T.A.R. Campania Napoli Sez. IV, Sent., 15-06-2011, n. 3183 Motivazione dell’atto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società DOL.TAR. S.n.c. di T.A. & C. è conduttrice di un locale di proprietà di Gennaro, Luigi e Giuseppe Capodanno, sito nel seminterrato di un fabbricato, in Napoli, in via Scarlatti n.55 -57, edificato in forza di licenza edilizia n. 85° dell’1.9.1961.

Tale locale, riferiscono i ricorrenti, era stata adibito da epoca remota e sino al 2005 a sala da gioco aperta al pubblico, in possesso di regolare licenza rilasciata dal Comune di Napoli.

In data 14.6.2005, la DOL.TAR. S.n.c. presentava una denuncia di inizio attività (di seguito anche "D.I.A."), di cui alla pratica n.397/05, avente ad oggetto la realizzazione di lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, dichiarando di voler mutare la destinazione del locale – classificato catastalmente quale deposito – adibendolo ad uso di supermercato.

Trascorso il termine di trenta giorni previsto per l’esercizio del potere inibitorio da parte del Comune, la DOL.TAR. S.n.c. realizzava gli interventi in questione.

La medesima società inviava inoltre, ai sensi dell’art.7 del D.Lgs. n.114/1998, una comunicazione di apertura di esercizio di vicinato per la vendita al dettaglio di prodotti alimentari e non alimentari. Il Comune di Napoli, con provvedimento n.703 del 9.12.2005, dichiarava l’inefficacia giuridica della suddetta comunicazione di vicinato ed ingiungeva la cessazione dell’attività commerciale per "la mancata sussistenza del requisito della conformità urbanistico edilizia del locale" a causa della "difformità in ordine alla destinazione d’uso dell’immobile".

La DOL.TAR. S.n.c. impugnava dinanzi a questo T.A.R. il suddetto provvedimento con ricorso iscritto al R.G. n.9210/05, ottenendo l’ordinanza sospensiva n. 130 del 12.1.2006.

I proprietari del locale Gennaro Capodanno, Giuseppe Capodanno e Luigi Capodanno intervenivano in giudizio ad adiuvandum.

Con successivi provvedimenti il Comune di Napoli disponeva l’annullamento della suindicata pratica D.I.A. n.397/05 e rinnovava sia la dichiarazione di inefficacia giuridica della comunicazione di vicinato prot. n. 2883 del 5.8.2005, sia l’ordine di chiusura dell’esercizio commerciale.

Questi ultimi provvedimenti venivano impugnati, con ricorso per motivi aggiunti, nell’ambito del suindicato giudizio di cui al R.G. n.9210/05.

L’adito T.A.R., con l’ordinanza n.115/2009, denegava la rinnovata istanza di tutela cautelare.

A questo punto la DOL.TAR. S.n.c. presentava, in data 18.9.2008, al Comune di Napoli un’istanza di accertamento di conformità, espressamente facendo presente che la richiesta era stata avanzata a scopo tuzioristico al solo fine di definire il contenzioso in essere con il Comune e dichiarando di non prestare acquiescenza rispetto ai provvedimenti impugnati, né rispetto alle contestazioni sollevate per quanto riguarda la conformità urbanistica del locale, la destinazione commerciale del medesimo, nonché l’assentibilità della comunicazione di apertura di esercizio di vicinato formulata il 5.8.2005.

In particolare l’istanza aveva ad oggetto:

(i) l’accertamento di conformità, ex art. 36 del D.P.R. n.380/2001, del mutamento di destinazione d’uso impresso all’unità immobiliare, della realizzazione di un grillage e di alcune variazioni interne operate nel locale.

(ii) la richiesta dell’irrogazione di una sanzione pecuniaria in alternativa alla demolizione, ai sensi dell’art. 34 del D.P.R. n.380/2001, per un incremento volumetrico realizzato nel locale in difformità alla licenza edilizia e la realizzazione di una tettoia.

Motivava quest’ultima richiesta con l’impossibilità di procedere al ripristino dello stato dei luoghi, relativamente ai realizzati incrementi di cubatura ed alla tettoia, senza pregiudizio della parte eseguita in conformità al permesso di costruire.

L’adito T.A.R., con sentenza n. 4662/2009, definiva il suindicato giudizio di cui al R.G. n.9210/05, dichiarando improcedibile il ricorso principale ed in parte improcedibile ed in parte respinto il ricorso per motivi aggiunti.

In particolare, secondo la suddetta sentenza, l’improcedibilità del ricorso principale derivava dalla circostanza che i provvedimenti impugnati con i motivi aggiunti "(annullamento della DIA e dichiarazione di inefficacia della comunicazione di esercizio di vicinato) anche in quanto in parte ripetitivi del contenuto e dei rilievi ostativi precedenti" avevano superato ed assorbito "quello impugnato con il ricorso introduttivo (dichiarazione di inefficacia della comunicazione di esercizio di vicinato)".

Per quanto riguarda il ricorso per motivi aggiunti, l’improcedibilità riguardava i profili inerenti alle "violazioni della normativa urbanistica – in primis per un preteso cambio di destinazione d’uso non autorizzato" e dipendeva dall’indicata presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, aderendo il Collegio "all’indirizzo – conforme peraltro a quello assolutamente prevalente in giurisprudenza – per il quale la presentazione nelle more del giudizio di un’istanza di sanatoria produce l’effetto di rendere inefficace il precedente provvedimento negativo – sanzionatorio ovvero, come nella specie, di ritiro della precedente abilitazione – e, quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse (ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 12 novembre 2008, n. 5646; questa sezione n. 1177 e n. 12315 del 2008; sez. IV n. 17863/2005, n. 11983/2004, n. 9421/2004, sez. II n. 16670/2007)".

In data 9.10.2008, la Commissione Edilizia del Comune si esprimeva in senso favorevole all’accertamento di conformità per il cambio di destinazione d’uso, sulla base della motivazione che "l’immobile in questione non si configura come volume tecnico ma come un locale destinato alla stabile permanenza di persone e cose", ritenendo che la sua utilizzazione come supermercato non determinasse un incremento dei volumi preesistenti e che, pertanto, l’intervento fosse conforme all’art.33, comma 2, della Variante al PRG.

Nondimeno, con nota prot. 3591 dell’11.12.2008, il Dirigente del Servizio Edilizia Privata del Comune di Napoli comunicava, ai sensi dell’art.10 bis della legge n.241/1990, il preavviso di rigetto dell’istanza di accertamento di conformità.

Conseguentemente, con Disposizione Dirigenziale n. 143 del 27.3.2009, il Comune di Napoli rigettava l’istanza di accertamento di conformità ed ordinava il ripristino dello stato dei luoghi.

In particolare, la suddetta Disposizione Dirigenziale motivava il rigetto evidenziando che:

"- le opere oggetto dell’istanza consistono nella trasformazione di un ampio locale, in gran parte interrato, costruito in uno con il sovrastante fabbricato multipiano residenziale, da deposito ad attività commerciale e nella realizzazione di opere interne;

– tale locale, in difformità dalla licenza edilizia relativa all’intero fabbricato, risulta ampliato lungo il lato prospiciente alla rampa d’ingresso;

– la trasformazione di un locale accessorio interrato in un locale utilizzato per lo svolgimento di attività commerciale comporta un incremento di volume; inoltre vi è contrasto con l’art.21 del Regolamento Edilizio che non consente la realizzazione di interventi su manufatti interessati da abusi edili, se non previa eliminazione o sanatoria degli stessi;

– il comma 2, dell’art.124 della Variante Generale vigente consente, per le unità edilizie di recente formazione ricadenti al di fuori del perimetro del centro storico, come delimitato dal P.R.G. del 1972, interventi fino alla ristrutturazione edilizia a parità di volumi e non nuovi volumi. I depositi interrati, a norma degli artt. 3 del Regolamento Edilizio e 7 della Variante Generale, sono esclusi dal calcolo del volume degli edifici".

La DOL.TAR. S.n.c. impugnava, con il ricorso di cui al presente giudizio (iscritto al R.G. 3241/2009) il suindicato provvedimento, chiedendone l’annullamento, previa sospensione, per i seguenti motivi:

A) Con riferimento alla destinazione d’uso dell’unità immobiliare detenuta in locazione:

I) Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente lamentava, in sostanza, che il Comune non avesse preso in considerazione la circostanza che il locale in questione era stato già da tempo adibito ad una destinazione commerciale.

In particolare, il locale sarebbe stato stabilmente utilizzato per attività ricreativa ed adibito a sala giochi, aperta al pubblico e regolarmente autorizzata, sin dagli anni "60.

