T.A.R. Campania Napoli Sez. IV, Sent., 15-06-2011, n. 3184 Concessione per nuove costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Parte ricorrente, proprietario di un fondo ricadente nel complesso denominato "Parco Grazia", in Napoli, Via G. Orsi n. 15, impugnava i titoli abilitativi edilizi (permesso di costruire e relativa variante) rilasciati dal Comune di Napoli per l’edificazione di un fondo confinante.

In particolare, il permesso di costruire e la variante in questione si riferivano al ripristino filologico, comportante la ricostruzione a parità di volumi e superfici di un fabbricato di quattro piani, demolito in forza di licenza edilizia, rilasciata per l’intervento di intera demolizione, il 25 luglio 1963.

Successivamente a detta demolizione, con licenze edilizie n. 707/1968, e n. 361/1968, era stato realizzato sul fondo confinante il complesso denominato "Parco Grazia", costituito da due fabbricati, dove è ubicata l’unità immobiliare di proprietà di parte ricorrente.

In particolare, quest’ultimo impugnava: (i) il permesso a costruire, di cui la disposizione dirigenziale n. 519 del 29.07.2005, relativo ad un intervento di restauro e risanamento conservativo con le modalità del ripristino filologico ai sensi dell’art.11, comma 5, della Variante Generale al P.R.G., per la ricostruzione a parità di volumi e superfici dei quattro livelli originari del fabbricato a destinazione residenziale con l definizione di 7 unità immobiliari e 4 unità commerciali; (ii) la disposizione dirigenziale n. 53 del 5.02.2007 di volturazione del permesso di costruire in favore della Valsuo S.r.l.; (iii) la variante al suddetto permesso di costruire, approvata con la disposizione dirigenziale n. 342 del 3.08.2007, per la realizzazione, sempre a parità di volumi e superfici dei quattro livelli originari, di un numero maggiore di unità immobiliari, corrispondenti a quelli del fabbricato originario, con la definizione di tredici unità abitative e due commerciali, l’inserimento di un ascensore, la riconfigurazione del tetto a falde, il riallineamento della quota di estradosso del secondo piano con quella del cornicione dell’edificio adiacente, la realizzazione di tre livelli di interrati di parcheggi per n.58 posti auto, il tutto senza modifica dell’altezza, delle quote d’imposta dei vari piani e dei prospetti.

Formulava i seguenti motivi di ricorso:

1) L’area per cui sono stati rilasciati i suindicati titoli abilitativi edilizi risulta essere classificata dal vigente P.R.G. quale area necessaria "alla realizzazione di attrezzature pubbliche come immobili reperiti da destinare a spazi pubblici" ed, in sostanza, destinata alla realizzazione di attrezzature pubbliche o assoggettate ad uso pubblico, in conformità con quanto previsto nell’art. 56 della N.T.A..

Tali non sarebbero le opere oggetto del permesso di costruire e della successiva variante che, in quanto volti alla realizzazione di unità abitative e commerciali e box auto pertinenziali, risulterebbero illegittimi

2) Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente deduceva che l’art. 56 della N.T.A. prevede, al comma 3, che per le attrezzature assoggettate ad uso pubblico (ancorchè realizzate da privati) i proprietari devono stipulare con l’Amministrazione comunale apposita convenzione che ne disciplini l’uso.

La procedura per l’approvazione e stipula della convenzione viene disciplinata dalla delibera di G.M. n. 1882 del 23.3.2006 che ne scandisce le fasi.

Nessuna convenzione risulterebbe essere stata stipulata per le opere oggetto dei titoli abilitativi in questione ed, anzi, non sarebbe stata nemmeno avviata la predetta procedura.

3) Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente lamenta che il permesso di costruire e la successiva variante non sarebbero conformi a quanto previsto negli articoli 125 ed 11 delle N.T.A.

