Corte Costituzionale ordinanza n. 293 ORDINANZA 04 – 08 ottobre 2010 .

Aggiornamento offerto dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 41 del 13-10-2010

Sentenza

nei giudizi di legittimita’ costituzionale dell’articolo 43 del
decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilita’), promossi dal Tribunale
amministrativo regionale della Campania con due ordinanze del 28
ottobre e con una ordinanza del 18 novembre 2008, rispettivamente
iscritte ai nn. 114, 115 e 116 del registro ordinanze 2009 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, 1ª serie
speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di costituzione di N.D. ed altri, di M.R.P. ed
altri e del Comune di Casapesenna ed altri nonche’ gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2010 il giudice relatore
Giuseppe Tesauro;
Uditi gli avvocati Francesco Guerriero e Antonio Sasso per N.D.
ed altri, Antonio Sasso per M.R.P. ed altri, Fabrizio Vittoria per il
Comune di Casapesenna e l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il
Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con
tre ordinanze di identico tenore, pronunciate in altrettanti giudizi,
le prime due del 28 ottobre 2008 (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009) e la
terza del 18 novembre 2008 (r.o. n. 116 del 2009), ha sollevato, in
riferimento agli articoli 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, primo comma,
della Costituzione, questione di legittimita’ costituzionale
dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno
2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilita’).
1.1. – Le prime due ordinanze (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009),
relative ad identiche fattispecie, espongono che i ricorrenti sono
tutti proprietari di un fondo in Casapesenna, oggetto di procedura
ablatoria, in ordine alla quale il medesimo TAR, con sentenze
rispettivamente n. 73 e n. 74 del 2008, aveva annullato gli atti
impugnati e condannato il Comune di Casapesenna a restituire il
terreno, previo ripristino dello stato dei luoghi. Gli attori, con
distinti ricorsi, poi riuniti dal TAR, hanno proposto ricorso per
l’esecuzione del giudicato, chiedendo la restituzione del fondo, ed
hanno impugnato la delibera del Consiglio comunale con la quale il
Comune ha disposto, ex art. 43, comma 2, del citato d.P.R.,
l’acquisizione al patrimonio indisponibile delle aree in questione,
corrispondendo una somma a titolo di risarcimento dei danni.
1.2. – I rimettenti premettono ancora, in fatto, che la vicenda
era stata oggetto di una prima pronuncia dello stesso tribunale
(sentenza 23 gennaio 2003, n. 387) con la quale era stato censurato
l’operato dell’amministrazione in ragione del mancato compimento
dell’iter previsto per la formazione della variante urbanistica, e
per violazione del contraddittorio con i soggetti interessati. Nel
procedimento di cui all’ordinanza r.o. n. 114 del 2009, con
successive sentenze veniva poi annullata una nota del comune di
diniego di restituzione del suolo occupato e disposta la restituzione
dello stesso con ripristino dello stato dei luoghi (sentenza 5 giugno
2003, n. 7290), ed ancora veniva accolto il ricorso per l’esecuzione
del relativo giudicato con nomina di un commissario ad acta. In
seguito il Consiglio di Stato, con sentenza 3 maggio 2005, n. 2095,
dichiarava che sull’amministrazione gravava l’obbligo di restituire
l’area occupata.
Successivamente, con le gia’ indicate sentenze del medesimo TAR
(n. 73 e n. 74 del 2008), erano stati annullati per incompetenza gli
atti inerenti alla procedura ex art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001,
con condanna del comune alla restituzione del terreno previo
ripristino dello stato dei luoghi. Infine, era intervenuto il
provvedimento di acquisizione sanante ai sensi del citato art. 43.
1.3. – La terza ordinanza (r.o. n. 116 del 2009) espone, in
fatto, che il ricorrente, proprietario di un fondo sito nel Comune di
San Giuseppe Vesuviano (Napoli), ne aveva subito da parte di detto
comune l’occupazione, senza alcun procedimento espropriativo.
Dopo alterne vicende in punto di giurisdizione, il Tribunale di
Nola, ritenendo la propria giurisdizione, radicandola per la natura
usurpativa dell’occupazione, aveva, infine, negato l’acquisto della
proprieta’ in capo alla pubblica amministrazione.
In seguito, era stato adottato da parte del responsabile del
Servizio lavori pubblici ed urbanistica ed Ufficio espropriazioni del
Comune di San Giuseppe Vesuviano, il decreto n. prot. 2006 0020376,
impugnato nel giudizio principale, con il quale veniva disposta
l’acquisizione coattiva al patrimonio indisponibile comunale
dell’area, prevedendo, altresi’ in favore del proprietario «oltre
l’indennizzo, il risarcimento del danno nonche’ il computo degli
interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato
occupato senza titolo».
In particolare, il ricorrente deduceva la violazione degli artt.
43 e 57, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, lamentando
l’inapplicabilita’ al caso di specie del procedimento ex art. 43 ed
invocando l’applicazione del regime transitorio ex art. 57, comma 1,
con obbligo di restituzione dell’immobile e risarcimento del danno ex
art. 2043 del codice civile per l’illegittima, ulteriore occupazione.
1.4. – Cio’ posto, i giudici a quibus ricordano che, in caso di
annullamento giurisdizionale degli atti relativi alla procedura di
espropriazione per pubblica utilita’, il proprietario puo’ chiedere –
mediante il giudizio di ottemperanza – la restituzione del bene
piuttosto che il risarcimento del danno per equivalente monetario,
anche se l’area sia stata irreversibilmente trasformata in
conseguenza dell’esecuzione dell’opera pubblica. Inoltre, l’unico
rimedio per evitare la restituzione dell’area sarebbe l’emanazione di
un provvedimento di acquisizione cosiddetto «sanante» ex art. 43 del
d.P.R. n. 327 del 2001, in assenza del quale l’amministrazione non
puo’ addurre la intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale
causa di impossibilita’ oggettiva e, quindi, come impedimento alla
restituzione.
