Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 04-05-2011) 13-06-2011, n. 23672 applicazione della pena

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza emessa dal Tribunale di Brescia in data 19.1.2010, veniva applicata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. la pena di anni uno di reclusione nei confronti di A.M., imputato del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 quater con la recidiva reiterata infraquinquennale. Veniva in sostanza accolta la proposta sanzionatoria avanzata dalle parti, che calcolavano la pena su una base di anni uno di reclusione, pena che veniva aumentata di mesi sei di reclusione, per essere ridotta ex art. 444 c.p.p., ad anni uno di reclusione.

2. Contro la sentenza ha interposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Brescia, per dedurre violazione di legge in relazione all’art. 99 c.p., comma 4, essendo stato operato un aumento di pena a titolo di recidiva inferiore a quello di due terzi previsto dalla norma menzionata:

l’aumento doveva infatti essere di otto mesi e fu calcolato invece in misura di mesi sei, con il che viene chiesto l’annullamento della sentenza.
Motivi della decisione

In data 28.4.2011 è stata depositata la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel procedimento C-61/11 PPU, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, proposta dalla Corte d’appello di Trento nell’ambito del procedimento a carico di H.E.D., imputato del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, in relazione alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante "norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare".

Con tale sentenza la Corte europea afferma che "la direttiva 2008/115, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo".

Spetta perciò al giudice nazionale "disapplicare ogni disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l’art. 14, comma 5-ter, di tale decreto legislativo", tenendo altresì nel debito conto il principio "dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri".

La pronunzia richiamata è stata assunta, come detto, in relazione all’ipotesi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter. Ritiene tuttavia il Collegio che le conclusioni ivi raggiunti valgano, a fortiori, per il reato previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater, cui si riferisce la sentenza oggetto di ricorso.

A ragione della decisione, la Corte di giustizia ha osservato:

– che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 risponde a una esigenza di "gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato – la concessione di un termine per la sua partenza volontaria – alla misura che maggiormente limita la sua libertà – il trattenimento in un apposito centro -, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità";

– che, in quest’ottica, persi no il trattenimento, che rappresenta la misura più restrittiva della libertà consentita dalla direttiva, è strettamente regolamentato, quanto a durata e modalità, "allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi" e di "limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo" entro termini ragionevoli – vale a dire non superiori al tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito e i più brevi possibili – in conformità all’ammonizione già impartita dall’ottavo dei "Venti orientamenti sul rimpatrio forzato", adottati il 4 maggio 2005 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa;

– che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere al rimpatrio coattivo conformemente all’art. 8 n. 4 della direttiva, una pena detentiva quale quella prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, "solo perchè un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale", dovendo "essi Stati invece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti";

– che una regolamentazione nazionale quale quella oggetto d’esame finisce per ostacolare la stessa applicazione delle misure di cui all’art. 8, n. 1, della direttiva medesima (in base alla quale "Gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria a norma dell’art. 7, paragrafo 4, o per mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio entro il periodo per la partenza volontaria concesso a norma dell’articolo 7") e ritardare l’esecuzione della decisione di rimpatrio.

Anche la fattispecie prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater, riguarda la mera "violazione" della intimazione impartita, per di più serialmente, nei confronti dello straniero in condizione di soggiorno irregolare e trova causa esclusiva nella perdurante mancanza di "cooperazione" all’allontanamento volontario.

Necessariamente presupponendo l’esistenza anche di una precedente contestazione ai sensi dell’art. 14, comma 5-ter, meno ancora (rispetto a questa) risponde ad esigenze di proporzionalità e a criteri di adeguatezza con riguardo al tempo di restrizione, strettamente necessario per il conseguimento dello scopo espulsivo, che dovrebbe giustificare l’intervento limitativo della libertà personale. E la dimostrazione che l’apparato statuale abbia posto in essere ogni ragionevole sforzo per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, rispettando la gradazione procedimentale imposta dalla direttiva, non soltanto non è richiesta dalla disposizione incriminatrice, ma mediante il richiamato art. 14, comma 5-bis risulta inaccettabilmente sostituita dal mero reiterato riferimento alla obiettiva impossibilità di dar corso alla espulsione coattiva o di trattenere lo straniero presso un centro di identificazione ed espulsione, in ipotesi anche a causa dell’inutile decorso dei tempi di permanenza in tale struttura.

