Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 19-10-2011, n. 21620 licenziamento disciplinare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 16 gennaio 2008 la Corte d’Appello di Potenza ha confermato la sentenza del Tribunale di Melfi dell’11 luglio 2006 con la quale è stata rigettata la domanda proposta da I.T. intesa ad ottenere la dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento intimatogli dalla SATA s.p.a. il 7 febbraio 2003. La Corte territoriale, per quanto rileva in questa sede, ha motivato tale sentenza considerando che, dall’espletata istruttoria, erano emersi molteplici elementi che depongono nel senso dell’avvenuta affissione del codice disciplinare già in epoca precedente all’adozione della sanzione contestata, mentre la defissione del medesimo codice ad opera di terzi, non può essere addebitata al datore di lavoro ove questi si sia comportato secondo i canoni della correttezza e buona fede contrastando l’illecito comportamento consistito nella de fissione, con l’uso della normale diligenza.

L’ I. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolato su tre motivi.

Resiste con controricorso la SATA s.p.a..
Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente lamenta omessa motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio; violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, in riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, nonchè degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.. In particolare l’ I. si duole che la Corte territoriale non avrebbe tenuto in alcun conto la prova raggiunta in altro giudizio promosso da altro dipendente della SATA s.p.a. e conclusosi con la dichiarazione dell’illegittimità della sanzione disciplinare irrogata per violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1.

Con secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, dell’art. 360 cod. proc. civ., in riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, ed all’art. 2697 cod. civ.. In particolare si assume che il datore di lavoro non avrebbe fornito la prova della continuità dell’affissione del codice disciplinare ai fini della legittimità della sanzione disciplinare irrogata.

Con il terzo motivo si deduce falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, dell’art. 360 cod. proc. civ., in riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1. In particolare si assume che non sarebbe esercitato validamente il potere disciplinare del datore di lavoro, perchè non conforme al criterio di correttezza e buona fede ex art. 1175 cod. civ., allorchè non vi sia contestualità dell’affissione con il procedimento disciplinare a carico del lavoratore.

Con il controricorso la SATA s.p.a. eccepisce l’inammissibilità del ricorso per inadeguata formulazione dei quesiti di diritto in violazione dell’art. 366 bis cod. proc. civ., e per violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, perchè conterrebbe censure riguardanti la valutazione delle prove incensurabile in sede di legittimità. Nel merito la SATA s.p.a. chiede il rigetto del ricorso perchè infondato.

Il ricorso non è fondato.

Quanto al primo motivo si osserva che le prove raccolte in un diverso giudizio danno luogo ad elementi meramente indiziari. Ne consegue che la mancata valutazione di tali prove non è idonea ad integrare il vizio di motivazione, in quanto il difetto riscontrato non può costituire punto decisivo, implicando non un giudizio di certezza ma di mera probabilità rispetto all’astratta possibilità di una diversa soluzione (da ultimo Cass. 22 febbraio 2011 n. 4279). Com’è noto, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, sussiste "solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perchè la legge non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento" (Cass. n. 14279 de 25/09/2003). Questa S.C. ha altresì in proposito precisato che "la ricostruzione degli elementi probatori e la relativa valutazione rientra nei compiti istituzionali del giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove e risultanze che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso e di disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell’accertamento dei fatti si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti al giudizio, considerati nel loro complesso" (Cass. Sez. 3, n. 10484 del 01/08/2001; Cass. n. 13184 del 10/09/2002; Cass. n. 15871 del 12/11/2002; Cass. n. 5434 del 07/04/2003).

Riguardo al secondo motivo il giudice di merito, con motivazione logica e compiuta, ha argomentato riguardo alla continuità dell’affissione del codice disciplinare, affermando una sorta di presunzione di tale continuità derivante dall’impossibilità, da parte del datore di lavoro, di verificare, usando la normale diligenza, l’effettiva continuità; tale argomentazione, quindi, non presuppone l’esistenza della prova dell’effettiva continuità dell’affissione, per cui la lamentela della mancanza di tale prova, non ha ragione di essere.

Il terzo motivo è conseguentemente infondato in quanto il relativo quesito di diritto fa riferimento al mancato raggiungimento della prova della continuità dell’affissione che, per quanto considerato a proposito del secondo motivo, deve ritenersi irrilevante stante il tipo di motivazione adottata e che porta ad una sorta di presunzione di tale affissione prescindendo dalla prova precisa sulla sua continuità.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 30,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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