1.5. – Il TAR Campania, dopo aver ricordato la giurisprudenza di
legittimita’ relativa alla cosiddetta occupazione «appropriativa»,
assume che tale ricostruzione sarebbe incompatibile con la disciplina
normativa introdotta dal d.P.R. n. 327 del 2001 ed entrata in vigore
il 30 giugno 2003, in quanto la disposizione oggi censurata subordina
all’adozione di apposito provvedimento discrezionale il trasferimento
di proprieta’ dei beni immobili utilizzati per scopi di interesse
pubblico, a seguito di trasformazione, determinatasi in assenza del
valido ed efficace provvedimento espropriativo o dichiarativo della
pubblica utilita’. Inoltre, non potrebbe ritenersi che l’art. 43
disponga solo per il futuro, trattandosi di disposizione, avente
natura processuale riferita a tutti i casi di occupazione sine
titulo, anche gia’ sussistenti alla data di entrata in vigore del
testo unico (a conforto, richiama: Cons. Stato, IV, 21 maggio 2007,
n. 2582; A.P., 29 aprile 2005, n. 2; TAR. Emilia-Romagna, Bologna, I,
27 ottobre 2003, n. 2160).
1.6. – I rimettenti, quanto alla giurisdizione, ritengono di
doversi conformare al consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo cui, in materia di procedimenti di espropriazione per
pubblica utilita’, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo le controversie nelle quali si faccia
questione, anche a fini risarcitori, di attivita’ di occupazione e
trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di
pubblica utilita’ e con essa congruenti, anche in presenza di atti
poi dichiarati illegittimi.
1.7. – Cio’ posto, con riferimento alla delibera di acquisizione
delle aree, il Tribunale richiama la giurisprudenza secondo cui tale
atto persegue una finalita’ di sanatoria di situazioni prive di
procedure legittime di esproprio, senza che rilevi la causa della
illegittimita’ del comportamento: sia essa conseguente all’assenza di
una dichiarazione di pubblica utilita’ od all’annullamento di essa
oppure determinata da altre cause, risultando in proposito rilevante
il solo fatto che l’interesse pubblico non potrebbe essere
soddisfatto se non con il mantenimento della situazione ablativa.
In punto di rilevanza i rimettenti assumono che, aderendo a tale
orientamento, nella specie il ricorso in ottemperanza dovrebbe essere
dichiarato improcedibile, in virtu’ dell’atto formale di acquisizione
sanante, mentre il ricorso avverso la delibera consiliare dovrebbe
essere rigettato, perche’ il provvedimento oggetto di impugnazione
deve ritenersi conforme al modello astratto di cui al citato art. 43.
1.8. – Il Tribunale amministrativo campano dubita, tuttavia,
della legittimita’ costituzionale di tale norma, per violazione degli
artt. 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, Cost..
In particolare, quanto agli artt. 3, 24, 42, 97 e 113 Cost., il
Tribunale evidenzia come l’esercizio del potere autoritativo di
acquisizione dell’area, attraverso l’adozione di un atto
amministrativo, che consente di evitare la restituzione del bene e di
sanare la pregressa illegalita’, avrebbe assunto la natura di
strumento «ordinario», attraverso il quale «si legalizza l’illegale»,
rimuovendo l’illecito aquiliano attraverso l’atto di acquisizione. In
tal modo risulterebbe capovolta la garanzia costituzionale del
diritto di proprieta’ di cui all’art. 42, Cost., nella misura in cui
la norma «consente alla pubblica amministrazione, anche
deliberatamente, […] di eludere gli obblighi procedimentali della
instaurazione del contraddittorio, delle tre fasi progettuali e della
verifica delle norme di conformita’ urbanistica», norme peraltro
imposte non soltanto dall’autorita’ comunale, ma anche da quelle
preposte alla tutela di ulteriori e distinti vincoli.
L’abuso di tale strumento imporrebbe, invece, una lettura
restrittiva della disposizione, dal momento che ben difficilmente
nella pratica sarebbe possibile immaginare ipotesi in cui
l’Amministrazione non possa giustificare il proprio operato, con la
necessita’ di perseguire uno scopo pubblico.
Per altro verso, a giudizio dei rimettenti, non si potrebbe
prescindere dai principi costituzionali e dalla Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’
fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.
848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali firmata a Roma il 4
novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa,
firmato a Parigi il 20 marzo 1952), (infra: anche CEDU o Convenzione
europea), in base ai quali il diritto di proprieta’ potrebbe essere
acquistato dall’Amministrazione soltanto attraverso l’emanazione di
un formale provvedimento amministrativo.
Inoltre, si precisa, la questione di legittimita’ costituzionale
viene appunto sollevata, prendendo atto che, di fatto, la sentenza
che ha dichiarato l’illegittimita’ della procedura si pone come «una
sorta di atto presupposto del procedimento che si perfeziona con
l’atto di acquisizione», con conseguente «grave lesione del principio
generale dell’intangibilita’ del giudicato amministrativo» […]
sostanzialmente «vanificato da un atto amministrativo di acquisizione
per utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse
pubblico». Del resto, andrebbe pure considerato che l’acquisizione
sanante ben potrebbe essere «reiterata all’infinito», divenendo non
piu’ uno strumento straordinario, ma ordinario, con conseguente
«vanificazione dei principi di certezza giuridica e di tutela delle
posizioni giuridiche».
In questo contesto, il Tribunale specifica di aver esperito
inutilmente ogni tentativo di interpretazione adeguatrice, al fine
attribuire alla norma un significato costituzionalmente corretto.