II) La società ricorrente, nel secondo motivo di ricorso, deduceva che, anche a voler considerare come avvenuto il cambio di destinazione d’uso dell’immobile in questione da deposito a fini commerciali, non si sarebbe realizzata una abusiva trasformazione di un locale accessorio in un locale commerciale e non sarebbe, quindi, configurabile il supposto incremento di volume.

Difatti, il mutamento di destinazione d’uso del locale era avvenuto in epoca anteriore all’introduzione dell’obbligo di titolo autorizzativo per tali mutamenti e precedente anche all’adozione del vigente Regolamento edilizio (1999) ed alla Variante Generale al P.R.G. (2004), che hanno escluso i volumi interrati dal novero dei volumi suscettibili di uso autonomo.

Il Comune, quindi, nel decidere sull’istanza di accertamento di conformità sarebbe stato tenuto solo a verificare se la destinazione attuale di esercizio di vicinato sia compatibile con gli strumenti urbanistici vigenti, che consentono la destinazione a fini commerciali.

III) Con il terzo motivo di ricorso la società ricorrente contestava che l’art.7 della Variante Generale al PRG e l’art. 3 del Regolamento Edilizio impediscano un uso autonomo (nella specie l’uso a fini di esercizio commerciale) dei volumi interrati.

B) Con riferimento alle opere oggetto di richiesta di applicazione di sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione:

IV) Con il quarto motivo di ricorso, la società ricorrente deduceva l’illegittimità del provvedimento per aver fatto rientrare la distinta richiesta di applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, relativa agli interventi comportanti l’aumento volumetrico del locale, nell’ambito del rigetto dell’istanza di accertamento di conformità,in applicazione della disciplina dell’art. 36 del D.P.R. n.380/2001.

In realtà, relativamente a queste opere, non sarebbe stato richiesto l’accertamento di conformità, bensì una separata istanza di applicazione di una sanzione pecuniaria al posto di una sanzione ripristinatoria, in virtù di quanto disposto dell’art. 34 del D.P.R. n.380/2001, e, pertanto, risulta erroneo il comportamento dell’Amministrazione che, snaturando il contenuto di tale istanza, si è pronunciata in modo globale sul diniego dell’accertamento di conformità, riconducendo l’intera fattispecie nell’ambito dell’art. 36 del D.P.R. n.380/2001, senza prendere in considerazione tale specifica domanda.

Lamentava, altresì, la violazione dell’art. 34 del D.P.R. n.380/2001, deducendo l’illegittimità del provvedimento in quanto sarebbe risultato evidente che le opere in questione non potessero essere ridotte in pristino senza pregiudizio della parte eseguita in conformità a regolare titolo abilitativo edilizio.

Inoltre, il Comune di Napoli avrebbe omesso del tutto di pronunciarsi anche sulla richiesta ricevuta relativamente alla "tettoia in ferro e plexiglas" sormontante l’ingresso dell’esercizio commerciale, anch’essa oggetto di richiesta di applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria.

C) Con riferimento alle opere edilizie oggetto di richiesta di accertamento di conformità urbanistica:

V) Con il quinto motivo di ricorso la società ricorrente deduceva che l’Amministrazione avrebbe omesso di pronunciarsi in ordine all’accertamento di conformità delle opere di manutenzione ordinaria e straordinaria e del grillage.

Né, comunque, secondo parte ricorrente, risulterebbe al riguardo risolutivo, al fine di giustificare un diniego sull’istanza, il riferimento all’art. 21 del Regolamento Edilizio che "non consente la realizzazione di interventi su manufatti interessati da abusi edilizi, se non previa eliminazione o sanatoria degli stessi" in quanto, da un lato, la norma si riferisce solo agli immobili costruiti successivamente all’entrata in vigore della legge n.765 del 6.8.1967 e, dall’altro, la società ricorrente aveva chiesto espressamente la sanatoria degli abusi stessi e, quindi, il citato art. 21 non poteva precludere l’accertamento di conformità.

Si costituiva il Comune di Napoli spiegando argomentazioni difensive.

Si costituivano in giudizio, ad adiuvandum, i proprietari dell’immobile in questione, Gennaro, Luigi e Giuseppe Capodanno.

Con ricorso notificato a mezzo posta il 15.6.2009 (iscritto al R.G. 3700/2009), Gennaro, Luigi e Giuseppe Capodanno, nella già indicata qualità di comproprietari dell’immobile, impugnavano la medesima Disposizione Dirigenziale n. 143 del 27.3.2009 di rigetto di istanza di accertamento di conformità ed ordine di ripristino dello stato dei luoghi, chiedendone l’annullamento, previa sospensione, per i motivi che seguono.

1) Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentavano la violazione di legge e falsa applicazione dell’art.7 della legge n.241/90, per aver l’Amministrazione omesso la comunicazione di avvio del procedimento che aveva portato al provvedimento gravato, impedendo agli stessi di fornire il proprio apporto partecipativo in sede procedimentale.

2) Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti deducevano l’erroneità dell’assunto dell’Amministrazione, posto a base del provvedimento impugnato, che l’immobile avesse avuto un’originaria destinazione non commerciale ("deposito").

Il locale in questione sarebbe stato, difatti, ininterrottamente utilizzato, sin dal 1963, come sala giochi, ottenendo sempre le relative autorizzazioni commerciali.

3) Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentavano ancora la violazione dell’art. 34 del D.P.R. n.380/2001 e la conseguente illegittimità del provvedimento demolitorio in quanto, nel caso di specie, risulterebbe evidente che le opere in questione non sarebbero potute essere ridotte in pristino senza pregiudizio della parte eseguita in conformità a regolare titolo abilitativo edilizio.

Evidenziavano, infine, che il provvedimento ripristinatorio era stato loro impropriamente notificato, Deducevano, difatti, i ricorrenti di essere rimasti del tutto estranei alla procedura relativa all’accertamento di conformità, non avendo peraltro ricevuto né la comunicazione di avvio ex art.7 della legge n.241/90, né il preavviso di rigetto, ai sensi dell’art.10 bis della medesima legge n.241/90.

Si costituiva in giudizio ad adiuvandum la DOL.TAR. S.n.c.

Si costituiva in giudizio il Comune di Napoli spiegando argomentazioni difensive.

Con successivo atto, notificato il 3.11.2009, i ricorrenti proponevano ricorso per motivi aggiunti chiedendo l’accertamento della destinazione urbanistica commerciale del locale seminterrato sito in Napoli, in Via Scarlatti, 57, nonchè l’annullamento, per quanto di ragione, della Disposizione Dirigenziale n. 7 del 30.4.2008, nella parte in cui aveva assunto che "dalla visione del grafico di sezione della licenza edilizia risulta il locale destinato a deposito merci non infiammabili e non….adibito ad attività commerciale".

Supportavano il ricorso per motivi aggiunti con le seguenti argomentazioni.

1) Deducevano, innanzitutto, la loro legittimazione ad intentare un’azione autonoma di accertamento ed, in particolare, il loro interesse e diritto ad ottenere la declaratoria inerente alla destinazione commerciale dell’immobile.

2) Lamentavano che la dicitura riportata nel grafico di progetto di "deposito merci non infiammabili" non costituisse la destinazione urbanistica conferita al locale, bensì tale indicazione fosse stata posta esclusivamente in relazione alle prescrizioni poste nel nulla osta rilasciato dal Comando dei VV.FF., tra le quali la prescrizione "che i locali non vengano adibiti ad autorimessa o a deposito di materiali comunque infiammabili".

Evidenziavano, altresì, il profilo del principio di buona fede e legittimo affidamento, nonché della mancata ponderazione tra l’interesse pubblico e l’interesse dei ricorrenti.

Puntualizzavano, infine, che il locale era stato già adibito da tempo risalente all’attività commerciale, evidenziando il classamento catastale C1 dell’immobile.

Con atto del 9.7.2009 i ricorrenti depositavano istanza di riunione del giudizio con il procedimento di cui al R.G. 3241/09 e con successivo atto, depositato il 27.11.2009, rinunciavano alla suddetta istanza di riunione.

Il Comune intimato formulava argomentazioni difensive sia in ordine al ricorso principale che a quello per motivi aggiunti.

L’adito T.A.R., con ordinanza collegiale n. 305/2010, riconosciuta la connessione dei due procedimenti, in quanto aventi ad oggetto gli stessi provvedimenti impugnati ed i medesimi supposti abusi edilizi, nonché in ragione della comunanza di parti, disponeva la riunione del ricorso di cui al RG. 3700/09 al ricorso di cui al RG. 3241/09.

