Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 18-10-2011, n. 21484 Licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- La sentenza attualmente impugnata rigetta l’appello proposto da B.G. e dalle altre tredici lavoratrici indicate in epigrafe avverso la sentenza del Tribunale di Vasto n. 53 del 15 marzo 2007, la quale a sua volta ha respinto tutte le domande proposte dalle lavoratrici medesime, con distinti ricorsi poi riuniti, nei confronti della Gissi Confezioni Maschili s.p.a., al fine di ottenere la dichiarazione di nullità e inefficacia, nei confronti delle ricorrenti, del contratto stipulato dalla società convenuta con la Covas s.r.l. il 30 novembre 2000, avente ad oggetto la cessione di un ramo d’azienda sito in (OMISSIS), con tutte le consequenziali statuizioni reintegratorie e risarcitorie.

La Corte d’appello dell’Aquila, per quel che qui interessa, precisa che:

a) l’attento esame dell’istruttoria espletata ha consentito al Tribunale di "confezionare una solida e coerente intelaiatura a supporto dei vari tasselli motivazionali in cui si snoda la gravata sentenza";

b) è stato accertato che la società Gissi nel gennaio 1999, quindi molto prima della contestata cessione, in un incontro con le Organizzazioni sindacali, ha prospettato, fra l’altro, la creazione della "Sezione lavorazioni varie", dedicata essenzialmente alle attività di pulitura e battitura dei prodotti al fine di riportare in azienda alcune lavorazioni fino ad allora effettuate all’esterno e così recuperare parte del valore aggiunto del prodotto;

c) nei tempi preannunciati la nuova articolazione produttiva è stata realizzata e dislocata in Via (OMISSIS) e, a decorrere dal febbraio 1999, ad essa sono state assegnate le ricorrenti, sulla base della rispettiva professionalità;

d) le attività assegnate alla nuova Sezione erano fondate essenzialmente sulla mano d’opera, con strutture materiali di modesto rilievo;

e) dalle prove testimoniali delle stesse lavoratrici ricorrenti è emersa l’insussistenza di elementi a favore di intenti discriminatori o punitivi da parte del datore di lavoro e viceversa la sussistenza di un clima di pregiudiziale rifiuto della nuova assegnazione da parte delle dipendenti;

f) nel suddetto contesto va inserita la scrittura privata autenticata del 30 novembre 2000, oggetto di impugnazione nel presente giudizio, con la quale la società Gissi ha ceduto alla società Covas "la proprietà del ramo d’azienda relativo alla ribattitura-pulitura e sbastitura giacche";

g) successivamente, dopo l’avvio delle procedure di CIG e di mobilità conclusesi con la chiusura dell’attività della società concessionaria, le attuali ricorrenti al momento della cessazione dei rispettivi rapporti di lavoro con quest’ultima società (31 agosto 2001), hanno sottoscritto, in sede sindacale, degli accordi transattivi nei quali hanno dichiarato di non avere più nulla a pretendere dal punto di vista economico e di rinunciare all’impugnazione dei licenziamenti intimati;

h) è indubitabile che la fattispecie in esame sia da inquadrare nell’ambito della cessione di un "ramo d’azienda";

i) infatti, ai fini della sussistenza di tale ipotesi la disciplina esistente al momento della conclusione del contratto di cessione suindicato – rappresentata dall’art. 2112 cod. civ., nel testo antecedente le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 18 del 2001 e n. D.Lgs. n. 276 del 2003 – nonchè la giurisprudenza comunitaria e nazionale formatesi in materia, hanno valorizzato l’elemento organizzativo, rinvenibile anche quando, come nella specie, il trasferimento riguardi soltanto un gruppo di lavoratori, la cui capacità operativa sia assicurata dal possesso di un particolare know-how;

j) nella successiva evoluzione normativa si è addirittura ritenuta sufficiente l’identificazione di un entità autonoma al momento del relativo trasferimento, mentre nel presente caso è incontestata l’esistenza dell’autonomia da più di un anno prima della cessione e il mantenimento di tale situazione anche successivamente;