In particolare, l’art. 125 delle N.T.A. consentirebbe, nelle unita di spazio recanti (come quella in questione) "ruderi e sedimi risultanti da demolizioni", la realizzazione di interventi di recupero filologico ai sensi dell’art.11, comma 5, delle N.T.A..

Quest’ultimo consentirebbe interventi rivolti a ricostruire l’intero manufatto eventualmente demolito o crollato a condizione che sia possibile attraverso fonti iconografiche, cartografiche fotografiche e catastali, documentarne la consistenza certa ed a patto che ciò avvenga "a parità di superficie utile e volume preesistenti".

La necessità di attenersi alla condizione della parità di superfici e volumi sarebbe inoltre attestata negli stessi titoli abilitativi.

L’immobile assentito dal Comune, invece, differisce notevolmente dall’edificio preesistente per volumi, superfici, sagoma, altezza, quote di imposta, prospetti e consistenza, per cui l’intervento non potrebbe essere ascritto al recupero filologico di cui all’art. 125 delle N.T.A. e, conseguentemente, i titoli in questione risulterebbero illegittimi.

4) Con il quarto ed ultimo motivo di ricorso parte ricorrente deduceva la violazione delle distanze minime tra edifici previste dal D.M. 1444/68 e dal Regolamento edilizio.

L’intervento di ricostruzione autorizzato, difatti, sarebbe in realtà ascrivibile alla categoria edilizia della nuova costruzione e, come tale, sarebbe tenuto al rispetto delle distanze minime tra costruzioni, pari a 10 metri, fissate dall’art.9 del D.M. 1444/68 e dall’art. 68 del Regolamento edilizio.

In tal senso deporrebbero: gli indirizzi giurisprudenziali che classificano come nuova costruzione gli interventi di ricostruzione su ruderi di un edificio già da tempo demolito; il passaggio nel caso di specie di un notevole lasso di tempo (42 anni) tra la demolizione e l’attuale ricostruzione dello stabile; la circostanza che l’immobile assentito differisca dal punto vista sia planovolumetrico che architettonico da quello preesistente.

Si costituiva il Comune di Napoli che eccepiva la tardività del ricorso in quanto il lavori sarebbero stati iniziati in data 27.7.2006 ed, in pari data, sarebbe stato esposto l’apposito cartello di cantiere.

Si costituiva, altresì, la società controinteressata che eccepiva, in via preliminare, l’inammissibilità dell’impugnativa per carenza di interesse e formulava argomentazioni difensive nel merito.

Con atto notificato il 22.11.2010, parte ricorrente, a seguito alla produzione in giudizio di documentazione da parte dell’Amministrazione, proponeva ricorso per motivi aggiunti nei confronti della Disposizione Dirigenziale n.318 dell’1.7.2009, di rettifica del permesso di costruire n.519 del 29.7.2005 e della variante n. 342 del 3.8.2007 e della Disposizione Dirigenziale n. 621 del 14.12.2009 di variante e proroga del permesso di costruire n.519 del 29.7.2005 (già oggetto di variante n. 342 del 3.8.2007).

Evidenziava, in sostanza, il ricorrente che il Comune di Napoli con la Disposizione Dirigenziale n.318 dell’1.7.2009, aveva ritenuto che l’intervento in questione appartenesse alla categoria edilizia della nuova costruzione, soggetto al pagamento del contributo di costruzione, ed aveva rettificato il permesso di costruire n.519 del 29.7.2005, formalmente riqualificando l’intervento come nuova costruzione, ai sensi dell’art.3, comma 1, lett. e del D.P.R. n. 380/2001.

Con la Disposizione Dirigenziale n. 621 del 14.12.2009, il medesimo Comune aveva assentito una ulteriore variante del permesso di costruire n.519 del 29.7.2005 e disposto la proroga dei termini di realizzazione lavori.

Parte ricorrente formulava i seguenti motivi di ricorso:

1) Gli atti gravati sarebbero affetti da illegittimità derivata.