1.9. – Con riferimento, poi, all’art. 117, primo comma, Cost., il
Tribunale, dopo aver richiamato la sentenza di questa Corte n. 349
del 2007, con riguardo al rapporto fra norma statale ed obblighi
derivanti dalla CEDU, assume che la norma censurata non sarebbe
conforme ai principi della Convenzione europea ed all’art. 6 (F) del
Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di Amsterdam), in
base al quale «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono
garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, […] in quanto principi
generali del diritto comunitario». In questo senso deporrebbe la
costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (20
aprile 2006; 15 novembre 2005; 17 maggio 2005), la quale avrebbe piu’
volte affermato la non conformita’ all’art. 1, prot. 1, della
Convenzione, della prassi sulla cosiddetta «espropriazione
indiretta», secondo cui l’amministrazione diventerebbe proprietaria
del bene in assenza di un atto ablatorio.
1.10. – Infine, i rimettenti censurano l’art. 43 anche con
riferimento all’art. 76, Cost., in quanto l’art. 7, comma 2, lettera
d) della legge-delega 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi
unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – Legge di
semplificazione 1998) avrebbe delegato al Governo il mero
«coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti,
apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche
necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della
normativa anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio
normativo». La norma in questione, invece, non troverebbe
«riferimento o principi e criteri direttivi in norme preesistenti»,
non potendosi sostenere che l’acquisizione sanante fosse una modifica
necessaria per garantire la coerenza logica e sistematica della
normativa.
2. – Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti i
ricorrenti dei giudizi principali (N.D. ed altri, quanto
all’ordinanza r.o. n. 114 del 2009 e M.R.P. ed altri, quanto
all’ordinanza r.o. n. 115 del 2009), con atti di identico tenore in
diritto, chiedendo che la questione sia accolta.
2.1. – La difesa delle parti private, dopo aver ripercorso le
motivazioni sottese all’ordinanza di rimessione, assume, in primo
luogo, che l’atto acquisitivo previsto dalla disposizione impugnata,
in quanto finalizzato a «sanare» un’attivita’ posta in essere dalla
pubblica amministrazione contra ius, determinando la perdita della
proprieta’, violerebbe gli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, Cost.,
conducendo a «legalizzare» l’illegale, consentendo l’illecito
aquiliano.
I ricorrenti, riportando peraltro ampi brani di sentenze della
Corte di cassazione sul fenomeno dell’occupazione acquisitiva,
ritengono che il censurato art. 43 si porrebbe al di fuori dei
«canoni di legittimita’ costituzionale», dal momento che attribuisce
alla pubblica amministrazione il potere di disporre l’acquisizione
del bene, anche nell’ipotesi in cui non vi sia stata alcuna
preventiva dichiarazione di pubblica utilita’, o la medesima sia
stata annullata o resa inefficace ex tunc.
In definitiva, la norma censurata determinerebbe uno squilibrato
vantaggio per il soggetto pubblico, pregiudicando la certezza dei
rapporti giuridici e sacrificando l’affidamento dei soggetti nella
possibilita’ di far valere le proprie ragioni sulla base di
condizioni normative «operanti nell’ordinamento vigente in un
determinato periodo storico».
2.2. – Quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.,
le parti assumono che la norma si porrebbe in conflitto «con i
principi che sorreggono la Convenzione europea su diritti dell’uomo
(CEDU), aventi diretta rilevanza nell’ordinamento interno, nonche’
con l’articolo 6 del Trattato di Maastricht, modificato dal Trattato
di Amsterdam».
Tale contrasto sarebbe evidente, alla luce del costante
orientamento della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia di
espropriazione cosiddetta «indiretta».
In particolare, si ricordano alcune decisioni di quella Corte
nelle quali e’ stato affermato che l’espropriazione indiretta tende a
stabilizzare una situazione di fatto derivante dalle illegalita’
commesse dall’amministrazione e che, «sia in virtu’ di un principio
giurisprudenziale o di un testo di legge come l’art. 43 del testo
unico, l’espropriazione indiretta non dovrebbe costituire un mezzo
alternativo all’«espropriazione operata in forma corretta».
I ricorrenti ricordano altresi’, come «l’anomalia italiana» abbia
formato oggetto anche di una risoluzione interinale, in data 14
febbraio 2007, da parte del Comitato dei ministri del Consiglio
d’Europa, con cui le Autorita’ nazionali sono state «incoraggiate»
«… a proseguire i loro sforzi e ad adottare rapidamente tutte le
misure necessarie addizionali al fine di rimediare in maniera
definitiva alla pratica della "espropriazione indiretta"».
In tale contesto europeo, poi, le Autorita’ governative italiane
avrebbero expressis verbis ammesso che la norma dettata dall’art. 43
t.u. in materia di espropriazione per pubblica utilita’ e’ ex se non
coerente con i principi della Convenzione, tant’e’ che ne viene
suggerita un’applicazione ed interpretazione «correttiva».
2.3. – Infine, le parti private, citando giurisprudenza di questa
Corte, aderiscono alla censura formulata con riguardo all’art. 76,
Cost., in quanto l’ipotesi dell’acquisizione, introdotta dall’art. 43
d.P.R. n. 327 del 2001, sarebbe «priva di addentellati con la vigente
normativa», nel mentre il legislatore delegato non era stato
autorizzato ad integrare o correggere le previsioni vigenti, ma
semplicemente a riordinarle, attraverso un intervento di mero
coordinamento.
