società subentrante nulla ha a che fare con il profitto del reato, mancando ogni legame diretto con questo, potendo semmai costituire una garanzia delle obbligazioni civili derivanti dal reato.
Peraltro, nella quantificazione del sequestro per equivalente manca ogni valutazione circa l’effettiva e concreta utilitas che la costruzione del termovalorizzatore ha avuto per la collettività, secondo i principi fissati dalle Sezioni unite, sicché anche sotto questo profilo l’originario provvedimento di sequestro si rivela del tutto inconferente.
6.2. – Infine, resta da valutare la somma di Euro 53.000.000,00 che corrisponde a quella anticipata dal Commissariato di Governo per la costruzione degli impianti di produzione di combustibile derivato dai rifiuti (CDR) nelle province diverse da quella di Napoli.
Le Sezioni unite hanno rilevato come tale importo sembrerebbe corrispondere piuttosto ad una pretesa restitutoria o risarcitoria della controparte pubblica e non al profitto da reato e ha escluso che possa parlarsi di "risparmio di spesa". Sulla base di tali rilievi, la Cassazione ha, quindi, richiesto di chiarire in maniera puntuale la situazione di fatto e, in particolare, il rapporto di immediatezza causale tra il reato e la voce di asserito profitto in esame.
Cosa che il Tribunale ha puntualmente fatto. Il Tribunale, pur riconoscendo che l’importo in questione sia da ritenere conseguenza immediata e diretta della condotta illecita posta in essere dall’A.T.I., ha tuttavia annullato il provvedimento di sequestro emesso dal G.i.p. ritenendo che nella specie non ricorrano i presupposti per la misura cautelare reale dal momento che la somma ricevuta è stata effettivamente utilizzata per la realizzazione complessiva del progetto relativo al piano di smaltimento dei rifiuti in Campania.
L’argomento utilizzato dai giudici del riesame è inattaccabile: il Tribunale ha accertato che l’intera somma ricevuta è poi stata effettivamente utilizzata e investita nel piano di smaltimento dei rifiuti, sicché deve ritenersi non vi è stato alcun incremento o vantaggio patrimoniale conseguito dalle società indagate da porre in rapporto di causalità immediata con il reato, con l’ovvia conseguenza di dover escludere che la somma in questione possa considerarsi profitto del reato, con l’ulteriore considerazione che l’impiego del denaro ha comunque portato una utilitas alla collettività, sebbene ritenuta non esattamente quantificabile dai giudici in assenza di dati precisi sulla destinazione della somma.
In questo modo il Tribunale, quale giudice di rinvio, ha fatto una corretta applicazione dei principi di diritto dettati dalla Cassazione e le deduzioni contenute nel ricorso del pubblico ministero non sono in grado di incidere sull’ordinanza, anche perché, almeno in parte, sono dirette a censurare la stessa motivazione del provvedimento impugnato, vizio che, come è noto, non può essere fatto valere con il ricorso previsto dall’art. 325 c.p.p., applicabile per il sequestro preventivo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 53, come hanno stabilito in questo stesso procedimento le Sezioni unite della Cassazione con la più volte citata sentenza del 27.3.2008, n. 26654.
7. – In conclusione, in accoglimento dei ricorsi delle società indagate deve disporsi l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata limitatamente alle somme di Euro 99.092.457,23 e di Euro 51.645.689,90, ordinando che la Cancelleria provveda ai sensi dell’art. 626 c.p.p., comma 3; per quanto riguarda il sequestro della somma di Euro 115.521.757, l’ordinanza va annullata con rinvio al Tribunale di Napoli, perché, in seguito a nuovo esame, accerti se i crediti vantati dall’A.T.I. nei confronti dei comuni siano certi, liquidi ed esigibili e inoltre verifichi la effettiva confiscabilità di tali crediti con riferimento alla previsione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 1, che esclude la confisca del profitto per la parte che può essere restituita ai danneggiati.
Il ricorso del pubblico ministero va rigettato.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata limitatamente al sequestro delle somme di Euro 99.092.457,23 e di Euro 51.645.689,9;
manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 c.p.p..
Annulla altresì l’ordinanza impugnata relativamente alla restante somma in sequestro e rinvia per nuovo esame sul punto al Tribunale di Napoli. Rigetta il ricorso del procuratore della Repubblica.
Così deciso in Roma, il 17 giugno 2010.
Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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