2) La nuova classificazione dell’intervento assentito, quale nuova costruzione, renderebbe palese la sua difformità dall’edificio iniziale oppure, in ogni caso, farebbe emergere la sua contrarietà con la normativa urbanistica (art. 125 delle N.T.A.) che al limite avrebbe consentito su quella zona interventi di ripristino filologico, rientranti nella categoria del restauro e risanamento conservativo, e non un ben diverso intervento di nuova costruzione.

Inoltre la nuova classificazione renderebbe palese la difformità dell’opera assentita con quella preesistente.

3) La classificazione dell’intervento come nuova costruzione paleserebbe in modo ancora più evidente il mancato rispetto delle distanze minime fra costruzioni di cui all’art.9 del D.M. 1444/68 e dall’art. 68 del Regolamento edilizio.

Il Comune e la parte controinteressata depositavano scritti difensivi.

La causa veniva chiamata all’udienza pubblica dell’11.5.2011e trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

1) In primo luogo devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità per carenza di interesse al ricorso ed irricevibilità formulate dal controinteressato e dal Comune intimato.

Entrambi si rivelano infondate.

1.1) Quanto all’eccezione di carenza di interesse al ricorso, parte ricorrente ha dedotto di essere proprietaria di una unità immobiliare sita nel fondo confinante con quello interessato dall’intervento, dolendosi tra l’altro del mancato rispetto delle distanze minime tra edifici imposte dal D.M. 1444/68.

Evidente risulta, quindi, che parte ricorrente sia legittimata alla proposizione del ricorso ricorrendo il requisito della vicinitas, ovverosia una situazione di prossimità all’edificio costruendo e stabile collegamento con la zona incisa, tale da differenziare la posizione giuridica dei ricorrenti rispetto alla generalità dei consociarti intesa come "quisque de populo" (Cons. Stato, Sez. IV, 12 settembre 2007, n. 4821; Cons. Stato, Sez. V, 13 luglio 2000 n. 3904).

Sussiste, altresì, l’interesse a ricorrere, in quanto quest’ultimo è ravvisabile ogni qual volta sia configurabile un’utilità concreta, anche solo di carattere morale, che il ricorrente si ripromette di ottenere dall’accoglimento del ricorso, tenuto conto della situazione giuridica dello stato in cui versa.

Ora già la situazione di vicinitas all’edificio costruendo è tale evidenziare una diretta e concreta lesione degli interessi del ricorrente, derivante dal solo fatto della erigenda costruzione, che si traduce in una evidente utilità nel caso di accoglimento del ricorso

Inoltre, nel caso di specie, avendo parte ricorrente lamentato tra l’altro il mancato rispetto delle distanze minime tra edifici, è ben evidente l’interesse al ricorso risultando palesi i pregiudizi che l’annullamento degli atti gravati andrebbe ad ovviare.

1.2) Quanto all’eccezione di tardività, la stessa è basata sulla circostanza che i lavori sarebbero stati iniziati in data 27.7.2006 ed, in pari data, sarebbe stato esposto l’apposito cartello di cantiere, che avrebbe reso edotto parte ricorrente dell’esistenza del premesso di costruire impugnato e dei suoi contenuti essenziali.

Anche tale eccezione è priva di pregio.

Ai fini della decorrenza del temine a quo per l’impugnativa di un permesso di costruire rilasciato a terzi, l’effettiva conoscenza dell’atto può dirsi conseguita quando la costruzione realizzata riveli in modo certo ed univo le caratteristiche essenziali dell’opera e l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, sicchè, in mancanza di altri in equivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori bensì con il loro completamento, a meno che non si deduca l’inedificabilità assoluta dell’area o analoghe censure, nel qual caso risulterebbe sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso (Cons. Stato, Sez. IV, 8 luglio 2002, n. 3805; Cons. Stato, Sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717)

Inoltre, la mera esposizione del cartello di cantiere recante gli estremi del titolo edilizio non è sufficiente a far decorrere il termine di impugnazione (T.A.R. Liguria Genova, sez. I, 25 gennaio 2010, n. 192; T.A.R. Campania Salerno, sez. II, 30 luglio 2009, n. 4225; T.A.R. Liguria Genova, sez. I, 30 dicembre 2008, n. 2203; T.A.R. Liguria Genova, sez. I, 30 dicembre 2008, n. 2203).