3. – Nel giudizio relativo alle ordinanze r.o. n. 114 e n. 115
del 2009, si e’ costituito il Comune di Casapesenna, criticando le
argomentazioni sottese ai provvedimenti del giudice a quo. In primo
luogo, il Tribunale campano, affermando che l’istituto in questione
«nelle intenzioni del legislatore doveva conservare una natura
eccezionale», nel mentre avrebbe «assunto la natura di strumento
ordinario», confonderebbe l’ipotetica applicazione «scorretta» della
norma in questione, con la sua illegittimita’ costituzionale.
Inoltre, non sarebbe neppure corretto affermare che l’art. 43
consentirebbe l’illecito aquiliano, in quanto, al contrario, la norma
in questione avrebbe proprio escluso in radice che l’eventuale
illecito aquiliano possa in se’ determinare, come accadeva in
passato, l’acquisto della proprieta’ da parte della pubblica
amministrazione.
Il giudice a quo non coglierebbe nel segno neppure con riguardo
alla pretesa elusione degli obblighi procedimentali, in quanto il
provvedimento di acquisizione deve dare conto specificamente degli
interessi in conflitto, compiendo un’esaustiva comparazione dei
medesimi, attraverso una congrua motivazione della «sussistenza
attuale di un interesse pubblico specifico e concreto». In questo
senso, dunque, lo stringente obbligo di motivazione consente, proprio
al giudice amministrativo, di valutarne la «logicita’ e
ragionevolezza».
3.1. – Quanto, poi, al contrasto con la giurisprudenza di
Strasburgo, il Comune di Casapesenna ritiene che, diversamente da
quanto opinato dai rimettenti, gli arresti della CEDU non hanno avuto
ad oggetto l’applicazione dell’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, ma
la pratica dell’accessione invertita, della quale proprio l’art. 43
costituirebbe la soluzione legislativa.
3.2. – Infondata sarebbe pure la censura di violazione del
giudicato amministrativo, in quanto la norma in esame non sarebbe in
grado di mettere in discussione ne’ l’annullamento degli atti
preordinati all’esproprio, ne’ il diritto al risarcimento del privato
illegittimamente spossessato, limitandosi piuttosto a consentire alla
pubblica amministrazione di optare per il risarcimento monetario,
piuttosto che per quello in forma specifica. Anzi, il citato art. 43,
piuttosto che ledere il precedente giudicato, ne garantirebbe una
piu’ piena esecuzione, in quanto limiterebbe a singoli casi ed alla
ricorrenza di specifici presupposti la facolta’ della pubblica
amministrazione di optare per il risarcimento monetario, in luogo di
quello in forma specifica.
3.3. – Da ultimo, con riferimento alla violazione dell’art. 76
Cost., si rileva che il t.u. sulle espropriazioni, in quanto volto al
riordino normativo ed alla semplificazione delle norme procedurali ed
organizzative, avrebbe natura innovativa e non meramente compilativa,
potendo apportare, in sede di coordinamento delle disposizioni
vigenti, «le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e
sistematica della normativa».
4. – In tutti i giudizi promossi e’ intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, che, nei distinti atti, di contenuto
sostanzialmente identico, ha chiesto che la questione sia dichiarata
inammissibile ed infondata.
4.1. – La difesa dello Stato eccepisce, in primo luogo,
l’inammissibilita’ della questione per difetto di rilevanza,
ricordando che questa Corte, nella sentenza n. 191 del 2006, ha
espressamente escluso che la norma censurata abbia valore di norma
processuale, sicche’ i rimettenti avrebbero dovuto chiedersi se essa
fosse o meno applicabile alla fattispecie concreta. Il tema
dell’applicabilita’ dell’art. 43 del t.u. in materia di
espropriazioni alle occupazioni sine titulo, perfezionatesi prima
dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001, rappresenterebbe,
infatti, uno dei temi piu’ dibattuti sia in dottrina che in
giurisprudenza. Oltre all’orientamento richiamato dall’ordinanza di
rimessione, infatti, sarebbe dato riscontrare, in senso contrario, in
primo luogo quello della Corte di cassazione che, con le sentenze 22
settembre 2008, n. 23943 e 19 dicembre 2007, n. 26732, ne ha escluso
l’applicabilita’ in considerazione del fatto che l’art. 57 del d.P.R.
n. 327 del 2001, nel disciplinare l’applicabilita’ della nuova
disciplina (e non soltanto delle norme di natura sostanziale), ha
introdotto un criterio fondato esclusivamente sul dato temporale del
primo atto del procedimento espropriativo, a prescindere dalle sue
successive vicende e dai successivi provvedimenti che l’espropriante
potesse emanare.
Inoltre, lo stesso Consiglio di Stato, con la sentenza 26
settembre 2008 n. 4660, avrebbe negato l’applicazione del citato art.
43 ad una fattispecie perfezionatasi, come quella in esame oggi,
anteriormente all’entrata in vigore del t.u.
4.2. – La questione sarebbe, ancora, inammissibile perche’ i
rimettenti non avrebbero sperimentato un’interpretazione
costituzionale della norme censurata. Cio’ in quanto il Tribunale
muoverebbe da un’applicazione della disposizione da parte delle
amministrazioni e da parte del diritto vivente, che a suo giudizio
avrebbe condotto a risultati abnormi, quali quello relativo
all’operativita’ dell’art. 43 in sede di ottemperanza, suscettibile
di caducare l’accertamento del diritto alla restituzione del fondo e
di travolgere la forza del giudicato.
Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, tuttavia, nulla avrebbe
impedito ai giudici rimettenti di valutare alla stregua di
un’interpretazione costituzionalmente orientata l’illegittimita’
dell’atto acquisitivo, nel corso del giudizio di ottemperanza, per le
medesime ragioni che sono state poste a sostegno della questione di
costituzionalita’.