Con la medesima ordinanza collegiale n. 305/2010, il Collegio ordinava all’Amministrazione:

– di fornire chiarimenti in ordine (i) all’effettivo utilizzo del locale in questione sin dagli anni 1960 quale sala gioco e se tale utilizzo fosse configurabile quale destinazione ad uso commerciale dell’immobile; (ii) alla destinazione catastale d’uso iniziale del locale in questione ed ai suoi successivi mutamenti; (iii) alla data a partire dalla quale si è reso necessario nella zona interessata un titolo abilitativo per il cambio di destinazione d’uso dell’immobile da deposito a locale con destinazione commerciale, anche eventualmente alla luce del regolamento edilizio del Comune di Napoli del 1935;

– di produrre copia del regolamento edilizio del Comune di Napoli del 1935.

L’Amministrazione ottemperava provvedendo al deposito dei chiarimenti e della richiesta documentazione in data 10.5.2010.

Successivamente, con ordinanza collegiale n. 942/2010, l’adito T.A.R., "considerato che il Collegio ritiene necessario, ai fini del decidere, acquisire dal Comune di Napoli ulteriori chiarimenti in ordine alle seguenti circostanze: (i) da quali specifici elementi e/o documenti risulti la destinazione a fini edilizi di deposito dei locali oggetto del contendere, rispetto alla quale si contesta l’intervenuto cambio di destinazione di uso; (ii) alla data a partire dalla quale, con riferimento ai regolamenti edilizi o altre disposizioni urbanistiche locali succedutesi nel tempo, è stato previsto che i depositi interrati siano esclusi dal calcolo del volume degli edifici" ordinava al Comune di Napoli di fornire i suddetti chiarimenti.

L’Amministrazione ottemperava provvedendo al deposito dei richiesti chiarimenti in data 17.1.2011.

I ricorsi riuniti venivano chiamati all’udienza pubblica del 22 febbraio 2011 e trattenuti in decisione.
Motivi della decisione

1) Il Collegio, prima di entrare nel merito dello scrutinio dei motivi del ricorso di cui al RG. 3241/2009 e del ricorso di cui al R.G. 3700/2009, ritiene di dover puntualizzare, in via preliminare, alcune circostanze in fatto – così come emerse dagli atti del giudizio e ritenute quindi come accertate in base ad un prudente apprezzamento degli elementi istruttori – ed alcuni presupposti in punto di diritto che, da una parte, precisano i termini delle controversie in esame e, dall’altra, sono stati posti a base del giudizio in ordine alla fondatezza dei motivi dei ricorsi scrutiniati.

L’oggetto dei suddetti ricorsi è l’impugnativa di un diniego di un’istanza di accertamento di conformità, che era stata dai ricorrenti formulata unitamente ad una domanda di applicazione di una sanzione pecuniaria in luogo di un provvedimento di riduzione in pristino per alcune opere abusive.

In particolare, con istanza del 18.8.2008, la S.n.c. Dol.Tar. di T.A. e C, oggi ricorrente, chiedeva l’accertamento di conformità per un "cambio di destinazione d’uso del locale da deposto ad attività commerciale" e per "opere eseguite senza titolo" nonché "l’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione per le opere eseguite (all’epoca della costruzione dell’intero fabbricato) in difformità alla licenza edilizia il tutto come riportato nella istanza di accertamento di conformità sottoscritta dall’amministratore della società ricorrente e nell’allegata relazione tecnica sottoscritta dall’Arch. Livia Napolitano".

Lo scrutinio dell’istanza di accertamento di conformità da parte dell’Amministrazione è, quindi, avvenuto sulla base della prospettazione formulata dalla stessa Dol.Tar. S.n.c. con la presentazione nella domanda di "sanatoria".

Quest’ultima era stata espressamente presentata al fine di poter sanare un cambio di destinazione d’uso da deposito a locale adibito ad attività commerciale e l’Amministrazione si è quindi determinata sulla base del presupposto che vi fosse stato abusivo mutamento di destinazione d’uso che necessitasse di un provvedimento di sanatoria.

La valutazione di conformità da parte del Comune è stata, quindi, effettuata sull’assunto dell’abusività del cambio di destinazione d’uso dell’immobile e, su tale base, l’Amministrazione si è limitata a prendere atto della circostanza che il mutamento di destinazione d’uso del locale non sarebbe attualmente compatibile con gli strumenti urbanistici vigenti, così addivenendo ad un provvedimento di diniego.

Partendo da tali premesse il diniego si paleserebbe come del tutto consequenziale.

L’accertamento di conformità deve avere riguardo, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n.380/2001, alla doppia conformità delle opere al momento della sua realizzazione ed allo stato attuale.

Per quanto riguarda la conformità allo stato attuale, l’art.3 del Regolamento Edilizio e l’art.7 della Variante Generale al PRG, prevedono che venga escluso dal calcolo del volume, il volume entroterra misurato rispetto alla superficie del terreno circostante secondo la sistemazione prevista dal progetto approvato, se costituente Snr (superficie non residenziale) o Sa (superficie accessoria), o parcheggi pertinenziali.

La superficie non residenziale (Snr) è la superficie destinata a servizi ed accessori, a stretto servizio delle residenze, misurata al netto delle murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre, tra cui, tra l’altro, cantinole e depositi anche in sottotetti purché praticabili.

La superficie accessoria (Sa) è la superficie destinata a servizi ed accessori, a stretto servizio delle attività non residenziali (produttive, turisticoricettive, terziarie, commerciali, direzionali) misurata al netto delle murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre, tra cui, tra l’altro, depositi, magazzini, archivi, purché interrati.

In punto di diritto, quindi, per quanto indicato, un locale deposito realizzato nella parte interrata di un edificio e posto a servizio dello stesso non costituisce volumetria e la sua trasformazione d’uso in locale commerciale comporta un aumento di volumetria non consentito dall’art.33, comma 2, della Variante Generale al PRG.

Quest’ultimo, difatti, per la zona in questione (Sottozona Bb – Espansione recente) prevede che "sono ammessi interventi fino alla ristrutturazione edilizia a parità di volume".

Il cambio di destinazione d’uso per il quale era stato chiesto l’accertamento di conformità non risulterebbe, quindi, conforme alle prescrizioni urbanistiche allo stato vigenti e, pertanto, qualora fosse corretto il presupposto della sua abusività, sarebbe pienamente giustificato il suo diniego, non essendo consentito dalla normativa attualmente in vigore un intervento di tale genere nell’immobile indicato.

Non é inoltre sostenibile, come invece dedotto dai ricorrenti, la mancanza di accessorietà tra il locale deposito in questione e le unità dello stabile sovrastante, in quanto, come appena accennato, la realizzazione di un locale destinato a deposito nella parte interrata di uno stabile rende del tutto ragionevole dedurre che tale locale sia stato realizzato come a servizio delle unità del medesimo edificio.

Né l’accessorietà del locale deposito interrato rispetto alle abitazioni o alle attività non residenziali e, comunque, il rapporto di stretto servizio con le unità edilizie del sovrastante stabile, può ritenersi esclusa per la sola circostanza, indicata dalla DOL.TAR. s.n.c., che il locale in questione avesse un accesso autonomo rispetto allo stabile cui accedeva.

La realizzazione di un intervento di cambio di destinazione d’uso come quello in questione non risulterebbe, quindi, in questo momento compatibile con le indicate prescrizioni urbanistiche e, pertanto, qualora fosse stato in passato abusivamente realizzato (come dato per presupposto dal Comune), non sarebbe allo stato attuale possibile oggetto di un accertamento di conformità.

Il giudizio negativo sull’istanza dell’accertamento di conformità ben può difatti essere assunto sulla base della considerazione che gli strumenti urbanistici vigenti al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria non consentono l’intervento abusivo oggetto della domanda.

2) Quanto anzidetto non comporta, però, la correttezza nel caso di specie dell’operato dell’Amministrazione perché nella fattispecie in esame difettava proprio il presupposto dell’abusività dell’intervento di cambio di destinazione d’uso del locale da deposito ad uso commerciale.

Venendo meno, per le ragioni che si andranno di seguito ad indicare, tale presupposto il provvedimento di diniego dell’Amministrazione risulta essere errato, in quanto preso sulla base meramente formale della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, senza alcuna indagine specifica sul significato e contenuto di tale istanza.

Ed a maggior ragione si presenta come illegittima la sanzione del rinnovo dell’ordine di demolizione comminata unitamente al diniego di sanatoria, quale conseguenza di quest’ultimo.

Difatti, se il giudizio negativo sull’istanza dell’accertamento di conformità può essere teoricamente effettuato sulla base della sola considerazione che attualmente gli strumenti urbanistici vigenti non consentono il cambio di destinazione d’uso richiesto, la valutazione inerente la comminabilità della sanzione demolitoria dove porsi la questione dell’effettività della commissione dell’abuso e non può essere in ogni caso disposta dove tale abuso risulti essere inesistente.