Nel caso di specie parte ricorrente non ha dedotto l’inedificabilità assoluta del fondo bensì che le opere realizzabili dovessero essere destinate alla realizzazione di attrezzature pubbliche o assoggettate ad uso pubblico e, pertanto, l’inizio delle opere non era idoneo a fungere da termine a quo per l’impugnativa.

Nè risulta dagli atti che, ad una data antecedente ai sessanta giorni dalla notifica del ricorso, parte ricorrente avesse avuto piena conoscenza del permesso di costruire con la consapevolezza del contenuto specifico di essa o del progetto edilizio ovvero che la costruzione realizzata rivelasse in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera e la eventuale non conformità della stessa alla disciplina urbanistica.

2) Quanto al merito del ricorso principale, il Collegio ritiene opportuno procedere, per ragioni di economia processuale, in via prioritaria allo scrutinio del quarto motivo di ricorso incentrato sulla violazione delle distanze minime tra edifici previste dall’art.9 del D.M. 1444/68 e dall’art. 68 del Regolamento edilizio, pari a 10 metri.

Il motivo si rivela fondato.

In punto di fatto non appare contestata dalle parti la circostanza del mancato rispetto della distanza minima dei 10 metri tra le costruzioni.

In punto di diritto il Collegio evidenzia il carattere di assolutezza e di inderogabilità delle prescrizioni dettate con il D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, in tema di distanze minime tra i fabbricati.

Le stesse hanno carattere pubblicistico e inderogabile e vincolano anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici; in particolare, quella che prescrive la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti ha carattere di assolutezza ed inderogabilità e risulta dalla citata fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli organi urbanistici locali (T.A.R. Toscana Firenze, sez. III, 22 giugno 2004, n. 2289), rendendo illegitima ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo, essendo consentita alla p.a. solo la fissazione di distanze superiori (T.A.R. Abruzzo Pescara, 9 gennaio 2006, n. 11).

Tale inderogabilità è stata reiteratamente affermata in giurisprudenza anche in recentissime decisioni che hanno puntualizzato come il D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 – emanato in virtù dell’art. 41 quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall’art. 17 l. 6 agosto 1967 n. 765 (c.d. L. Ponte) – ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all’art. 872 c.c.; la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dalla suddetta norma vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. IV – sentenza 19 maggio 2011, n. 1282)

L’art. 9 del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione di un piano regolatore; la prescritta distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, infatti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienicosanitario e della sicurezza, per cui il suo disposto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell’intercapedine stessa (Consiglio Stato, Sez. IV – sentenza 9 maggio 2011, n. 2749).

A questo punto viene in rilievo la questione dell’applicabilità della normativa sulle distanze minime dell’indicato art. 9 del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 all’intervento in esame.

L’articolo in questione prevede la necessità del rispetto della distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti solo per i "nuovi edifici".

Tale necessità non ricorre invece per gli interventi di operazioni di risanamento conservativo o ristrutturazione, ove è sufficiente che le distanze tra gli edifici non siano inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.

Parte ricorrente ha sostenuto l’applicabilità della normativa in questione in virtù del carattere di nuova costruzione dell’intervento assentito.

Parte controinteressata ha sostenuto, al contrario, la non applicabilità della normativa in esame perché, innanzitutto, l’intervento posto in essere non risulta essere una nuova costruzione bensì un mero ripristino, seppure a distanza di tempo, di un edificio preesistente.

Inoltre, la deroga alle distanze legali previste dalla normativa vigente sarebbe del tutto connaturale ad un istituto quale il ripristino filologico introdotto dagli strumenti urbanistici del Comune di Napoli proprio per il recupero di ruderi ed edifici crollati.