k) è da escludere l’interposizione fattizia di mano d’opera, visto che a seguito della cessione l’attività produttiva è rimasta imputabile ad un soggetto diverso, la società Covas, con tutte le conseguenze formali e sostanziali riguardanti i rapporti di lavoro del personale dipendente;

l) va esclusa anche la simulazione, non essendo emerse divergenze tra l’intento dichiarato e quello voluto dai contraenti (tendenti entrambi al trasferimento del ramo d’azienda);

m) non può configurarsi neppure la fattispecie del negozio nullo per illiceità della causa per frode alla legge (cioè elusione delle norme sui licenziamenti individuali e collettivi), in quanto la società convenuta avrebbe potuto raggiungere l’obiettivo di liberarsi dei lavoratori procedendo al licenziamento di quelli in esubero;

n) neanche ricorre l’ipotesi di negozio determinato da motivo illecito visto che per tale ipotesi si richiede che il motivo sia comune ad entrambi i contraenti, mentre nella specie manca una verifica in tal senso nei confronti della società cessionaria;

o) del resto, in base alla giurisprudenza di legittimità, non è in frode alla legge, nè concluso per motivo illecito – non potendo ritenersi tale il motivo perseguito con un negozio traslativo, di addossare ad altri la titolarità di obblighi ed oneri conseguenti – il contratto di cessione dell’azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell’attività produttiva e dei rapporti di lavoro (vedi Cass. 2 maggio 2006, n. 10108).

2.- Il ricorso di B.G. e dalle altre tredici lavorataci indicate in epigrafe domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste, con controricorso, la Gissi Confezioni Maschili s.r.l. (già s.p.a.).

Le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione

1 – Sintesi dei motivi.

1- Con il primo motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denuncia: a) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 cod. civ., nel testo modificato dalla L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47, per carenza delle caratteristiche dell’unità produttiva autonoma del (presunto) ramo di azienda ceduto; b) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo del giudizio, relativo alla ritenuta sussistenza di un ramo d’azienda in contrasto con le risultanze istruttorie.

Si sostiene che, diversamente da quanto risulta nella sentenza impugnata, la società Gissi ha esternalizzato un servizio e non ceduto un ramo d’azienda.

Sul punto la motivazione della sentenza impugnata sarebbe viziata sia perchè non consente di ripercorrere l’iter logico seguito sia perchè, nel ragionamento in essa sviluppato, mancherebbe l’esame di punti decisivi della controversia.

In particolare, non sarebbero state adeguatamente vagliate e valutate le risultanze dibattimentali riguardanti le caratteristiche dell’unità produttiva alla quale erano addette le ricorrenti.

Infatti, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte aquilana (e, in precedenza, dal Tribunale), l’istruttoria svolta – e, in particolare, le deposizioni dei testi B. e D.F. – avrebbe consentito di appurare che la suddetta struttura non poteva considerarsi come un autonomo ramo d’azienda, ma era una semplice articolazione minore della società Gissi non connotata da alcuna indipendenza tecnica e/o amministrativa che potesse consentire a coloro che vi lavoravano lo svolgimento e/o la conclusione del ciclo relativo ad una frazione oppure ad un momento essenziale dell’attività produttiva.. Inoltre, il personale utilizzato era scarsamente qualificato, le attrezzature pressochè inesistenti (soltanto: ago, filo e ditale), non era richiesto alcun know-how.

Neppure la Corte d’appello ha tenuto conto dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui non è riconducibile alla nozione di cessione di azienda il contratto con il quale viene realizzata la c.d. "esternalizzazione" dei servizi, ove questi non integrino un ramo o parte di azienda, nel senso di costituire un complesso di beni che si presenti oggettivamente prima del trasferimento come una entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica, funzionalizzata allo svolgimento di una attività volta alla produzione di beni e servizi. Sicchè, in tali casi, la vicenda traslativa, sul piano dei rapporti di lavoro, va qualificata come cessione dei relativi contratti, che richiede per il suo perfezionamento il consenso del lavoratore ceduto (si citano, tra le altre: Cass. 17 ottobre 2006, n. 22232; Cass. 17 ottobre 2005, n. 20012; Cass. 17 giugno 2005, n. 13068).