Ciò in quanto i presupposti del rigetto dell’accertamento di conformità (impossibilità in base agli strumenti urbanistici attuali di effettuare il cambio di destinazione d’uso) non coincidono con i presupposti per la comminazione di una sanzione demolitoria (concreto verificarsi di un abusivo cambio di destinazione d’uso).

Nel caso di specie si ritiene come manchi proprio la commissione di un abusivo cambio di destinazione d’uso.

Vero è che la la DOL.TAR. S.n.c. ha presentato una istanza di accertamento di conformità.

A parere del Collegio, però, non basta la mera presentazione di una istanza formalmente qualificata come di accertamento di conformità, ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, per ritenere acclarata l’abusività delle opere a cui tale istanza è riferita.

Seppure, difatti, la presentazione di un accertamento di conformità può avere un effetto confessorio del commesso abuso (come ben puntualizzato in parte motiva dalla stessa suindicata sentenza di improcedibilità di questo T.A.R. n. 4662/2009), tale effetto non si ritiene si sia verificato nel caso in esame, poiché in sede di presentazione dell’accertamento di conformità, parte ricorrente ha ribadito e precisato l’inesistenza di un abusivo cambio di destinazione d’uso delle opere.

Al riguardo, l’istanza di accertamento di conformità faceva espressamente presente che la sua presentazione era stata effettuata al solo scopo di definire sollecitamente il contenzioso in atto con il Comune, senza alcuna acquiescenza nei confronti delle contestazioni sollevate dall’Ente pubblico anche in ordine alla destinazione commerciale del locale.

Allo stesso modo la relazione tecnica sottoscritta dell’Arch. Livia Napolitano, allegata all’istanza di accertamento di conformità (all. 4 del ricorrente nel giudizio di cui al R.G. 3241/2009), non ammetteva l’intervenuto cambio di destinazione d’uso, né tantomeno la sua abusività, ed anzi specificava, in senso contrario, che non fosse esclusa la destinazione commerciale dello stesso, insistendo sulla sua valenza di volume utile e non volume accessorio dei locali sin dal momento della loro costruzione.

L’effetto confessorio, difatti, può normalmente presumersi in caso di presentazione di un’istanza di accertamento di conformità, costituendo la perpetrazione dell’abuso il presupposto stesso dal punto di vista sia logico che giuridico per la presentazione della domanda di sanatoria.

Tuttavia un tale effetto non può farsi discendere, in modo indefettibile ed automatico, dalla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, al punto da far perdere di rilevanza al contenuto reale dell’istanza stessa qualora il proponente, ancorchè chieda formalmente il provvedimento di sanatoria, affermi in modo inequivoco l’insussistenza dell’abuso edilizio.

L’effetto confessorio connesso alla presentazione di un’istanza di sanatoria può e deve essere desunto, difatti, secondo termini di ragionevolezza, nel senso che potrà essere normalmente riconnesso alla presentazione dell’istanza, salvo che il proponente non manifesti, in sede di presentazione dell’istanza stessa, espresse e motivate dichiarazioni in senso contrario all’abusività dell’opera.

Nel caso in questione, inoltre, vi è l’ulteriore non trascurabile circostanza che l’ordinanza di ripristino va indubbiamente a ledere gli interessi anche dei proprietari dell’immobile, anch’essi ricorrenti, che non hanno presentato l’istanza di accertamento di conformità (proposta dalla società locatrice dei locali) e rispetto ai quali, pertanto, la predetta istanza non può spiegare alcun effetto confessorio in ordine alla realizzazione dell’abuso.

L’Amministrazione di fronte al concreto tenore dell’istanza di accertamento di conformità formulata non si sarebbe dovuta fermare al mero aspetto formale della presentazione della domanda per ritenere accertata l’abusività del cambio di destinazione d’uso, ma avrebbe dovuto prendere in esame le circostanze dedotte dal ricorrente e la situazione complessiva degli atti in suo possesso, al fine di verificare l’esistenza dei presupposti per la pronuncia di accertamento di conformità ed, in ogni caso, per l’adozione di un ordine demolitorio.

Tale verifica del reale contenuto dell’istanza avrebbe potuto portare a riqualificare l’istanza di accertamento presentata quale richiesta di riesame in ordine alle misure sanzionatorie da adottare, in quanto non è stato dedotto alcun perpetrato abuso.

In ogni caso la verifica concreta della mancata commissione dell’abuso avrebbe comportato l’inammissibilità stessa dell’accertamento di conformità (non il suo rigetto) e l’impossibilità di disporre la demolizione, in quanto, come indicato, tale misura demolitoria presuppone la commissione di un abuso edilizio e non discende automaticamente dal rigetto dell’accertamento di conformità (seppure tali condizioni nella maggioranza dei casi coesistono).

3) Venendo al merito della questione della commissione dell’abusivo cambio di destinazione d’uso, nei ricorsi introdotti è stata decisamente negata che la destinazione iniziale dei locali in oggetto fosse quella di deposito ed i ricorrenti hanno affermato che, in ogni caso, i locali sono sempre stati utilizzati, sin dalla loro realizzazione e con continuità, come sala giochi, con una destinazione quindi assimilabile a quella commerciale, sino a che, nel 2005, è iniziato l’utilizzo dell’immobile quale esercizio di vicinato per la vendita di generi alimentari.

Errata si rivela la deduzione delle parti ricorrenti che la destinazione edilizia iniziale del locale risultava essere ad uso commerciale e non ad uso deposito.

La destinazione edilizia iniziale del locale ad uso deposito risulta, difatti, ragionevolmente accertata in base ad elementi allegati agli atti del giudizio, così come specificati dal Comune nella nota prot. 176 del 24.1.2011.

In particolare, l’iniziale destinazione si evince dal tenore della licenza di abitabilità che distingue il locale sito nel pian terreno, in parte rialzato, destinato a negozio, dal locale qui in questione, sito nel piano cantinato, individuato come "deposito (non abitabile)", nonché dall’espressa indicazione di "deposito materie non infiammabili" riportata per il locale in esame in un grafico di progetto allegato alla licenza edilizia.

Corretta, invece, appare l’invocata circostanza che il locale è stato sin dall’inizio utilizzato con finalità equiparabili all’uso commerciale.

Al riguardo, tale assunto, dedotto dalle parti ricorrenti in entrambi i ricorsi, ha trovato conferma negli atti del giudizio, in quanto è risultato che effettivamente il locale di cui è causa è stato adibito in tempi estremamente risalenti ad esercizio di sala giochi e ciò fin dagli inizi degli anni "60, in epoca cioè coeva a quella di realizzazione dell’immobile (la licenza edilizia per la costruzione dello stabile è stata rilasciata nel 1961 e la licenza di abitabilità nel 1963).

Risultano essere elementi confermativi di tale risalente utilizzo del locale: le dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà di persone che asseriscono di aver frequentato la zona da tempo remoto depositate agli atti dai ricorrenti; l’esistenza di una posizione fiscale aperta per sala giochi sul locale in questione dal 1969, come certificato dall’Agenzia delle entrate, e di una posizione INPS per l’esercizio di attività ricreativa con dipendenti sin dal 1967 (cfr documenti 1b ed 1c di cui alla produzione del 1.6.2010 dei ricorrenti Gennaro, Giuseppe e Tommaso Capodanno).

Confermano poi la continuazione nel tempo dell’utilizzo del locale come sala giochi il certificato di iscrizione partita IVA dal 1978 al 2000, la licenza per l’esercizio di sala giochi del 1985 ed i suoi rinnovi anch’essi oggetto di produzione documentale (produzione del 1.6.2010 dei ricorrenti Gennaro, Giuseppe e Tommaso Capodanno).

Né il Comune ha specificamente contestato, apportando elementi in senso contrario, tale risalente impiego del locale come sala giochi.

Questa destinazione ad attività ludicoricreativa con apertura al pubblico risulta assimilabile a fini urbanistici – come ammesso dallo stesso Comune nella nota prot. 1449 del 6 maggio 2010 – alla destinazione commerciale.

La stessa destinazione catastale non appare univoca sulla classificazione del locale ed, anzi, depone decisamente per l’utilizzo da tempo remoto del locale con destinazione commerciale, risultando l’immobile stesso essere stato qualificato, già alla data di prima classificazione del 30 giugno 1987, come C1 (negozi e botteghe) e solo successivamente, alla data del 25 novembre 1998, come C2 (magazzini e deposito) ed, in data 17 ottobre 2005, nuovamente come C1 (cfr nota del Comune n. 1449 del 6.5.2010).

Il Collegio, quindi, oltre a considerare acclarata, per quanto indicato, l’iniziale destinazione urbanistica a deposito del locale, ritiene accertata anche la circostanza che il locale in questione è stato destinato di fatto sin dagli anni "60 a sala giochi, ovverosia ad una destinazione assimilabile a quella commerciale.