In tal senso, quindi, gli strumenti urbanistici comunali nel prevedere, nella parte normativa, il ripristino filologico, configurerebbero, in via sostanzialmente implicita, una deroga al regime delle distanze legali.

Secondo parte controinteressata, inoltre, ipotesi di puntuali deroghe espresse sarebbero inoltre rinvenibili anche nella normativa edilizia comunale (art.3 del Regolamento Comunale).

Peraltro la normativa urbanistica comunale ed, in particolare, l’art. 11 delle N.T.A., espressamente inserisce il ripristino filologico tra gli interventi di quale ipotesi di restauro e risanamento conservativo.

Al riguardo il Collegio osserva che la suindicata inderogabilità da parte degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi comunali della normativa del D.M. n. 1444/68, comporta che l’eventuale introduzione, in via tacita o espressa, da parte della normativa edilizia comunale di deroghe alla normativa nazionale sulle distanze minima, risulterebbe del tutto illegittima e, come tale, la norma comunale andrebbe disapplicata.

Allo stesso modo si evidenzia che il ripristino filologico non è una categoria edilizia definita a cui può ascriversi una determinata disciplina normativa, bensì è un tipo peculiare di intervento previsto della normativa edilizia comunale per la ricostruzione di ruderi o edifici crollati in alcune zone del territorio comunale.

Al fine però di ricondurlo sotto una determinata disciplina, anche per valutare l’applicabilità delle norme sulle distanze legali, è necessario procedere alla sua qualificazione urbanistica sussumendolo sotto una categoria edilizia di intervento edilizio compiutamente disciplinata dalla legislazione vigente.

Norma di riferimento in tal senso non può che essere l’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 che detta le definizioni dei diversi interventi edilizi.

Non può avere pregio, difatti, la qualificazione effettuata dalla normativa edilizia comunale.

L’art. 11, comma 5, delle N.T.A. qualifica espressamente gli interventi di ripristino filologico quali interventi di "restauro e risanamento conservativo".

La stessa disposizione descrive però gli interventi di ripristino filologico quali interventi "rivolti a ricostruire l’intero manufatto, o parti di esso, eventualmente demolito o crollato, purchè sia possibile, attraverso fonti iconografiche, cartografiche, fotografiche e catastali, documentarne la consistenza certa".

L’intervento di ripristino filologico previsto dalle N.T.A. si sostanzia quindi nella ricostruzione di un intero edificio o di sue parti, in quanto oggetto di demolizioni o crolli, purché esistano fonti iconografiche che consentano di ricostruire il fabbricato così come si presentava alle sue origini ed ha ad oggetto (come indicato dall’art. 125 delle N.T.A.) i ruderi ed i sedimi costituiti dai residui di crolli o demolizioni, anche se non necessariamente recenti.

Evidente risulta,quindi, l’erroneità della qualificazione, effettuata dalla N.T.A., delle opere di ripristino filologico in quanto quest’ultimo non può rientrare, a livello concettuale, nell’ambito della categoria del "restauro e risanamento conservativo", costituita, a norma dell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, dagli interventi edilizi "rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio".

Al riguardo si evidenzia che la giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha precisato la nozione di interventi di ripristino di edifici diruti riportandola ad organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura e non totalmente da ricostruire (TAR Campania, Napoli, sezione IV, 14 dicembre 2006 n. 10553) e, correttamente, ha negato che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo (TAR Campania, Napoli, sezione IV, 23 dicembre 2010, n. 28002; T.A.R. Campania Napoli, sez. VIII, 4 marzo 2010, n. 1286; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 9 novembre 2009 n. 7049; TAR Lazio, Latina, 15 luglio 2009, n. 700).

Ancora più evidente è, nel caso di specie, la non sussumibilità delle concrete opere assentite sotto tale ultima categoria, consistendo l’intervento in questione nella ricostruzione di un edificio interamente demolito intervenuta a notevole distanza di tempo (oltre quaranta anni) dalla sua demolizione.