4.3. – Nel merito, la difesa dello Stato precisa in primo luogo
che lo strumento della cosiddetta acquisizione sanante, lungi
dall’essere uno strumento ordinario, si sostanzierebbe invece come
una «legale via d’uscita» dalle situazioni di illegalita’,
verificatesi nel corso degli anni.
Quanto, poi, al rapporto con il giudicato relativo alla
restituzione del fondo, si sottolinea che la disposizione in esame
non costituisce, di per se’, uno strumento di elusione del giudicato,
ma sarebbe semmai l’uso non funzionale della norma da parte
dell’Amministrazione, che potrebbe determinare tale conseguenza.
Sarebbe, quindi, compito del giudice amministrativo verificare con
rigore quella comparazione di interessi sottesa al provvedimento,
secondo i criteri della ragionevolezza e proporzionalita’.
Il Presidente del Consiglio dei ministri evidenzia, poi, come nel
caso di specie il giudice ben avrebbe potuto dichiarare, ai sensi
dell’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme
in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai
documenti amministrativi), la nullita’ del provvedimento di
acquisizione adottato dall’amministrazione comunale, per violazione
del giudicato.
4.4. – In ordine alla questione relativa alla violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., per violazione della CEDU,
l’Avvocatura dello Stato, nonostante i dubbi di legittimita’
costituzionale paventati da alcune decisioni della Corte di
cassazione (sentenza n. 26732 del 2007, cit.), premette che la
questione della compatibilita’ dell’art. 43 non sarebbe mai stata
affrontata dalla Corte di Strasburgo. Cio’ posto, il giudice
rimettente avrebbe potuto, comunque praticare un’interpretazione
conforme ai «canoni CEDU», prima ancora di sollevare la questione di
legittimita’ costituzionale. Del resto la giurisprudenza
amministrativa si sarebbe piu’ volte espressa nel senso della piena
compatibilita’ dell’art. 43 con le disposizioni CEDU, come
interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
4.5. – Infine, con riferimento al denunciato vizio di eccesso di
delega, il Presidente del Consiglio dei ministri ricorda, ancora, la
giurisprudenza del giudice amministrativo che avrebbe negato la
sussistenza di tale vizio.
4.6. – Da ultimo l’Avvocatura dello Stato sottolinea come
l’eventuale «caducazione» della norma impugnata avrebbe come
inevitabile conseguenza il «ritorno in auge» degli istituti di
creazione pretoria dell’occupazione «acquisitiva» ed «usurpativa»,
che esporrebbero lo Stato ad ulteriori e numerosissime condanne da
parte della Corte di Strasburgo.

Considerato in diritto

1. – Le questioni sollevate dal Tribunale amministrativo
regionale per la Campania, con tre distinte ordinanze di contenuto in
larga misura coincidente (r.o. n. 114, n. 115 e n. 116 del 2009),
riguardano l’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubbica 8
giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilita’),
con il quale viene disciplinata la «Utilizzazione senza titolo di un
bene per scopi di interesse pubblico».
1.1. – I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata con
riferimento agli stessi parametri, sotto gli stessi profili e in gran
parte con le stesse argomentazioni; ponendo, pertanto, un’identica
questione, vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia.
2. – La norma censurata ha ad oggetto la disciplina
dell’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse
pubblico e consente all’autorita’ che abbia utilizzato a detti fini
un bene immobile in assenza di un valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilita’, di disporne
l’acquisizione al suo patrimonio indisponibile, con l’obbligo di
risarcire i danni al proprietario. La disposizione regola, inoltre,
tempo e contenuto dell’atto di acquisizione, l’impugnazione del
medesimo, la facolta’ della pubblica amministrazione di chiedere che
il giudice amministrativo «disponga la condanna al risarcimento del
danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di
tempo», fissando i criteri per la quantificazione del risarcimento
del danno.
Secondo il Tribunale rimettente, in punto di rilevanza,
l’applicazione della disciplina di cui al citato art. 43
determinerebbe l’improcedibilita’ dei ricorsi in ottemperanza, in
considerazione dell’atto formale di acquisizione sanante; nello
stesso tempo, i ricorsi avverso la delibera di acquisizione
dovrebbero essere rigettati, perche’ il provvedimento oggetto di
impugnazione dovrebbe ritenersi conforme al modello astratto
disegnato dall’intera disposizione, nonostante, in questo caso, fosse
gia’ intervenuta una pronuncia di restituzione (in particolare nei
giudizi iscritti al r.o. n. 114 e n. 115 del 2009, a seguito
dell’annullamento gli atti inerenti alla procedura ex art. 43).
La norma si porrebbe in contrasto anzitutto con gli articoli 3,
24, 42, 97 e 113 della Costituzione, in quanto essa consentirebbe,
secondo l’interpretazione assunta come diritto vivente, la sanatoria
di espropriazioni illegittime, a causa della mancanza della
dichiarazione di pubblica utilita’, dell’annullamento degli atti
ovvero per altra causa. In tal modo, sarebbe prefigurato l’esercizio
di un potere autoritativo di acquisizione dell’area che impedirebbe
la restituzione del bene, rimuovendo l’illecito aquiliano anche a
dispetto di un giudicato amministrativo, consentendo «alla pubblica
amministrazione, anche deliberatamente, … di eludere gli obblighi
procedimentali della instaurazione del contraddittorio, delle tre
fasi progettuali e della verifica delle norme di conformita’
urbanistica» con «grave lesione del principio generale
dell’intangibilita’ del giudicato amministrativo», sostanzialmente
«vanificato da un atto amministrativo di acquisizione per
utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse
pubblico».
3. – Ad avviso del TAR, la norma impugnata si porrebbe, inoltre,
in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto non
sarebbe conforme ai principi della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, come interpretati dalla Corte di Strasburgo, che ha
ritenuto in contrasto con l’art. 1, prot. 1, la prassi della
cosiddetta «espropriazione indiretta»; violando peraltro anche l’art.