Tutti i suddetti elementi – sostanzialmente ignorati nella sentenza impugnata – avrebbero dovuto portare la Corte territoriale a riconoscere che nella specie si è posta in essere una vera e propria esternalizzazione di una sezione della sede centrale della società Gissi, caratterizzata dall’estrema eterogeneità delle mansioni dei lavoratori, dalla mancanza di una funzione unitaria nonchè di autonomia economica, finanziaria o gestionale, ove dovevano essere effettuate lavorazioni, da svolgere prevalentemente a mano, che rappresentavano una fase della lavorazione del confezionamento degli abiti.

2- Con il secondo motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denuncia: a) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè degli artt. 2112, 2118, 2119, 1418, 1414 e 1344 cod. civ.; b) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo del giudizio, relativo al carattere discriminatorio ed arbitrario del comportamento della società Gissi.

Si sostiene che la suddetta società consapevolmente ha posto in essere l’operazione commerciale "suicida" che è alla base della cessione in contestazione al fine di liberarsi, aggirando la normativa sui licenziamenti, di alcuni dipendenti non graditi perchè considerati assenteisti o improduttivi o polemici.

La Corte d’appello anzichè approfondire l’indagine sul punto si è limitata a rilevare, senza darne conto in motivazione, che sono emerse situazioni ulteriori di eccessiva morbilità non comprese nel trasferimento.

Del pari lacunosa è, ad avviso delle ricorrenti, la motivazione in base alla quale sono stati respinti i motivi di appello attinenti la configurabilità di una frode alla legge posta in essere al fine di eludere la L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè della normativa sui licenziamenti collettivi.

Ricorrerebbero, infatti, nella specie i presupposti oggettivi e soggettivi di cui all’art. 1344 cod. civ., in quanto:

1) è indubbia la natura imperativa delle suindicate discipline;

2) non si può dubitare della consapevolezza da parte della Covas s.r.l. del motivo illecito che ha indotto la società Gissi a concludere il contratto di cessione di ramo d’azienda in oggetto, in quanto il carattere evidente dell’assurdità della operazione commerciale apparentemente messa in essere non poteva non apparire tale da nascondere una finalità reale differente, non espressa nell’atto, proprio perchè illecita;

3) anche ciò che è accaduto dopo la suddetta cessione induce a confermare che la cessionaria non intendeva e non aveva la capacità di continuare l’attività cedutale e che condivideva il motivo illecito della cedente.

D’altra parte, alle ricorrenti non appare spendibile l’argomento sostenuto nella sentenza impugnata secondo cui la società Gissi se avesse avuto l’intenzione di liberarsi di un gruppo di lavoratori sgraditi avrebbe potuto procedere al licenziamento dei dipendenti in esubero.

Infatti, tale ultima strada, non agevole e più dispendiosa, non avrebbe consentito alla società di scegliere liberamente i lavoratori da porre in mobilità, data la normativa vigente in materia.

In ogni caso, se si volesse escludere il negozio fraudolento non potrebbe non ravvisarsi la sussistenza di un negozio simulato, esistendo una divergenza tra dichiarazione manifesta e dichiarazione voluta, al fine di eludere norme imperative.

Nelle intenzioni delle parti non è ravvisabile alcun trasferimento d’azienda, ma la società alienante intendeva dismettere una propria filiale destinata alla chiusura per liberarsi dei dipendenti ad essa adibiti mentre la società acquirente non aveva alcuna intenzione di proseguire l’attività della filiale medesima, ma semplicemente rendere più agevole l’operazione che l’acquirente intendeva realizzare.

2 – Esame delle censure 3.- I motivi – che vanno esaminati congiuntamente, data la loro intima connessione – sono da respingere.

3.1.- Prima di esaminare il merito delle censure appare opportuno esaminare i diversi profili di inammissibilità dei due motivi del ricorso prospettati dalla società Gissi, per formulazione non conforme alle disposizioni di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. (applicabile nella specie, ratione temporis).