Non può quindi tenersi conto della qualificazione effettuata dalle N.T.A., che vanno sul punto disapplicate, e la riconduzione dell’intervento alle categorie edilizie note va effettuato ai seni del citato art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove la scelta tra le possibili opzioni sono nuova costruzione o ristrutturazione edilizia.

Ai sensi del comma 1, lett. d), dell’art. 3 del predetto D.P.R. n. 380/2001, rientrano, difatti, tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica.

Nei casi di demolizione e ricostruzione, pertanto, la sussumibilità dell’intervento nell’una o nell’atra categoria dipende, pertanto, dalla circostanza se la ricostruzione sia avvenuta con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente ed, in tal senso, la giurisprudenza ha evidenziato la necessità, affinchè si rimanga nell’ambito della categoria della ristrutturazione edilizia, della necessità della fedeltà della ricostruzione del manufatto, ovverosia che sussista piena conformità di sagoma, di volume e di superficie tra il vecchio ed il nuovo manufatto.

La giurisprudenza ha, inoltre, evidenziato l’importanza del fattore temporale nel senso che il concetto di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione e venga effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione (T.A.R. Campania Salerno, sez. II, 21 ottobre 2010, n. 11911).

Ed ancora viene posto il rilievo, accanto al fattore temporale, quello collegato della preesistenza dell’immobile assumendo che una ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare – ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie vigenti al momento della riedificazione (Consiglio Stato, sez. IV, 13 ottobre 2010, n. 7476; T.A.R. Umbria Perugia, sez. I, 05 febbraio 2010, n. 54).

Con specifico riferimento alle norme sulle distanze si è ritenuto costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall’osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell’entità stessa. Ne consegue che, pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie, e, dall’altro, che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell’uomo (Cassazione civile, sez. II, 27 ottobre 2009, n. 22688).

Nel caso di specie la ricostruzione è avvenuta rispetto ad un edificio integralmente demolito più di 40 anni prima.

L’intervento deve considerarsi quindi nuova costruzione ed, in quanto, tale assoggettato alla normativa sulle distanze minime prevista dall’art. 9 del D.M. 1444/68.

Ciò peraltro risulta confermato, con effetto provvedimentale, dalla disposizione dirigenziale n.318 dell’1.7.2009, rispetto alla quale parte ricorrente ha formulato motivi aggiunti, che ha provveduto a rettificare il permesso di costruire n.519 del 29.7.2005 proprio nella parte in cui qualifica l’intervento.

In particolare il provvedimento di rettifica ha riqualificato l’intervento assentito come nuova costruzione.

Ora, alla luce di quanto sopra evidenziato tale classificazione appare corretta e, comunque, il provvedimento di rettifica non risulta essere stato oggetto di impugnativa da parte del controinteressato.

Il motivo va quindi accolto.

3) Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono incentrati sulla destinazione alla realizzazione di attrezzature pubbliche o assoggettate ad uso pubblico dell’area su cui insiste l’intervento assentito.

Al riguardo parte controinteressata ha controdedotto che l’art. 125 delle N.T.A. prevede, al comma 6, una deroga temporalmente limitata al regime di destinazione di carattere pubblico delle opere realizzabili sulla zona, facendo salva la facoltà, per proprietari di unità di spazio su cui insistono ruderi e sedimi derivanti da crolli o demolizioni avvenute a seguito di ordinanza sindacale, di presentare i progetti di ricostruzione ai sensi del presente articolo entro un anno

Ha affermato quindi che il permesso di costruire in questione rientrasse in tale fattispecie essendo stata presentata la domanda entro l’anno indicato dalla suddetta norma

Ha dedotto in senso contrario parte ricorrente che tale previsione ha carattere derogatorio eccezionale e riguarderebbe esclusivamente gli edifici interessati da crolli o demolizioni avvenute a seguito di ordinanza sindacale mentre nel caso in questione l’immobile è stato demolito volontariamente dal proprietario previo rilascio di una licenza edilizia per le opere di demolizione.