6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di
Amsterdam), in base al quale «l’Unione rispetta i diritti
fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali,
[…] in quanto principi generali del diritto comunitario».
4. – I rimettenti, infine, ritengono che il citato art. 43
impugnato recherebbe vulnus all’art. 76, Cost., in quanto sarebbe
stato emanato in violazione dei criteri della legge-delega 8 marzo
1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti
procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998).
5. – L’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilita’
delle questioni, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, in
quanto questa Corte, la Corte di cassazione ed il Consiglio di Stato
avrebbero escluso l’applicabilita’ del citato art. 43 alle
occupazioni appropriative verificatesi prima del 30 giugno 2003, data
di entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001.
5.1. – L’eccezione non e’ fondata. La questione
dell’applicabilita’ della norma in esame non e’ stata risolta in modo
univoco dalla giurisprudenza. La Corte di cassazione esclude,
infatti, l’ammissibilita’ dell’adozione di un provvedimento di
acquisizione sanante ex art. 43 con riguardo alle occupazioni
appropriative verificatesi prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n.
327 del 2001 (sentenze 22 settembre 2008, n. 23943, 28 luglio 2008 n.
20543, 19 dicembre 2007, n. 26732). Diversamente, nella
giurisprudenza del Consiglio di Stato e’ ormai prevalente il
principio secondo cui «la procedura di acquisizione in sanatoria di
un’area occupata sine titulo, descritta dal citato articolo 43, trova
una generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate
prima dell’entrata in vigore della norma» (Cons. Stato, Sez. IV, 26
marzo 2010, n. 1762, Sez. IV, 8 giugno 2009, n. 3509, inoltre: Ad.
Plen. 29 aprile 2005, n. 2; Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830,
esaminata senza rilievi sulla giurisdizione da Cass., SS.UU., 16
aprile 2009, n. 9001).
In presenza di tale contrasto, le ordinanze di rimessione hanno
motivato in maniera non implausibile in ordine all’applicabilita’
della norma, richiamando la giurisprudenza assolutamente prevalente
ed il «diritto vivente» del Consiglio di Stato.
6. – Nel merito, vanno esaminate in via preliminare le censure
riferite all’art. 76, della Costituzione. Spetta, infatti, a questa
Corte «valutare il complesso delle eccezioni e delle questioni
costituenti il thema decidendum devoluto al suo esame» e «stabilire,
anche per economia di giudizio, l’ordine con cui affrontarle nella
sentenza e dichiarare assorbite le altre» (da ultimo, sentenze n. 181
del 2010 e n. 262 del 2009), quando si e’ in presenza di «questioni
tra loro autonome per l’insussistenza di un nesso di
pregiudizialita’» (sentenza n. 262 del 2009).
Nella specie, e’ palese la pregiudizialita’ logico-giuridica
delle censure riferite all’art. 76 Cost., giacche’ esse investono il
corretto esercizio della funzione legislativa e, quindi, la loro
eventuale fondatezza eliderebbe in radice ogni questione in ordine al
contenuto precettivo della norma in esame.
6.1. – I rimettenti denunciano la violazione dell’art. 76 Cost.,
deducendo che l’art. 43 non troverebbe «riferimento o principi e
criteri direttivi in norme preesistenti», in quanto la legge-delega
n. 50 del 1999 prevedeva il mero coordinamento formale del testo
delle disposizioni vigenti, e consentiva, nei limiti di tale
coordinamento, le sole modifiche necessarie per garantire la coerenza
logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e
semplificare il linguaggio.
7. – La questione e’ fondata.
8. – La norma impugnata disciplina l’istituto cosiddetto della
«acquisizione sanante». In particolare essa dispone, fra l’altro, al
comma 1, che, «valutati gli interessi in conflitto, l’autorita’ che
utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato
in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o
dichiarativo della pubblica utilita’, puo’ disporre che esso vada
acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario
vadano risarciti i danni». Viene, poi, precisato, al comma 2, che
l’atto di acquisizione «…a) puo’ essere emanato anche quando sia
stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato
all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilita’ di
un’opera o il decreto di esproprio;».
Si tratta, dunque, della possibilita’ di acquisire alla mano
pubblica un bene privato, in precedenza occupato e modificato per la
realizzazione di un’opera di interesse pubblico, anche nel caso in
cui l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilita’ sia venuta
meno, con effetto retroattivo, in conseguenza del suo annullamento o
per altra causa, o anche in difetto assoluto di siffatta
dichiarazione («assenza del valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilita’»).
8.1. – La norma censurata e’ contenuta nel testo unico, in
materia di espropriazioni, redatto in attuazione della legge n. 50
del 1999, a sua volta collegata alla legge 15 marzo 1997 n. 59
(Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle
regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione
e per la semplificazione amministrativa), che aveva previsto un
generale strumento permanente di semplificazione e di
delegificazione.
In particolare, la delega riguardava il «riordino» delle norme
elencate nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 (nel testo
risultante a seguito dell’art. 1, legge 24 novembre 2000, n. 340 –
Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione
di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999), che
contemplava, quale oggetto, il «procedimento di espropriazione per
causa di pubblica utilita’ e altre procedure connesse: legge 25
giugno 1865, n. 2359; legge 22 ottobre 1971, n. 865».
8.2. – Il chiaro tenore delle norme richiamate rende palese che
la delega oggetto delle medesime concerneva esplicitamente il tessuto
normativo costituito dalle leggi n. 2359 del 1865 e n. 865 del 1971.
