Cons. Stato Sez. VI, Sent., 15-06-2011, n. 3628 lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

l’avv. Gialluisi, e l’avvocato dello Stato Santoro;
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con la sentenza in epigrafe, il T.A.R. per il Lazio dichiarava l’inammissibilità del ricorso n. 17385 del 2000, proposto dal signor L. M., il quale dal 1° aprile 1970 fino al 28 ottobre 1997 aveva lavorato alle dipendenze dell’E.N.E.A.Ente per le Nuove Tecnologie, l’Energia e l’Ambiente in qualità di revisore dei conti delle procedure interne inquadrato in VIII qualifica funzionale, avverso il licenziamento disciplinare intimatogli il 28 ottobre 1997 in esito a procedimento disciplinare avviato con lettera di contestazione del Presidente E.N.E.A. del 9 ottobre 1997, per aver svolto attività professionale incompatibile in violazione dell’art. 1, commi 60, 61 e 63, l. 23 dicembre 1996, n. 662.

Il T.A.R. basava la pronuncia d’inammissibilità sui rilievi:

(i) che il licenziamento disciplinare, a conoscenza del ricorrente sin dal 28 ottobre 1997, era stato impugnato in sede stragiudiziale con lettera raccomandata a contenuto del tutto generico il 23 dicembre 1997, oltre il termine di 20 giorni stabilito dall’art. 7 l. 20 maggio 1970, n. 300,

(ii) che pure il collegio di conciliazione e arbitrato presso la Direzione provinciale del lavoro di Roma era stato adito tardivamente, con istanza inoltrata l’11 febbraio 2000, ad oltre due anni di distanza dall’irrogazione della sanzione;

(iii) che il ricorso giurisdizionale, il quale ai sensi dell’art. 69, comma 2, d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, sarebbe divenuto procedibile trascorsi 90 giorni dalla promozione del tentativo di conciliazione (nella specie fallito per la mancata comparizione del ricorrente o rispettivamente del suo rappresentante), era stato promosso con atto notificato il 15 settembre 2000, e dunque tardivamente.

2. Avverso tale sentenza, pubblicata il 24 gennaio 2005 e non notificata, interponeva appello il ricorrente soccombente con ricorso notificato il 19 gennaio 2006, censurando l’erronea applicazione degli artt. 6, commi 1 e 2, l. 15 luglio 1966, n. 604, e 7, comma 6, l. 20 maggio 1970, n. 300, in quanto esso appellante aveva impugnato il licenziamento tempestivamente in via stragiudiziale entro il termine di 60 giorni previsto dal citato art. 6 l. n.604/1966, sicché, evitata la decadenza, il ricorso giurisdizionale poteva essere proposto entro il termine di prescrizione quinquennale ex art. 1442 c.c., mentre il termine di 90 giorni di cui all’art. 69 d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, non costituiva termine di decadenza, ma mero termine di procedibilità dell’azione giudiziaria. L’appellante chiedeva dunque, in riforma dell’impugnata sentenza, l’accoglimento del ricorso proposto in primo grado, con vittoria di spese.

3. L’appellato ente, costituendosi nel presente giudizio di gravame, contestava la fondatezza dell’appello, chiedendone il rigetto con vittoria di spese.

4. All’udienza pubblica dell’8 marzo 2011 la causa veniva trattenuta in decisione.

5. L’appello deve essere respinto, in quanto il ricorso in primo grado – a prescindere dalla questione della sua ammissibilità, o meno – è comunque infondato nel merito.

5.1. L’odierno appellante è stato licenziato, in quanto da visure effettuate presso le Camere di Commercio di Foggia e Roma e da accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza era stato appurato che lo stesso, al momento del licenziamento, rivestiva le funzioni di amministratore, liquidatore e/o socio in cinque società, di cui due aventi sede nella Puglia e tre in Roma, in tal modo violando le disposizioni contenute nei commi 60, 61 e 63 dell’art. 1 l. 23 dicembre 1996, n. 662, che vietano ai dipendenti pubblici di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo, "tranne che la legge o altra fonte normativa ne prevedano l’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza e l’autorizzazione sia stata concessa" (comma 60), e configurano la violazione del divieto, per i rapporti di lavoro disciplinati dai contratti collettivi nazionali di lavoro, come giusta causa di recesso (comma 61).

Il comma 63, dopo aver fissato l’entrata in vigore delle nuove disposizioni al 1 marzo 1997, statuisce che "entro tale termine devono cessare tutte le attività incompatibili con il divieto di cui al comma 60 e a tal fine gli atti di rinuncia all’incarico, comunque denominati, producono effetto dalla data della relativa comunicazione".

5.2. Giova inoltre premettere, in linea di fatto, che lo svolgimento dell’attività commerciale, da parte dell’odierno appellante, nell’ambito di tali società risulta provato per tabulas dai verbali di accertamento della Guardia di Finanza e dalle visure camerali prodotte dall’E.N.E.A., oltreché dall’acquisita sentenza n. 1783/2008 della Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, con la quale il medesimo è stato condannato al risarcimento del danno erariale, liquidato nell’importo di euro 15.558,86 (oltre agli accessori), per le sue ripetute e protratte assenze ingiustificate negli anni 1996 e 1997, dissimulate da falsi attestati di malattia e dovute proprio allo svolgimento delle attività commerciali nell’ambito delle società in esame.

5.3. Orbene, l’odierno appellante ha incentrato il ricorso in primo grado su tre censure di natura meramente formale: (i) la mancata affissione del codice disciplinare ex art. 7 l. n. 300/1970; (ii) la mancata previa diffida, da parte del Presidente dell’E.N.E.A., a cessare dalle situazioni di incompatibilità degli impieghi, ai sensi dell’art. 53, comma 3, C.C.N.L. vigente nel quadriennio 19941997; (iii) la mancata contestazione dell’addebito almeno cinque giorni prima dell’adozione dell’atto di recesso, ai sensi dell’art. 60, comma 3, C.C.N.L.

Le dedotte censure sono destituite di fondamento, in quanto:

– per la consolidata giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante l’affissione in luogo accessibile a tutti i dipendenti non si applica, qualora il licenziamento sia irrogato a cagione di situazioni concretanti violazione di doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro (v. ex plurimis Cass. Civ., Sez. Lav., 18 settembre 2009, n. 20270), quale quello di non prestare attività di lavoro incompatibili col rapporto d’impiego;

– la necessità della diffida con assegnazione di termine di 15 giorni per cessare dall’incompatibilità deve ritenersi superata dal sopra citato art. 1, comma 63, l. n. 662/1996 che, ad inasprimento della disciplina repressiva dei correlati fenomeni di assenteismo, ha fissato il termine ex lege del 1 marzo 1997 per la rimozione di situazioni d’incompatibilità d’impieghi;

– dall’incontestata spedizione, in data 13 ottobre 1997, della lettera raccomandata a. r. contenente la contestazione degli addebiti (prot. n. 58598 del 9 ottobre 1997), deve inferirsi, in difetto di prova contraria incombente all’odierno appellante, che la stessa sia pervenuta al destinatario nel rispetto del termine a difesa di 5 giorni prima dell’irrogazione del licenziamento con atto del 28 ottobre 1997, atteso per un verso il lasso temporale di ben quindici giorni intercorso tra data di spedizione e data del licenziamento, e considerata, per altro verso, l’assoluta genericità della censura sul punto formulata nel ricorso in primo grado, ove l’istante si limita ad enunciare che la lettera di contestazione "risulta essere stata recapitata in ritardo", senza specificare la data dell’avvenuto recapito (infatti, dall’incontroversa spedizione della lettera raccomandata consegue la presunzione, fondata sull’ordinaria regolarità del servizio postale, di arrivo dell’atto nella sfera di conoscenza del destinatario, per cui spetta a quest’ultimo l’onere di dimostrare di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di acquisire tempestivamente la conoscenza dell’atto).

5.4. L’appello deve essere dunque respinto, sulla base dell’assorbente rilievo dell’infondatezza nel merito del ricorso in primo grado.

6. Le spese del grado seguono la soccombenza.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto (Ricorso n. 1355 del 2006), lo respinge ai sensi di cui in motivazione; condanna l’appellante a rifondere all’ente appellato le spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nell’importo complessivo di euro 3.000,00, oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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