Il mutamento di destinazione d’uso risulta essere stato quindi posto in essere nei primi anni "60, ovverosia prima che risultasse posta in essere una normativa specifica sui titoli abilitativi per i mutamenti di destinazione d’uso.

Tale necessità non risultava imposta, contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, dal regolamento edilizio del Comune di Napoli del 1935, che richiede un titolo solo per l’effettuazione di opere e non specificamente per i cambi di destinazione d’uso, né tale necessità si ravvisa in alcun altra specifica norma precedente alla legge n.10/1977.

Il cambio di destinazione d’uso del locale non può pertanto ritenersi abusivo, in assenza di una specifica disciplina sanzionatoria di tali interventi al momento della sua realizzazione.

Venendo meno il presupposto dell’abusività dell’intervento di mutamento di destinazione l’operato dell’Amministrazione si palesa, anche in forza delle considerazioni suesposte, illegittimo.

In presenza di tali circostanze e stante l’effettivo tenore dell’istanza di accertamento di conformità, il Comune non avrebbe dovuto limitarsi al rigetto dell’istanza di sanatoria ma avrebbe dovuto verificare l’effettiva commissione dell’abuso ed accertata la sua insussistenza, avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità dell’istanza di sanatoria, per difetto del presupposto dell’abuso, adottando i relativi provvedimenti e, comunque, astenersi dal comminare una sanzione demolitoria.

A quest’ultimo riguardo difatti è evidente che, una vota accertato che nessun abuso era stato commesso relativamente al cambio di destinazione d’uso, la sanzione ripristinatoria non avrebbe trovato alcuna giustificazione.

Le censure sollevate si rilevano quindi, fondate per quanto riguarda il diniego di accertamento di conformità e l’ordine di ripristino per la parte del provvedimento gravato relativa al cambio di destinazione d’uso.

4) L’istanza di accertamento di conformità aveva ad oggetto, oltre al cambio di destinazione d’uso, anche la realizzazione di opere abusive.

Parte ricorrente di cui al R.G. 3241/2009 ha lamentato che il Comune non si sarebbe specificamente pronunciato sulla compatibilità urbanistica di tali opere.

La censura risulta essere fondata.

In effetti, nell’atto di diniego il Comune non si è espresso sulle singole opere per cui è stato chiesto l’accertamento di conformità, limitandosi a considerarle unitariamente ed a motivare il diniego con l’inammissibilità del cambio di destinazione d’uso.

Il Comune non ha, quindi, preso in esame le singole opere, né ha espresso alcuna motivazione per argomentare che dall’impossibilità di riconoscere l’accertamento di conformità per il cambio di destinazione d’uso deriverebbe, come conseguenza, il rigetto dell’istanza anche per le singole opere realizzate, non esprimendosi neanche sulla autonomia o mera accessorietà delle stesse rispetto al cambio di destinazione d’uso.

L’unico riferimento motivazionale contenuto nel provvedimento con riguardo a tali opere, peraltro non espresso compiutamente, è il riferimento alla contrarietà all’art. 21 del Regolamento Edilizio secondo cui "Per gli edifici costruiti successivamente all’entrata in vigore della legge 765 del 6 agosto 1967 non possono essere consentiti gli interventi di cui al comma 1, nel caso in cui le opere di cui si chiede l’esecuzione determinino modifiche di parti dell’edificio abusivamente realizzate anche se oggetto di richiesta di sanatoria ai sensi dell’articolo 31 e seguenti della L 47/85 e dell’art.39 della L 724/94, non ancora esitata, ovvero per le quali è stato disposto il rigetto dell’istanza di sanatoria; la preclusione di cui al presente comma riguarda, in via esclusiva, le parti dell’edificio abusivamente realizzate con l’esclusione delle altre parti del medesimo edificio, e inoltre i suoli di pertinenza di costruzioni illegittime, limitatamente agli interventi di cui alla lettera b) del comma 2 che, nell’ipotesi, ove consentiti, sono subordinati a provvedimento autorizzativo".

Al riguardo, come indicato da parte ricorrente, la norma citata fa espresso riferimento agli immobili costruiti successivamente all’entrata in vigore della legge n. 765 del 6 agosto 1967, mentre l’immobile in questione è precedente, inoltre il provvedimento si esprime in termini generici non specificando quali sarebbero le parti dell’edificio abusivamente realizzate sulle quali sarebbero stati realizzati gli interventi non sanabili.

Tale assunto motivazionale risulta, pertanto, non corretto ed insufficiente a giustificare il rigetto dell’accertamento di conformità per le singole opere, considerate in modo autonomo, indipendentemente dall’aspetto relativo al cambio di destinazione d’uso.

5) L’istanza formulata da parte ricorrente aveva altresì ad oggetto la richiesta di applicazione di una sanzione pecuniaria in via alternativa alla demolizione per alcuni ampliamenti eseguiti in difformità della licenza edilizia (che evidentemente non si ritenevano sanabili) ed, in particolare:

"- ampliamento di quadratura pari a mq. 46,90 (mq. 509,17 in licenza edilizia e mq. 556,07 allo stato attuale) ed una maggiore cubatura dovuta anche ad una maggiore altezza (mt. 4,00 in licenza edilizia per un totale di mc 2036,68 e mt. 4,50 nella maggior parte del locale per un totale di mc. 2489,76)";

– realizzazione di una tettoia in ferro e plexiglas di mq. 17,75 e mc. 53,25".

Secondo i ricorrenti l’adozione di una sanzione pecuniaria in luogo di quella sanzionatoria sarebbe stata giustificata dall’applicazione dell’art.34 del D.P.R. n.380/2001, che per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, prevede che "Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.".

Sul punto il provvedimento di diniego dell’accertamento di conformità effettivamente non si è espressamente pronunciato, limitandosi a rinnovare la riduzione in pristino e tale mancata espressa pronuncia è stata, come indicato in parte motiva, fatta oggetto di motivo di censura nel ricorso di cui al R.G. 324/2009.

La censura si rivela fondata.

Il Collegio rileva, al riguardo, che gli interventi in questione non rientravano nell’ambito della richiesta di accertamento di conformità.

Inoltre, la richiesta di applicazione della sanzione pecuniaria non era collegata in modo funzionale alla decisione dell’accertamento di conformità, bensì riguardava il differente profilo della scelta delle sanzioni da applicare ad abusi edilizi estranei all’istanza di sanatoria e risultava essere, pertanto, un’istanza del tutto autonoma rispetto alla domanda di sanatoria.

Il momento di interferenza dei due profili risulta essere la circostanza che il provvedimento di diniego dell’accertamento di conformità ha rinnovato in via generale l’ordine di demolizione per gli interventi abusivi, senza prendere posizione sulla scelta della sanzione demolitoria in luogo di quella pecuniaria richiesta dai ricorrenti per gli specifici interventi indicati.

Ritiene al riguardo il Collegio che l’Amministrazione, nel disporre la riduzione in pristino, avrebbe dovuto prendere in considerazione la richiesta dei ricorrenti e disporre in modo specifico in ordine a tali opere e non limitarsi ad un generico ordine di riduzione in pristino.

Ciò in forza di un triplice ordine di considerazioni legate al profilo della necessità comunque di valutare gli apporti procedimentali del soggetto inciso dal provvedimento, a quello dell’obbligo di provvedere in modo espresso sulla richiesta del privato ed, infine, a quello dell’imprescindibilità della globalità ed esaustività della valutazione dei fatti nell’adozione di provvedimenti sanzionatori che, seppure riguardanti un insieme eterogeneo di opere, si riferiscono ad un’unica situazione sostanziale.

I primi due profili dell’obbligo di provvedere e della necessità di valutare gli apporti procedimentali del privato nel caso di specie sono connessi.

Qui, difatti, l’istanza del privato si inseriva nell’ambito di un procedimento per la comminazione di sanzioni edilizie ed era volta all’adozione di una determinata misura (sanzione pecuniaria) piuttosto che un’altra (sanzione ripristinatoria).

Al riguardo, osserva il Collegio che è indubitabile che l’Amministrazione anche nell’adozione di sanzioni edilizie, come per ogni altro provvedimento, deve tener conto delle osservazioni e dei documenti prodotti dal privato in ordine alla rilevanza dell’abuso e delle conseguenze sanzionatorie.

Ciò in conformità ai principi generali dettati dalla legge n. 241/90, che impone all’Amministrazione di valutare gli apporti partecipativi apportati dai privati nel procedimento, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. b), che prevede il diritto dei soggetti destinatari del provvedimento "di presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento".

In presenza di apporti procedimentali da parte del privato l’Amministrazione ha quindi l’obbligo di valutarli e dare conto di tale valutazione nel provvedimento finale tramite un iter motivazionale che, seppure non imponga un’analitica confutazione in merito ad ogni argomento utilizzato dalle parti stesse, renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione dell’Amministrazione alle deduzioni difensive del privato (Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 7472 del 13102010; Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 1439 del 11032010; Cons. Stato, Sez. VI, Sent. n. 17 del 07012008).

L’istanza presentata nel caso di specie, anche a prescindere dalla sua eventuale considerazione come una domanda idonea a far sorgere l’obbligo di provvedere, doveva comunque essere intesa come apporto procedimentale da parte del privato volto ad introdurre elementi in ordine al tipo di sanzione da scegliere ed, in particolare, a far presente specifici motivi per cui la corretta sanzione da applicare sarebbe stata quella pecuniaria.

L’Amministrazione avrebbe dovuto considerare tali elementi al fine di verificarne la fondatezza e se del caso disattenderli.

Nel caso di specie non risulta, però, che tali elementi siano stati presi in considerazione nella determinazione del tipo di sanzione.

L’Amministrazione non solo non ha motivato in proposito, omettendo di esporre le ragioni in ordine all’assenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, ma non ha nemmeno dato conto nel provvedimento impugnato di aver considerato la questione ai fini del decidere.

Il Collegio, inoltre, in senso confermativo dell’illegittimità dell’omessa valutazione sul punto, osserva come, a suo avviso, l’istanza presentata dalla società ricorrente aveva determinato un vero e

proprio obbligo di provvedere da parte dell’Amministrazione.

In proposito rileva come, in senso apparentemente contrario, sia vero che l’istanza in questione non è una istanza tipizzata dalla legge, quale ad esempio quella di accertamento di conformità, dove l’obbligo di provvedere nasce dalla stessa circostanza della previsione legislativa della sua proponibilità, qualificando l’interesse legittimo pretensivo del richiedente ed imponendo all’Amministrazione di provvedere.

Anzi, qui l’istanza del privato si inserisce nell’ambito di un procedimento sanzionatorio per abusi edilizi instaurato ad iniziativa d’ufficio, dove è in questione solo il tipo di sanzione da applicare, ed è caratterizzata dalla presenza di un interesse legittimo oppositivo, che legittimerebbe, in prima battuta, più che una pretesa al riconoscimento di un obbligo di pronuncia espresso in capo all’Amministrazione, una pretesa di tipo partecipativo nel procedimento, nel senso di vedere valutate le proprie osservazioni.

Nondimeno il Collegio segnala una tendenza della giurisprudenza amministrativa – a cui aderisce – che basandosi sul principio generale di doverosità dell’azione amministrativa ed ampliandolo in base ai criteri di ragionevolezza e buona fede, estende le situazioni in cui è ravvisabile un obbligo di provvedere sull’istanza del privato oltre quelle espressamente riconosciute dalla legge con l’esplicita previsione della facoltà di presentazione di un’istanza ampliativa della sfera giuridica del soggetto richiedente.

L’obbligo di provvedere sorge, difatti, anche qualora apprezzabili particolari ragioni di giustizia sostanziale impongano un provvedimento espresso in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (Cons. Stato, Sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7975).

Nel caso di specie il Collegio ritiene si ravvisi un’ipotesi del genere.

In proposito, innanzitutto, l’istanza è stata proposta prima dell’applicazione della misura sanzionatoria e quindi non può essere intesa quale richiesta di esercizio del potere di autotutela (di revoca o annullamento d’ufficio) rimesso, come noto, alla discrezione dell’Amministrazione senza che sorga, salvo casi particolari, l’obbligo di provvedere.

Inoltre, l’istanza di applicazione di una misura alternativa alla demolizione oltre a presentarsi, come indicato, in apporto procedimentale da valutare nell’ambito del procedimento di comminazione della sanzione, era idonea nel caso di specie ad integrare gli estremi di un vero e proprio diritto ad un espresso provvedimento da parte dell’Amministrazione.

Nella fattispecie in questione, difatti, l’Amministrazione era stata chiamata a pronunciarsi unitariamente sia su un’istanza di accertamento di conformità per un cambio di destinazione d’uso ed alcune opere interne, sia sull’adozione di misure pecuniarie in luogo di misure ripristinatorie relative alla stessa unità immobiliare.

Ciò nell’ambito della definizione della situazione di abusività dello stesso immobile per interventi edilizi realizzati in tempi remoti.

Il principio di buona amministrazione e trasparenza, da una parte, e quelli di correttezza, buona fede e tutela dell’affidamento del privato, dall’altra, imponevano quindi che l’amministrazione si pronunciasse espressamente sull’istanza di applicazione della misura pecuniaria, unitamente alla pronuncia sull’accertamento di conformità, al fine di definire in modo trasparente ed unitario al situazione dell’immobile, oggetto di un procedimento sanzionatorio per abusi edilizi risalenti di diversi decenni.

Al riguardo si segnala come il profilo della tutela dell’affidamento del privato, di derivazione comunitaria, ha assunto ormai valenza di principio generale nell’ambito del diritto amministrativo ed è sicuramente operante anche in materia di sanzioni edilizie come dimostra l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, anche di questa sezione (cfr TAR Campania – Napoli, Sez. IV, n. 9620 del 28 dicembre 2009; TAR Campania – Napoli, Sez. IV, n. 2357 del 5 maggio 2009), secondo il quale, nel caso in cui sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso edilizio, la repressione dell’abuso edilizio mediante misure ripristinatorie richiede da parte dell’Amministrazione una puntuale motivazione sull’interesse pubblico al ripristino dei luoghi.

In tali casi, infatti, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione preposta alla vigilanza, si ritiene che si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, in relazione alla quale l’esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all’entità e alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (Cons. Stato, Sez. V, 4 marzo 2008, n. 883; Cons. Stato, Sez. V, n. 3270/2006).

Lo stesso deve dirsi dei principi di correttezza e buona fede che devono ispirare l’azione dell’Amministrazione che impongono la valutazione completa delle situazioni sottoposte alla sua attenzione che incidono sugli interessi del privato, facendo sorgere l’obbligo di provvedere in modo espresso e completo in merito, funzionale alla legittima aspettativa del medesimo privato ad una definizione chiara ed unitaria della vicenda.

Aspettativa, quest’ultima, che deve assumersi come un valore in se, anche indipendentemente dall’esito positivo o meno di tale valutazione.

Nel caso di specie, peraltro, la particolare esigenza di debita considerazione della posizione del privato sorgeva anche dal fatto che le opere abusive in questione (a parte forse la tettoia) risultavano plausibilmente molto risalenti ed erano state ragionevolmente realizzate al momento stesso dell’edificazione iniziale dell’immobile agli inizi degli anni "60.

Tale circostanza è peraltro evincibile dalla stessa natura delle opere abusive contestate inerenti, fra l’altro, ad un aumento di cubatura "dovuta ad aumento di altezza".

In un edificio come quello in questione, strutturalmente articolato in una molteplicità di piani, l’aumento arbitrario dell’altezza del locale posto nel piano più basso (ove risulta ubicato il controverso deposito), non può che essere stata posta in essere al momento dell’edificazione dell’intero edificio essendo tale intervento oggettivamente precluso, in un momento successivo, dal piano sovrastante con cui le due strutture hanno in comune il solaio intermedio.

L’aumento dell’altezza si palesa quindi come intervento coevo alla realizzazione dell’edificio, probabilmente riconducibile alla determinazione dell’impresa costruttrice che all’epoca fu verosimilmente indotta a realizzare un deposito di maggiore altezza dalla considerazione che un locale deposito accessorio all’immobile non costituiva volumetria.

Evidente risulta, quindi, come potesse ritenersi sussistente un "obbligo di provvedere in modo espresso sull’istanza da parte dell’Amministrazione e la legittima aspettativa del privato ad una definizione unitaria ed espressa della vicenda, con conseguente illegittimità del comportamento dell’Amministrazione che ha omesso una pronuncia espressa sull’istanza, definendo la stessa in modo solo implicito ed indiretto con l’ordine di demolizione contenuto nel rigetto dell’accertamento di conformità.

Per quanto riguarda, infine, l’aspetto dell’osservanza dei principi di buona amministrazione e trasparenza dell’azione amministrativa, valutati dal punto di vista oggettivo delle modalità di azione amministrativa, qui il discorso si salda con l’ultimo profilo suindicato legato all’esigenza di completezza della valutazione della situazione inerente all’adozione di provvedimenti sanzionatori che si riferiscono ad un’unica situazione sostanziale ovverosia, nel caso di specie, ai diversi abusi edilizi contestati per un’unica unità immobiliare.

Il rispetto del principio di buona amministrazione – tradotto nella necessità che l’azione amministrativa si esplichi con criteri di ragionevolezza, economicità ed efficienza – e di quello di trasparenza – che impone la chiarezza nell’adozione di misure che incidono sulla sfera dei privati – avrebbe imposto che l’Amministrazione, in un caso come questo, valutasse l’insieme delle condizioni inerenti le conseguenze dell’abusività delle opere riferite all’unità immobiliare, adottando un provvedimento completo ed esaustivo.

Ciò nel senso che l’Amministrazione avrebbe dovuto prendere in considerazione in modo espresso tutte le opere abusive contestate e tutti gli aspetti sanzionatori connessi, evitando di pronunciarsi in modo parziale, poco chiaro ed implicito.

Al contrario, l’Amministrazione si è pronunciata espressamente in senso negativo sul solo diniego dell’accertamento di conformità per il cambio di destinazione d’uso e le opere interne, rimanendo silente per quanto riguarda le altre opere per cui il privato aveva chiesto l’applicazione di una sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria.

Adottando, però, un provvedimento generico di riduzione in pristino ha sostanzialmente provveduto in modo implicito anche per la sorte di queste opere.

Il provvedimento impugnato risulta, quindi, anche viziato a causa della sua incompletezza e per mancanza di chiarezza e trasparenza, non avendo considerato unitariamente la situazione dell’immobile oggetto di esercizio del potere sanzionatorio.

In conclusione risulta fondata la censura circa la mancata espressa considerazione dell’istanza di adozione di misure sanzionatorie pecuniarie in luogo di quella ripristinatoria.

Quanto al merito dell’istanza relativa all’applicazione della sanzione sostitutiva pecuniaria, il Collegio rileva infine, come non risultino elementi sufficienti per pronunciarsi in ordine alla sua fondatezza, dovendo la stessa essere oggetto di valutazioni di carattere tecnico da parte dei competenti organi comunali.

6) Fermo quanto anzidetto, il Collegio passa allo scrutinio dei singoli motivi dei ricorsi introduttivi dei due giudizi, per la parte che non risulta assorbita e superata in base alle considerazioni precedentemente espresse.

Procederà poi al successivo separato scrutinio del ricorso per motivi aggiunti di cui al R.G. 3700/2009, contente una domanda di accertamento.

6.1) Per ciò che concerne il ricorso iscritto al R.G. 3241/2009, quanto indicato nei punti 1, 2 e 3 di parte motiva, cui si rinvia, esaurisce i profili di presunta illegittimità evidenziati nei primi tre motivi di ricorso, indicati nella parte in fatto, riguardanti la destinazione d’uso dell’unità immobiliare ed, in particolare, la risalenza della destinazione commerciale del locale, l’aspetto della non accessorietà dello stesso e del suo uso autonomo ed, infine, la circostanza che il mutamento di destinazione d’uso, qualora anche fosse dato per avvenuto, sarebbe risultato essere antecedente all’introduzione dell’obbligo di titolo autorizzativo per i mutamenti di destinazione d’uso.

Ancora con riferimento al ricorso iscritto al R.G. 3241/2009, risultano compiutamente trattate ed esaurite nel punto 5 di parte motiva – cui si rinvia – le censure introdotte con il quarto motivo di ricorso, già descritte nella precedente parte in fatto, riguardanti la richiesta di applicazione di sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione per alcune opere ed, in particolare, l’omissione della pronuncia sul punto e la violazione dell’art. 34 del D.P.R. n.380/2001,.

Sempre con riferimento al ricorso iscritto al R.G. 3241/2009, trovano compiuta trattazione nel punto 4 di parte motiva – cui si rinvia – le censure mosse con il quinto motivo di ricorso, inerenti all’omissione della pronuncia di accertamento di conformità per le opere di manutenzione ordinaria e straordinaria e per il grillage ed all’illegittimità del riferimento motivazionale contenuta nel provvedimento gravato all’art. 21 del Regolamento Edilizio.

6.2) Per quanto riguarda il ricorso principale di cui al R.G. 3700/2009, con il primo motivo di ricorso le parti ricorrenti, come già indicato nella parte in fatto, hanno lamentato la violazione di legge e falsa applicazione dell’art.7, della legge n.241/90, per aver l’Amministrazione omesso la comunicazione di avvio del procedimento che ha portato al provvedimento gravato.

Il Collegio al riguardo evidenzia che il provvedimento impugnato è stato emesso all’esito di un procedimento iniziato ad istanza di parte ovverosia una richiesta di accertamento di conformità e, quindi, non richiedeva una comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7, legge 7 agosto 1990, n. 241 (T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. II, 14 dicembre 2010, n. 2686; T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. I, 27 ottobre 2010, n. 2338; Consiglio Stato, sez. VI, 8 giugno 2010, n. 3624; T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, 7 maggio 2010, n. 3072).

Tenuto conto, però, della circostanza che l’istanza di accertamento di conformità non era stata presentata dai ricorrenti del ricorso qui scrutinato, proprietari dell’immobile, bensì dalla società locatrice dei locali, la comunicazione di avvio del procedimento sarebbe stata comunque necessaria, quantomeno per quanto riguarda l’adozione della misura della riduzione in pristino delle opere all’esito del rigetto dell’istanza di sanatoria.

Il Collegio richiama, però, recente giurisprudenza secondo cui "non sussiste l’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7, legge 7 agosto 1990, n. 241, nelle procedure preordinate all’irrogazione di sanzioni per abusi edilizi, non prevedendo detto procedimento sanzionatorio la possibilità di valutazioni discrezionali, risolvendosi esso in un mero accertamento tecnico sulla coesistenza delle opere abusivamente realizzate, né tale obbligo è rinvenibile in relazione al rigetto dell’istanza di concessione in sanatoria, essendo il relativo procedimento attivato ad istanza di parte (Consiglio Stato, sez. IV, 21 febbraio 2011, n. 1085).

In ogni caso, per quanto riguarda le sanzioni ripristinatorie comminate, l’accoglimento per motivi sostanziali delle indicate censure relative all’illegittimità del provvedimento di rigetto dell’istanza di accertamento di conformità e dell’ordine di ripristino del cambio di destinazione d’uso del locale e delle singole opere già oggetto di istanza di sanatoria, nonché per le opere non oggetto dell’istanza di accertamento di conformità ma di richiesta di applicazione di misura sanzionatoria pecuniaria, comporta l’assorbimento ed comunque il venir dell’interesse in ordine al vizio formale di omessa comunicazione di avvio.

Per quanto riguarda il secondo motivo del ricorso principale di cui al R.G. 3700/2009 – così come riportato nella parte in fatto – inerente all’erroneità dell’assunto posto a base del provvedimento impugnato che l’immobile avesse avuto un’originaria destinazione a deposito, tale profilo risulta essere stato compiutamente trattato ed esaurito nel punto 4 di parte motiva cui si rinvia.

Allo stesso modo la censura di cui al terzo motivo del ricorso principale di cui al R.G. 3700/2009, inerente alla violazione dell’art. 34 del D.P.R. n.380/2001, risulta essere stata compiutamente trattata ed esaurita da quanto indicato nel punto 5 di parte motiva a cui si fa rinvio.

Con l’ultima doglianza formulata nel ricorso principale, di cui al R.G. 3700/2009, i ricorrenti hanno evidenziato – come già descritto nella parte in fatto – che il provvedimento ripristinatorio sarebbe stato loro impropriamente notificato, in quanto gli stessi erano rimasti del tutto estranei alla procedura relativa all’accertamento di conformità, non avendo ricevuto né la comunicazione di avvio ex art.7 della legge n.241/90, né il preavviso di rigetto, ai sensi dell’art.10 bis, della medesima legge n.241/90.

Al riguardo il Collegio rileva come i ricorrenti risultano essere proprietari dell’immobile e, pertanto, andavano loro sicuramente notificati i provvedimenti relativi all’esistenza di interventi abusivi sul loro immobile, a maggior ragione in quanto comportanti l’adozione di sanzioni edilizie ripristinatorie.

Vige, difatti, sul punto un pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui le ordinanze di demolizione di opere abusive possono legittimamente essere emanate nei confronti dei proprietari degli immobili interessati, anche se non responsabili degli abusi, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR Piemonte, I, 25 ottobre 2006, n. 3836; TAR Campania, Salerno, II, 15 febbraio 2006, n. 96; TAR Lazio, Roma, II, 2 maggio 2005, n. 3230; TAR Valle d’Aosta, 12 novembre 2003, n. 188).

7) Con il ricorso per motivi aggiunti di cui al R.G. 3700/2009, è stata introdotta un’autonoma domanda di accertamento della destinazione commerciale del locale di cui è causa.