Il sistema dell’espropriazione per pubblica utilita’ risultante
da dette leggi era articolato, in sintesi, in un procedimento che
presupponeva il provvedimento dichiarativo della pubblica utilita’
dell’opera e la fissazione di termini, con la connessa disciplina dei
casi di indifferibilita’ ed urgenza. In seguito, la legge n. 865 del
1971 aveva previsto la concentrazione del procedimento in un’unica
fase, ricollegando la dichiarazione di pubblica utilita’, unitamente
alla dichiarazione di indifferibilita’ ed urgenza delle opere
pubbliche, all’approvazione dei progetti delle opere da parte degli
organi competenti.
Successivamente, ed in presenza di una nutrita serie di patologie
dei procedimenti amministrativi di espropriazione, consistenti
nell’accertamento dell’occupazione sine titulo da parte della
pubblica amministrazione, la giurisprudenza di legittimita’ aveva
elaborato gli istituti dell’occupazione «appropriativa» ed
«usurpativa».
In sintesi, la prima era caratterizzata da una anomalia del
procedimento espropriativo, a causa della sua mancata conclusione con
un formale atto ablativo, mentre la seconda era collegata alla
trasformazione del fondo di proprieta’ privata, in assenza di
dichiarazione di pubblica utilita’. Nel primo caso (il cui leading
case si rinviene nella sentenza delle Sezioni Unite 26 febbraio 1983,
n. 1464), l’acquisto della proprieta’ conseguiva ad un’inversione
della fattispecie civilistica dell’accessione di cui agli artt. 935
ss. cod. civ., in considerazione della trasformazione irreversibile
del fondo. Secondo questa ricostruzione, la destinazione
irreversibile del suolo privato illegittimamente occupato comportava
l’acquisto a titolo originario, da parte dell’ente pubblico, della
proprieta’ del suolo e la contestuale estinzione del diritto di
proprieta’ del privato. La successiva sentenza delle Sezioni Unite 10
giugno 1988, n. 3940, preciso’ poi la figura della «occupazione
acquisitiva», limitandola al caso in cui si riscontrasse una valida
dichiarazione di pubblica utilita’ che permetteva di far prevalere
l’interesse pubblico su quello privato.
L’«occupazione usurpativa», invece, non accompagnata da
dichiarazione di pubblica utilita’, ab initio o per effetto
dell’intervenuto annullamento del relativo atto o per scadenza dei
relativi termini, in quanto tale non determinava dunque l’effetto
acquisitivo a favore della pubblica amministrazione.
8.3. – E’ questo, in sostanza, il contesto normativo in cui e’
stato inserito il citato art. 43, comprensivo anche dei ricordati
istituti di origine giurisprudenziale, i quali hanno nel tempo
disciplinato la materia.
Nella redazione del testo unico il legislatore delegato era
tenuto ad osservare i seguenti principi e criteri direttivi,
contenuti nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 50: la puntuale
individuazione del testo vigente delle norme (lettera b) dell’art. 7
cit.); l’indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente, da
successive disposizioni (lettera c); il coordinamento «formale» del
testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto
coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza
logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e
semplificare il linguaggio normativo (lettera d).
La legge-delega imponeva, poi, l’indicazione delle disposizioni,
non inserite nel testo unico, che restavano comunque in vigore
(lettera e) e l’esplicita abrogazione di tutte le rimanenti
disposizioni, non richiamate, che regolavano la materia oggetto di
delegificazione, con espressa indicazione delle stesse in apposito
allegato al testo unico (lettera f).
8.4. – Occorre verificare, pertanto, se il legislatore delegato
abbia osservato i suindicati principi e criteri direttivi.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il
sindacato di costituzionalita’ sulla delega legislativa si esplica
attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici
paralleli. Il primo riguarda le norme che determinano l’oggetto, i
principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto
del complessivo contesto di norme in cui si collocano e si
individuano le ragioni e le finalita’ poste a fondamento della legge
di delegazione. Il secondo riguarda le norme poste dal legislatore
delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi
ed i criteri direttivi della delega (ex plurimis, sentenze n. 230 del
2010, n. 98 del 2008, n. 54 del 2007, n. 280 del 2004, n. 199 del
2003).
Pertanto, da un lato, deve farsi riferimento alla ratio della
delega; dall’altro, occorre tenere conto della possibilita’, insita
nello strumento della delega, di introdurre norme che siano un
coerente sviluppo dei principi fissati dal legislatore delegato;
dall’altro ancora, sebbene rientri nella discrezionalita’ del
legislatore delegato emanare norme che rappresentino un coerente
sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse
dal legislatore (sentenza n. 199 del 2003; ordinanza n. 213 del
2005), e’ nondimeno necessario che detta discrezionalita’ sia
esercitata nell’ambito dei limiti stabiliti dai principi e criteri
direttivi.
Inoltre, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte,
qualora la delega abbia ad oggetto, come nella specie, la revisione,
il riordino ed il riassetto di norme preesistenti, queste finalita’
giustificano un adeguamento della disciplina al nuovo quadro
normativo complessivo, conseguito dal sovrapporsi, nel tempo, di
disposizioni emanate in vista di situazioni ed assetti diversi.
L’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al
sistema legislativo previgente e’, tuttavia, ammissibile soltanto nel
caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a
circoscrivere la discrezionalita’ del legislatore delegato (sentenza
n. 170 del 2007 e n. 239 del 2003).
8.5. – Alla luce di questi principi, risulta chiara la fondatezza
delle censure svolte dai giudici rimettenti.
La legge-delega aveva conferito, sul punto, al legislatore
delegato il potere di provvedere soltanto ad un coordinamento
«formale» relativo a disposizioni «vigenti». L’istituto previsto e
disciplinato dalla norma impugnata, viceversa, e’ connotato da
numerosi aspetti di novita’, rispetto sia alla disciplina
espropriativa oggetto delle disposizioni espressamente contemplate
dalla legge-delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente
giurisprudenziale.