I motivi in questione risultano essere infondati.

La previsione di cui all’art. 125 delle N.T.A. non ha carattere eccezionale bensì esclusivamente derogatorio, limitandosi semplicemente a circoscrivere gli effetti conformativi in ipotesi determinate, con conseguente possibile applicazione analogica.

Il Collegio osserva come non si vede la ragione per escludere da tale previsione i casi in cui la demolizione sia stata effettuata non coattivamente o derivi da crollo naturale rispetto a quelli in cui la demolizione è stata effettuata dal proprietario previa richiesta di una regolare licenza edilizia.

Escludere in queste ultime ipotesi la possibilità del ripristino filologico configurerebbe, difatti, una ingiustificata deminutio delle facoltà del proprietario ed un detrimento della sua posizione sostanziale, in casi un cui quest’ultimo ha comunque operato in modo rispettoso della normativa edilizia, rispetto ad altre ipotesi in cui per la demolizione è stata necessaria un’ordinanza sindacale o vi sia stato un crollo magari derivante dallo stato di abbandono dell’immobile.

Ciò a maggior ragione tenuto conto che la demolizione previo ottenimento di un permesso di costruire è il mezzo più corretto per porre rimedio a situazioni di rovina dell’edificio ed evitare il crollo naturale.

4) Quanto al terzo motivo del ricorso principale, a fronte delle diverse ricostruzioni dei fatti fornite delle parti, l’accertamento della circostanza che il permesso di costruire e le successive varianti rispettino la condizione della parità di superficie utile e volume preesistenti comporterebbe l’espletamento di ulteriori mezzi istruttori che il Collegio, anche per ragioni di economia processuale, non ritiene di dover disporre restando il medesimo motivo assorbito dall’accoglimento del ricorso principale per la doglianza di mancato rispetto delle distanze formulata nel quarto motivo di ricorso, secondo quanto indicato nel precedente punto 2.

5) Per quanto riguarda il ricorso per motivi aggiunti ne va innanzitutto precisato l’oggetto.

Parte ricorrente difatti ha richiamato la disposizione dirigenziale n.318 dell’1.7.2009, di rettifica del permesso di costruire n.519 del 29.7.2005, non al fine di impugnarla, chiedendone l’annullamento, bensì quale atto da cui trarre ulteriori motivi di illegittimità dei provvedimenti gravati nel ricorso principale ed, in particolare, ha evidenziato che la rettifica del titolo edilizio dell’intervento con la classificazione della nuova costruzione costituiva ulteriore ragione al fine di comprovare l’incompatibilità dell’intervento assentito con gli strumenti urbanistici edificio ed il mancato rispetto da parte del permesso di costruire delle distanze minime tra edifici dettate dall’art. 9 del D.M. 1444/68.

In tal senso la censura ha trovato soddisfazione con l’accoglimento del ricorso principale.

Quanto all’impugnativa della disposizione dirigenziale n. 621 del 14.12.2009, di variante e proroga del permesso di costruire n.519 del 29.7.2005, la stessa va accolta in quanto il provvedimento gravato con motivi aggiunti risulta illegittimo per invalidità derivata in seguito all’accoglimento del ricorso principale e l’annullamento del permesso di costruire.

6) Il ricorso principale e quello per motivi aggiunti vanno quindi accolti.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso principale ed il ricorso per motivi aggiunti sul ricorso, come in epigrafe proposti, e, per l’effetto, annulla gli atti impugnati, per le ragioni e nei termini di cui in parte motiva.

Condanna il Comune di Napoli e la società controinteressata Valsuo S.r.l al pagamento, in favore di parte ricorrente,, delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi euro 2.000,00 oltre IVA e CPA, in misura di euro 1.000,00 per ciascuna delle suddette parti condannate alla refusione delle spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *