Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 04-05-2011) 13-06-2011, n. 23670

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza 16.2.2005 il Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Empoli, condannava l’imputato per il reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter alla pena di mesi tre di arresto, in quanto era stato emesso nei di lui confronti l’ordine di lasciare il territorio dello stato, in data 7.2.2003 a cui non ottemperava, senza giustificato motivo. La sentenza era peraltro priva della motivazione.

2. Contro la sentenza ha interposto ricorso per Cassazione il Procuratore generale della repubblica presso la Corte d’appello di Firenze, per dedurre l’omessa motivazione , integrante la nullità prevista dall’art. 125 c.p.p., comma 3 e art. 546 c.p.p., comma 2.
Motivi della decisione

In data 28.4.2011 è stata depositata la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel procedimento C-61/11 PPU, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, proposta dalla Corte d’appello di Trento nell’ambito del procedimento a carico di H.E.D., imputato del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, in relazione alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante "norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare".

Con tale sentenza la Corte europea afferma che "la direttiva 2008/115, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo".

Spetta perciò al giudice nazionale "disapplicare ogni disposizione del decreto legislativo n. 286 del 1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l’art. 14, comma 5-ter, di tale decreto legislativo", tenendo altresì nel debito conto il principio "dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri". La pronunzia richiamata è stata assunta, come detto, in relazione all’ipotesi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter.

A ragione della decisione, la Corte di giustizia ha osservato:

– che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 risponde a una esigenza di "gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato – la concessione di un termine per la sua partenza volontaria – alla misura che maggiormente limita la sua libertà – il trattenimento in un apposito centro, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità";

– che, in quest’ottica, persino il trattenimento, che rappresenta la misura più restrittiva della libertà consentita dalla direttiva, è strettamente regolamentato, quanto a durata e modalità, "allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi" e di "limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo" entro termini ragionevoli – vale a dire non superiori al tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito e i più brevi possibili – in conformità all’ammonizione già impartita dall’ottavo dei "Venti orientamenti sul rimpatrio forzato", adottati il 4 maggio 2005 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa;

– che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere al rimpatrio coattivo conformemente all’art. 8, n. 4 della direttiva, una pena detentiva quale quella prevista dall’art. 14, comma 5-ter, D.Lgs. n. 286 del 1998, "solo perchè un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale", dovendo "essi Stati invece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti";

– che una regolamentazione nazionale quale quella oggetto d’esame finisce per ostacolare la stessa applicazione delle misure di cui all’art. 8, n. 1, della direttiva medesima (in base alla quale "Gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria a norma dell’art. 7, paragrafo 4, o per mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio entro il periodo per la partenza volontaria concesso a norma dell’art. 7") e ritardare l’esecuzione della decisione di rimpatrio.

Se dunque lo scopo della direttiva 2008/115 è quello di garantire che lo Stato membro compia ogni ragionevole sforzo per attuare la politica di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dei paesi terzi e di impedire che la privazione della libertà di costoro si protragga, nonostante l’impegno statuale, oltre limiti accettabili e proporzionati al fine espulsivo concretamente da perseguire, il comando impartito dalla Corte europea al giudice nazionale, di "disapplicare ogni disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998" contraria al risultato che la direttiva intende perseguire.

La decisione della Corte di Giustizia, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell’Unione con effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni, incide sul sistema normativo impedendo la configurabiiità del reato. L’effetto è paragonabile a quello della legge sopravvenuta (cfr. C. Cost. nn. 255 del 1999, 63 del 2003, 125 del 2004 e 241 del 2005, secondo cui "i principi enunciati nella decisione dalla Corte di giustizia si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno, con il valore di jus superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui quella norma conserva efficacia e deve essere applicata anche da parte del giudice nazionale") con portata abolitrice della norma incriminatrice.

Non può a tale proposito ingenerare incertezze il riferimento contenuto, nella sentenza El Dridi, alla applicabilità della "pena più mite". Nell’ordinamento non vi sono ipotesi residuali di reato che possano ritenersi interamente contenute nella contestazione D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 14, comma 5 ter idonee a riespandersi, senza necessità alcuna di integrazione a fronte della disapplicazione della fattispecie in esame.

Il richiamo alle tradizioni costituzionali comuni e ai diritti fondamentali rende per altro evidente che i principi evocati sono quelli elaborati, anche dalla Corte EDU, in tema di art. 7 della Convenzione, mentre la sentenza della CtGUE Iager, pure richiamata (e che tratta di sanzioni amministrative), palesa come nel linguaggio della Corte il termine "pene" si riferisca a qualsivoglia regime sanzionatorio o afflittivo, non necessariamente corrispondente ad un trattamento "penale" secondo l’ordinamento italiano.

In relazione a fattispecie quale quella in esame, realizzata prima della scadenza dei termini per il recepimento della direttiva, deve per conseguenza affermarsi che il fatto non è più preveduto dalla legge come reato. La formula è in linea con quanto già ritenuto, in relazione a ipotesi in qualche modo simile, da questa Corte, sez. 1, sentenza del 20.1.2011, n. 16521, imp. Titas Luca, allorchè ha osservato che la pronunzia della Corte di Giustizia che accerta l’incompatibilità della norma incriminatrice con il diritto europeo (si trattava del caso Schwibbert) "si incorpora nella norma stessa e ne integra il precetto con efficacia immediata" (cfr. Corte Cost. nn. 13 del 1985, 389 del 1989, 168 del 1991), così producendo "una sorta di abolitio criminis" che impone, in forza di interpretazione costituzionalmente necessitata, di estendere a siffatte situazioni di sopravvenuta inapplicabilità della norma incriminatrice nazionale, la previsione dell’art. 673 cod. proc. pen..

L’assimilazione sostanziale e logica dell’accertata incompatibilità ad una abolitio criminis, impone quindi di risolvere il problema che si pone nella presente fattispecie, con la considerazione che fin tanto che il giudicato formale non si è formato, spetta al giudice prendere atto dell’intervenuta abolitio criminis ed annullare la condanna per fatto divenuto privo di rilievo penale (nello stesso senso S.U. De Luca, citata; nonchè S.U. n. 24246 del 25/02/2004, Chiasserini, in tema di remissione di querela; con riferimento al giudizio di rinvio a seguito di annullamento solo per la determinazione della pena S.U. n. 4904 del 26.3.1997; con riferimento al giudizio di rinvio celebrato a seguito di sentenza della Corte di giustizia europea, Sez. 6, n. 41683 del 19.10.2010, Ndaw; Sez. 6, del 5.11.2010, Gargiulo, non massimata). In buona sostanza la corte di cassazione deve rilevare la abolitio criminis sopravvenuta alla sentenza impugnata, indipendentemente dall’oggetto del gravame ed anche per il caso di ricorso inammissibile. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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