In primo luogo, non e’ dato ravvisare nelle leggi indicate nel
citato allegato I, alla legge n. 59 del 1997, alcuna norma che
potesse giustificare un intervento della pubblica amministrazione, in
via di sanatoria, sulle procedure ablatorie previste.
Inoltre, neppure puo’ farsi riferimento al contesto degli
orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, in quanto piu’
profili della cosiddetta «acquisizione sanante», cosi’ come
disciplinata dalla norma censurata, eccedono con tutta evidenza dagli
istituti della occupazione appropriativa e della occupazione
usurpativa, cosi’ come delineati da quegli orientamenti.
Il citato art. 43, infatti, ha anzitutto assimilato le due
figure, introducendo la possibilita’ per l’amministrazione e per chi
utilizza il bene di chiedere al giudice amministrativo, in ogni caso
e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento in luogo della
restituzione. Peraltro, esso estende tale disciplina anche alle
servitu’, rispetto alle quali la giurisprudenza aveva escluso
l’applicabilita’ della cosiddetta occupazione appropriativa,
trattandosi di fattispecie non applicabile all’acquisto di un diritto
reale in re aliena, in quanto difetta la non emendabile
trasformazione del suolo in una componente essenziale dell’opera
pubblica.
Infine, la norma censurata differisce il prodursi dell’effetto
traslativo al momento dell’atto di acquisizione.
Si tratta di elementi di sicuro rilievo e qualificanti, i quali
dimostrano che la norma in esame non solo e’ marcatamente innovativa
rispetto al contesto normativo positivo di cui era consentito un mero
riordino, ma neppure e’ coerente con quegli orientamenti di
giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre un
certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel corso dei
procedimenti espropriativi. Siffatto carattere della norma impugnata
trova conferma significativa nella circostanza che, secondo la
giurisprudenza di legittimita’, in materia di occupazione di urgenza,
la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere
un’efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali
dell’ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi. Nel regime
risultante dalla norma impugnata, invece, si prevede un generalizzato
potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che ha
commesso l’illecito, a dispetto di un giudicato che dispone il
ristoro in forma specifica del diritto di proprieta’ violato.
Il legislatore delegato, in definitiva, non poteva innovare del
tutto ed al di fuori di ogni vincolo alla propria discrezionalita’
esplicitamente individuato dalla legge-delega. Questa Corte ha in
proposito affermato, infatti, che, per quanta ampiezza possa
riconoscersi al potere di riempimento del legislatore delegato, «il
libero apprezzamento» del medesimo «non puo’ mai assurgere a
principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una
legislazione vincolata, quale e’, per definizione, la legislazione su
delega» (sentenze n. 340 del 2007 e n. 68 del 1991).
In contrario, non giova dedurre, come sostenuto dall’Avvocatura
dello Stato, che il legislatore delegato abbia inteso tenere conto
delle censure mosse dalla giurisprudenza di Strasburgo alla pratica
delle espropriazioni «indirette».
Indipendentemente sia da ogni considerazione relativa al fatto
che cio’ non era contemplato nei principi e criteri direttivi di cui
al piu’ volte citato art. 7 della legge n. 50 del 1999, sia dal
legittimo dubbio quanto alla idoneita’ della scelta realizzata con la
norma di garantire il rispetto dei principi della CEDU, che in questa
sede non e’ possibile sciogliere, quella prefigurata costituisce
soltanto una delle molteplici soluzioni possibili. Il legislatore
avrebbe potuto conseguire tale obiettivo e disciplinare in modi
diversi la materia, ed anche espungere del tutto la possibilita’ di
acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la
restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti
europei. E neppure e’ mancato qualche rilievo in questo senso della
Corte di Strasburgo, la quale, infatti, sia pure incidentalmente, ha
precisato che l’espropriazione indiretta si pone in violazione del
principio di legalita’, perche’ non e’ in grado di assicurare un
sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione di
utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da
«azioni illegali», e cio’ sia allorche’ essa costituisca conseguenza
di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorche’ derivi da una
legge – con espresso riferimento all’articolo 43 del t.u. qui
censurato -, in quanto tale forma di espropriazione non puo’ comunque
costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo
«buona e debita forma» (Causa Sciarrotta ed altri c. Italia – Terza
Sezione – sentenza 12 gennaio 2006 – ricorso n. 14793/02).
Anche considerando la giurisprudenza di Strasburgo, pertanto, non
e’ affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto,
in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze
dell’espropriazione indiretta, sia sufficiente di per se’ a risolvere
il grave vulnus al principio di legalita’.
Alla stregua dei rilievi svolti, va dichiarata l’illegittimita’
costituzionale dell’intero art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001,
poiche’ la disciplina inerente all’acquisizione del diritto di
servitu’, di cui al comma 6-bis, appare strettamente ed
inscindibilmente connessa con gli altri commi, sia per espresso
rinvio alle norme fatte oggetto di censura, sia perche’ ne presuppone
l’applicazione e ne disciplina ulteriori sviluppi applicativi (cfr.
sentenza n. 18 del 2009).
9. – La pronuncia di illegittimita’ costituzionale con
riferimento all’art. 76 Cost., determina l’assorbimento delle
questioni poste con riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 113 e 117,
primo comma, Cost.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 43 del
decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilita’).
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010.

Il Presidente: Amirante

Il redattore: Tesauro

Il cancelliere: Di Paola

Depositata in cancelleria l’8 ottobre 2010.

Il direttore della cancelleria: Di Paola

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Fonte: http://www.gazzettaufficiale.it/

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