Se dunque lo scopo della direttiva 2008/115 è quello di garantire che lo Stato membro compia ogni ragionevole sforzo per attuare la politica di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dei paesi terzi e di impedire che la privazione della libertà di costoro si protragga, nonostante l’impegno statuale, oltre limiti accettabili e proporzionati al fine espulsivo concretamente da perseguire, il comando impartito dalla Corte europea al giudice nazionale, di "disapplicare ogni disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998" contraria al risultato che la direttiva intende perseguire, non può che essere inteso come riferito anche al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater.

La decisione della Corte di Giustizia, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell’Unione con effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni, incide sul sistema normativo impedendo la configurabilità del reato. L’effetto è paragonabile a quello della legge sopravvenuta (cfr. C. Cost. nn. 255 del 1999, 63 del 2003, 125 del 2004 e 241 del 2005, secondo cui "i principi enunciati nella decisione dalla Corte di giustizia si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno, con il valore di jus superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui quella norma conserva efficacia e deve essere applicata anche da parte del giudice nazionale") con portata abolitrice della norma incriminatrice.

Non può a tale proposito ingenerare incertezze il riferimento contenuto, nella sentenza El Dridi, alla applicabilità della "pena più mite". Nell’ordinamento non vi sono ipotesi residuali di reato che possano ritenersi interamente contenute nella contestazione D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 14, comma 5 quater, idonee a riespandersi, senza necessità alcuna di integrazione a fronte della disapplicazione della fattispecie in esame.

Il richiamo alle tradizioni costituzionali comuni e ai diritti fondamentali rende per altro evidente che i principi evocati sono quelli elaborati, anche dalla Corte EDU, in tema di art. 7 della Convenzione, mentre la sentenza della CtGUE lager, pure richiamata (e che tratta di sanzioni amministrative), palesa come nel linguaggio della Corte il termine "pene" si riferisca a qualsivoglia regime sanzionatorio o afflittivo, non necessariamente corrispondente ad un trattamento "penale" secondo l’ordinamento italiano.

In relazione a fattispecie quale quella in esame, realizzata prima della scadenza dei termini per il recepimento della direttiva, deve per conseguenza affermarsi che il fatto non è più preveduto dalla legge come reato.

La formula è in linea con quanto già ritenuto, in relazione a ipotesi in qualche modo simile, da questa Corte, sez. 1, sentenza del 20.1.2011, n. 16521, imp. Titas Luca, allorchè ha osservato che la pronunzia della Corte di Giustizia che accerta l’incompatibilità della norma incriminatrice con il diritto europeo (si trattava del caso Schwibbert) "si incorpora nella norma stessa e ne integra il precetto con efficacia immediata" (cfr. Corte Cost. nn, 13 del 1985, 389 del 1989, 168 del 1991), così producendo "una sorta di abolitio criminis" che impone, in forza di interpretazione costituzionalmente necessitata, di estendere a siffatte situazioni di sopravvenuta inapplicabilità della norma incriminatrice nazionale, la previsione dell’art. 673 cod. proc. pen..

L’assimilazione sostanziale e logica dell’accertata incompatibilità ad una abolitio criminis, impone quindi di risolvere il problema che si pone nella presente fattispecie, con la considerazione che fin tanto che il giudicato formale non si è formato, spetta al giudice prendere atto della intervenuta abolitio criminis e annullare la condanna per fatto divenuto privo di rilievo penale (nello stesso senso S.U. De Luca, citata; nonchè S.U. n. 24246 del 25/02/2004, Chiasserini, in tema di remissione di querela; con riferimento al giudizio di rinvio a seguito di annullamento solo per la determinazione della pena S.U. n. 4904 del 26.3.1997; con riferimento al giudizio di rinvio celebrato a seguito di sentenza della Corte di giustizia europea, Sez. 6, n. 41683 del 19.10.2010, Ndaw; Sez. 6, del 5.11.2010, Gargiulo, non massimata). In buona sostanza l’abolitio criminis sopravvenuta alla sentenza impugnata deve rilevare, indipendetemente dall’oggetto del gravame ed anche per il caso di ricorso inammissibile. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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