Essi si incentrano principalmente su: a) la scarsa specificità dei motivi perchè volti a censurare, in un unico contesto, violazioni di legge e vizi di motivazione, oltretutto senza evidenziare gli elementi strutturali delle norme invocate che si assumono violati, senza indicare individuare quale sia il tipo di vizio di motivazione riscontrato (se omissione, insufficienza o contraddittorietà) e omettendo di formulare, a tale ultimo riguardo, il prescritto "momento di sintesi" (omologo del quesito di diritto); b) la genericità e non conferenza dei quesiti di diritto; c) il carattere "multiplo" dei quesiti stessi.

Tali censure della controricorrente non appaiono fondate.

Va, infatti, ricordato che, nell’ambito della giurisprudenza di questa Corte relativa all’interpretazione dell’art. 366 bis cod. proc. civ., possono dirsi consolidati, con riguardo alle problematiche che vengono in considerazione nel presente giudizio, i seguenti orientamenti che il Collegio condivide:

a) la formulazione di distinti e plurimi quesiti di diritto, in esito all’illustrazione di un unico motivo di ricorso per cassazione, non può ritenersi contrastante, di per sè, con la disposizione dell’art. 366 bis cod. proc. civ. per il solo fatto che questa esige che il motivo si concluda, a pena di inammissibilità, con "un quesito". Potendo, infatti, il motivo di ricorso essere articolato con riferimento a diverse e concorrenti censure, il quesito deve rispecchiare ciascuna di tali articolazioni, sicchè può ben assumere una forma, anche dal punto di vista grafico, separata in più capi, fermo restando che, nel complesso, deve esaurire tutti i punti in cui si sviluppa 3’argomentazione della censura (Cass. 9 giugno 2010, n. 13868; Cass. SU 9 marzo 2009, n. 5624);

b) è ammissibile il ricorso per cassazione nel quale si denunzino con un unico articolato motivo d’impugnazione vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto, qualora lo stesso si concluda con una pluralità di quesiti, ciascuno dei quali contenga un rinvio all’altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stato, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto (Cass. SU 31 marzo 2009, n. 7770;

Cass. 18 gennaio 2008, n. 976; Cass. 26 marzo 2009, n. 7261);

c) inoltre, la frammentazione di un unico motivo in una pluralità di quesiti non determina di per sè l’inammissibilità del ricorso, allorquando il giudice sia in grado di ridurre ad unità i quesiti formulati, attraverso una lettura che sia agevole ed univoca, per la chiarezza del dato testuale (Cass. 21 settembre 2007, n. 19560);

d) d’altra parte, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione, nel caso in cui il quesito di diritto, di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ., si risolva in un’enunciazione tautologica, priva di qualunque indicazione sulla questione di diritto oggetto della controversia (Cass. SU 8 maggio 2008, n. 11210);

e) infatti, la funzione propria del quesito di diritto, da formulare a pena di inammissibilità del motivo proposto, è di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. 7 aprile 2009, n. 8463);

f) il quesito, inoltre, deve essere conferente rispetto alla fattispecie dedotta in giudizio e rilevante per la decisione della controversia (Cass. 4 gennaio 2011, n. 80; Cass. SU 2 aprile 2008, n. 8466), nonchè avere attinenza con il motivo formulato, senza introdurre temi nuovi (Cass. 17 luglio 2007, n. 15949);

g) non è in contrasto con l’art. 366 bis cod. proc. civ., la formulazione in più parti del quesito, anche parzialmente sovrapposte, in quanto tale modalità può rendere più chiara e leggibile la pretesa sottoposta al giudizio della Corte, meglio assicurando la funzione del quesito medesimo (arg. ex Cass. 29 febbraio 2008, n. 5733; Cass. 6 novembre 2008, n. 26737 h) l’art. 366 bis cod. proc. civ., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, impone, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ. , n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), la effettuazione di una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (Cass. 25 febbraio 2009, n. 4556; Cass. SU 1 ottobre 2007, n. 20603);

i) infine, l’art 366 bis cod. proc. civ., là dove esige che l’esposizione del motivo si debba concludere con il quesito di diritto, così come non significa che il quesito debba topograficamente essere inserito alla fine della esposizione di ciascun motivo (arg. ex Cass. SU 18 luglio 2008, n 19811, Cass. 26 febbraio 2008, n. 5073), a maggior ragione non contiene prescrizioni topografìche con riferimento al "momento di sintesi" necessario in caso di denuncia di vizi di motivazione.

3.2 – Nella specie la formulazione dei motivi è conforme ai suddetti principi in quanto la lettura delle – purtroppo non sintetiche – argomentazioni delle censure consente di comprendere, con chiarezza, che:

1) con il primo motivo si contesta l’affermazione della Corte d’appello secondo cui, la fattispecie in esame sia da inquadrare nell’ambito della cessione di un "ramo d’azienda", assumendo essa sia frutto di una violazione della relativa normativa e sia supportata da una motivazione viziata sia perchè non consente di ripercorrere l’iter logico seguito sia perchè, nel ragionamento in essa sviluppato, mancherebbe l’esame di punti decisivi della controversia;

2) con il secondo motivo, poi, si sostiene che l’assunto della Corte territoriale secondo cui sarebbero da escludere intenti discriminatori o fraudolenti (per elusione delle norme sui licenziamenti) nè sarebbe configurarle alcuna simulazione, sarebbe originato da una violazione delle norme richiamate (che disciplinano, rispettivamente, le diverse fattispecie suindicate) e sarebbe argomentato con una motivazione insufficiente e convincente.

I quesiti di diritto (e i momenti di sintesi) – pur risentendo dello stile ridondante di tutto il ricorso – sono attinenti alla fattispecie dedotta in giudizio e alle censure formulate nei suddetti motivi.

Le suddette considerazioni portano anche ad escludere che sia stata omessa la "chiara indicazione del fatto controverso" e che non sia stato specificato il tipo di vizio di motivazione (omissione, insufficienza o contraddittorietà) denunciato.

A tale ultimo riguardo, in particolare, va ricordato che, in base ad un indirizzo consolidato e condiviso di questa Corte, la configurazione formale della rubrica del motivo di ricorso per cassazione – ove, nella specie, compaiono indistintamente tutti e tre i suddetti tipi di vizio di motivazione – non ha contenuto vincolante per la qualificazione del vizio denunciato, poichè è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. 30 marzo 2007, n. 7981; Cass. 5 aprile 2006, n. 7882; Cass. 18 marzo 2002, n. 3941).

3.3- La suddetta individuazione del contenuto dei motivi ne evidenzia, tuttavia, la non accoglibilità.

Va, infatti, rilevato che il richiamo alla violazione di norme di legge appare nella sostanza meramente formale, mentre tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti.

Al riguardo va ricordato che la deduzione, con il ricorso per cassazione, di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

In particolare, appare del tutto plausibile la motivazione sulla ritenuta configurabilità, nella specie, di una cessione di ramo d’azienda.

Infatti, a tale conclusione – che, peraltro, si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – la Corte d’appello risulta essere pervenuta attraverso un attento esame delle prove raccolte, operato sulla base della normativa nazionale e dell’Unione europea, applicabile ratione temporis.

La Corte ha così stabilito che la articolazione produttiva denominata "Sezione lavorazioni varie", realizzata nel febbraio 1999 (e, quindi, molto prima della contestata cessione), aveva tutte le caratteristiche del "ramo d’azienda" in quanto:

a) la scarsa consistenza di elementi patrimoniali non esclude la configurabilità della suddetta fattispecie che può ricorrere anche quando l’attività si basa essenzialmente sulla manodopera, nella specie dotata di elevata capacità (anche se soltanto manuale); b) è stata accertata l’autonomia, logistica, economica e funzionale della suddetta articolazione, diretta e coordinata da un preposto dell’imprenditore; c) le lavorazioni ivi eseguite avevano sul mercato rilevanza commerciale autonoma, come confermato dalla circostanza che, in precedenza, esse erano fornite alla società Gissi da una azienda autonoma (la cooperativa Agodoro).

Le suddette affermazioni sono del tutto coerenti con i principi affermati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte e della Corte UE, dalle quali risulta che si deve considerare ormai consolidato il principio secondo cui "un complesso strutturato di lavoratori, malgrado la mancanza di significati elementi patrimoniali, materiali o immateriali, può corrispondere ad un’entità economica ai sensi della direttiva 77/187/CE", cioè ad una entità che "persegua un proprio obiettivo e che sia sufficientemente strutturata e autonoma", nel senso che il gruppo di lavoratori ad essa addetto "disponga di una certa libertà nell’organizzare ed eseguire i compiti affidatigli" (vedi, da ultimo:

Corte di giustizia UE, sentenza 6 settembre 2011, causa C-108/10, Scattolon, punti 42-51 e ivi indicazione dei precedenti, nonchè, in senso analogo, tra le tante: Cass. 8 giugno 2009, n. 13171; Cass. 13 aprile 2011, n. 8465).

Tanto la normativa dell’Unione europea (direttiva UE n. 77/187, modificata dalla direttiva n. 98/50 e poi abrogata dalla direttiva n. 2001/23) quanto la legislazione nazionale (art. 2112 cod. civ., nelle sue differenti versioni), nella loro evoluzione perseguono il fine di evitare che il trasferimento si trasformi in semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro, in una pluralità di rapporti individuali, con altro sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sul piano sia della solvibilità sia dell’attitudine a proseguire con continuità l’attività produttiva (Cass. 8 giugno 2009, n. 13171).

Ciò, però, non esclude che il motivo del trasferimento possa consistere nell’intento di superare uno stato di difficoltà economica nè comporta il pregiudiziale divieto, ove siano ravvisabili situazioni che possano condurre agli esiti regolati dalla normativa sulla riduzione del personale, di cedere l’azienda ovvero di cederla solo a condizione che non sussistano elementi tali da rendere inevitabili quegli esiti, sicchè, non può considerarsi di per sè in frode alla legge o concluso per motivo illecito – non potendo ritenersi tale il motivo perseguito con un negozio traslativo, di addossare ad altri la titolarità di obblighi ed oneri conseguenti – il contratto di cessione dell’azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell’attività produttiva e dei rapporti di lavoro (Cass. 2 maggio 2006, n. 10108 e, nello stesso senso, Cass. SU 25 novembre 1993, n. 10603; Cass. 4 ottobre 2010, n. 20576).

Le suddette osservazioni rendono evidente la non fondatezza anche del secondo motivo con il quale le ricorrenti insistono sull’assunto secondo cui il reale scopo perseguito dalla datrice di lavoro era quello di eludere, attraverso la simulata cessione del ramo d’azienda, le garanzie assicurate dalla legge per il caso di riduzione del personale.

Come si è detto, nel caso di specie, la Corte d’appello (e prima il Tribunale), in base all’istruttoria svolta – rispetto alla quale non risulta che le ricorrenti abbiano chiesto ritualmente alcun approfondimento ulteriore ovvero l’esercizio di poteri istruttori officiosi ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ., in termini rilevabili nel giudizio di legittimità (vedi: Cass. 25 maggio 2010, n. 12717) – hanno escluso intenti fraudolenti o simulatori, dandone conto con congrua e logica motivazione.

Il suddetto accertamento, non infirmato dal fatto che l’attività produttiva della "Sezione lavorazioni varie" in oggetto possa essere stata ostacolata dalla crisi delle commesse (prevalentemente provenienti dalla società Gissi), non è censurabile nel giudizio di legittimità, nel quale le ricorrenti inutilmente perseguono una rivalutazione dei fatti, senza dare, peraltro, alcun rilievo alla circostanza, viceversa evidenziata nella sentenza impugnata, secondo cui, dopo l’avvio delle procedure di CIG e di mobilità conclusesi con la chiusura dell’attività della società concessionaria Covas s.r.l, le attuali ricorrenti al momento della cessazione dei rispettivi rapporti di lavoro con quest’ultima società (31 agosto 2001), hanno sottoscritto, in sede sindacale, degli accordi transattivi nei quali hanno dichiarato di non avere più nulla a pretendere dal punto di vista economico e di rinunciare all’impugnazione dei licenziamenti intimati.

3 – Conclusioni In sintesi, il ricorso va rigettato e si ritiene che la particolare complessità della vicenda rappresenti un giusto motivo per disporre la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio di legittimità (analogamente a quanto stabilito nei precedenti gradi).
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa, tra le parti, le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 22 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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