La domanda è inammissibile per un duplice ordine di motivi.

In primo luogo, il vigente codice del processo amministrativo non consente una domanda di mero accertamento, come quella di cui è causa, volta ad una mera ricognizione dello status urbanistico di un locale, introdotta in materia di interessi legittimi in quanto connessa ad aspetti della corretta disciplina dell’uso del territorio.

Per quanto il codice del processo amministrativo ha ampliato la portata le azioni di tutela proponibili nel giudizio amministrativo non si è spinto sino alla previsione di azioni atipiche di accertamento in materia di interessi legittimi ed, anzi, al contrario ha tipizzato tali azioni dove lo ha ritenuto opportuno, come nel caso dell’azione di accertamento della nullità dell’atto amministrativo.

In secondo luogo, nel caso di specie, il giudizio nasce dall’adozione di sanzioni edilizie da parte del Comune per un supposto abusivo cambio di destinazione d’uso.

La destinazione non commerciale dei locali viene affermata in specifici provvedimenti amministrativi ed, in particolare per quel che qui interessa, nell’impugnato atto di diniego di accertamento di conformità ed ordine di ripristino.

La natura non commerciale del locale viene poi richiamata e posta a base di un atto sanzionatorio e, conseguentemente, la sua contestazione non può esulare dal meccanismo impugnatorio di tali provvedimenti, secondo i termini decadenziali previsti dalla legge.

Non risulta, difatti, ammissibile un’azione di accertamento dinanzi al giudice amministrativo avente ad oggetto l’esistenza dei presupposti posti a base di un provvedimento autoritativo, proposta senza il rispetto del termine decadenziale, in quanto una siffatta azione si rivelerebbe elusiva del predetto termine (vedi sul punto Consiglio di Stato, sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717).

L’atto di diniego di accertamento di conformità, contente l’ordine di ripristino (peraltro impugnato con ricorso principale), è stato notificato a Giuseppe Capodanno il 15 aprile 2009 ed a Gennaro e Luigi Capodanno il 19.5.2009.

Il ricorso per motivi aggiunti è stato dagli stessi notificato solo il 3.11.2009, ovverosia in ogni caso in modo tardivo rispetto al termine decadenziale che, onde evitare un meccanismo di elusione dei termini di decadenza non può che essere quello previsto per l’impugnativa dei provvedimenti amministrativi.

Né può essere invocata la disciplina dettata dal codice del processo amministrativo per l’azione di accertamento di nullità del provvedimento amministrativo, al fine di dedurne la possibilità di un’azione di accertamento atipica su determinate situazioni poste a base di provvedimenti amministrativi o per dedurne in via di analogia la disciplina applicabile.

Nell’azione per la declaratoria di nullità dell’atto amministrativo di cui all’art.31, comma 4, del codice del processo amministrativo, l’azione aggredisce un esito provvedimentale finale per far valere una difformità dallo schema normativo più grave rispetto a quella che comporta l’annullabilità.

Esito del giudizio è sempre la "rimozione" di un provvedimento amministrativo dall’ordinamento tramite il riconoscimento della sua nullità, affinchè lo stesso non possa produrre, nemmeno in via di fatto, conseguenze lesive.

Nel caso in questione la domanda proposta dalla parte ha ad oggetto l’accertamento di un fatto, anzi di una situazione giuridicamente rilevante (la qualificazione urbanistica di un immobile), che è stata oggetto di una differente valutazione da parte dell’Amministrazione, e non la validità di un provvedimento (come nei casi di domanda di annullamento o dichiarazione di nullità).

La valutazione contestata con l’azione di accertamento è stata posta dall’Amministrazione a base di specifici atti amministrativi.

Una pronuncia di accertamento che dovesse dichiarare, in sede di mero accertamento, l’erroneità di tale valutazione (una certa qualifica edilizia dell’immobile) comporterebbe un effetto necessariamente caducante su tutti gli atti amministrativi che hanno posto a base l’esistenza di una differente qualifica, agendo non direttamente sull’atto bensì sui suoi presupposti, con l’effetto di scardinare la logica dei termini decadenziali.

Tale effetto non si rinviene invece per la declaratoria di nullità di un provvedimento.

Nell’azione di nullità l’attacco con effetto di rimozione del provvedimento è diretto all’atto e non ai presupposti dell’atto e, per tale ragione, il codice ha dettato dei precisi termini decadenziali che non si sovrappongono, per quanto anzidetto, con quelli esistenti per l’azione di annullamento tesa anch’essa a porre nel nulla il provvedimento amministrativo.

L’azione volta all’accertamento in senso difforme di una determinata situazione giuridica assunta a presupposto di uno o più determinati provvedimenti consegue invece in sostanza un effetto caducante indiretto, agendo sui presupposti del provvedimento, con l’effetto di aggirare i termini decadenziali di impugnativa degli atti amministrativi e far venir meno le esigenze di certezza giuridica e stabilità dell’azione amministrativa che hanno portato il legislatore a prevedere un termine decadenziale ridotto anche per l’azione di nullità.

Da tale differenza ontologica deriva peraltro, sul piano della disciplina processuale, l’impossibilità di accomunare le due situazioni e mutuare per analogia la disciplina dell’azione di nullità.

Infine, un’azione di accertamento volta a contestare i presupposti di un determinato atto sottoposta ad un termine breve di decadenza dall’adozione del medesimo provvedimento si risolverebbe in niente altro che in un surrogato dell’azione di annullamento, né sarebbe giustificata dalla particolare natura della patologia dell’atto adottato come invece per l’azione di annullamento.

L’azione di accertamento proposta si palesa quindi inammissibile.

8) Quanto all’impugnativa in parte qua, anch’essa formulata nel ricorso per i motivi aggiunti, della disposizione n. 7 del 30.4.2008, relativa all’annullamento della pratica D.I.A. n. 397/2008, presentata dalla DOL.TAR. S.n.c., il Collegio ne evidenzia l’irricevibilità per tardività e, comunque, inammissibile per carenza di interesse.

La suddetta disposizione dirigenziale veniva impugnata dalla DOL.TAR. S.n.c., nell’ambito del ricorso di cui al R.G. 9210/2005, nel quale le parti ricorrenti del presente giudizio intervenivano ad adiuvandun con atto di intervento depositato il 23.1.2009.

E’ evidente, quindi, come a quest’ultima data gli attuali ricorrenti avessero conoscenza del provvedimento e, pertanto, l’attuale impugnativa per motivi aggiunti si rivela tardiva e, come tale, inammissibile.

Per quanto riguarda l’interesse a ricorrere, inoltre, i medesimi ricorrenti non hanno impugnato il provvedimento nel suo contenuto dispositivo al fine di contestarne l’effetto di annullamento della D.I.A. di cui alla pratica n. 397/2008.

Hanno invece proposto gravame, in parte qua, solo nei confronti di un’affermazione contenuta nelle premesse della disposizione n. 7 del 30.4.2008 (ovverosia la destinazione a deposito del locale).

Tale affermazione ha però natura di mera argomentazione in fatto, inserita nella motivazione dell’atto di annullamento della D.I.A., senza alcun carattere dispositivo, né effetto lesivo immediato nei confronti degli attuali ricorrenti, che non avevano pertanto un interesse attuale al ricorso al momento della sua proposizione.

9) In conclusione, il ricorso di cui al RG. 3241/2009 viene accolto.

Il ricorso principale del giudizio di cui al R.G. 3700/2009 viene accolto.

Il ricorso per motivi aggiunti formulato nel giudizio di cui al R.G. 3700/2009 viene dichiarato in parte inammissibile, per quanto riguarda la domanda di accertamento, ed in parte irricevibile per le ragioni indicate nei punti 7 ed 8.

In considerazione della peculiarità della vicenda e della complessità delle questioni trattate e, per quanto riguarda il ricorso di cui al R.G. 3700/2009, della dichiarata inammissibilità ed improcedibilità dei motivi aggiunti, il Collegio ritiene sussistano eccezionali motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio per entrambi i ricorsi riuniti ad eccezione del contributo unificato che va posto a carico del Comune soccombente.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti di cui al R.G. 3241/2009 e R.G. 3241/2009, come in epigrafe proposti:

– accoglie il ricorso di cui al RG. 3241/2009 ed il ricorso principale di cui al R.G. 3700/2009, annullando l’atto gravato nei limiti e termini indicati in motivazione.

– dichiara in parte inammissibile ed in parte irricevibile il ricorso per motivi aggiunti formulato nel giudizio di cui al R.G. 3700/2009, per le ragioni e nei termini indicati in parte motiva.

Condanna il Comune a rifondere ai ricorrenti le spese del contributo unificato in entrambi i ricorsi e compensa fra le parti le restanti spese di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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