Corte Costituzionale ordinanza n. 321 ORDINANZA 03 – 11 novembre 2010 .

Aggiornamento offerto dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 46 del 17-11-2010

Ordinanza

nei giudizi di legittimita’ costituzionale dell’art. 10-bis del
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16,
lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in
materia di sicurezza pubblica), promossi dal Giudice di pace di
Trieste con due ordinanze del 14, una ordinanza del 19 gennaio 2010
ed un’altra del 14 gennaio 2010, rispettivamente iscritte ai nn. da
130 a 132 e 135 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 19 e 20, 1ª serie speciale,
dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 2010 il giudice
relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto che, con quattro ordinanze di analogo tenore, emesse il
14 gennaio 2010 (r.o. n. 130, n. 131 e n. 135 del 2010) e il 19
gennaio 2010 (r.o. n. 132 del 2010), nel corso di processi penali nei
confronti di stranieri imputati del reato previsto dalla norma
censurata, il Giudice di pace di Trieste ha sollevato questione di
legittimita’ costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25,
secondo comma, 27 e 117 della Costituzione, dell’art. 10-bis del
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16,
lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in
materia di sicurezza pubblica), il quale punisce con l’ammenda da
5.000 a 10.000 euro, «salvo che il fatto costituisca piu’ grave
reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel
territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del [citato]
testo unico nonche’ di quelle di cui all’art. 1 della legge 28 maggio
2007, n. 68»;
che il giudice a quo riferisce che, nel corso dell’udienza,
il pubblico ministero (nei casi di cui alle ordinanze r.o. n. 129, n.
131 e n. 135 del 2010) ovvero il difensore dell’imputato, con
l’adesione della parte pubblica (nel caso di cui all’ordinanza r.o.
n. 130 del 2010), avevano eccepito l’illegittimita’ costituzionale
del citato art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998: eccezioni di cui
vengono sintetizzati i contenuti;
che nell’ordinanza r.o. n. 132 del 2010 la questione e’,
invece, sollevata d’ufficio;
che la norma impugnata si porrebbe in contrasto, in primo
luogo, con l’art. 27 Cost., giacche’ la comminatoria di una pena
pecuniaria nei confronti di persone prive di fonti di reddito
risulterebbe «meramente pretestuosa» e inidonea ad esplicare
qualsiasi funzione rieducativa;
che sarebbe inoltre violato l’art. 24 Cost., in quanto la
norma censurata non consentirebbe all’imputato «di dimostrare
efficacemente […] a fini assolutori la esistenza di una qualche
causa di giustificazione»;
che risulterebbe leso anche l’art. 117 Cost., in riferimento
all’art. 14 della «Convenzione Onu sui Diritti dell’Uomo» [recte:
della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948] e
all’art. 5 del «Preambolo del Protocollo della Convenzione di Palermo
12-15 dicembre 2000» [recte: del Protocollo addizionale della
Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalita’ transnazionale
organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via
terra, via mare e via aria, adottato dall’Assemblea generale il 15
novembre 2000], in forza del quale «i migranti non diventano
assoggettabili all’azione penale per il fatto di essere oggetto delle
condotte di cui all’art. 6»;
che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 si porrebbe,
poi, in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto plurimi profili;
che la scelta legislativa di criminalizzare l’ingresso e la
permanenza «clandestini» dello straniero nello Stato italiano
risulterebbe, infatti, irragionevole, stante la coincidenza
dell’ambito applicativo della nuova fattispecie criminosa con quello
della preesistente misura amministrativa dell’espulsione;
che apparirebbe, altresi’, priva di ogni valida ragione
giustificativa la preclusione dell’oblazione di cui all’art. 162 del
codice penale, sancita dalla norma censurata;
che sarebbe ravvisabile, inoltre, una irragionevole
disparita’ di trattamento rispetto alla fattispecie criminosa
contemplata dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998,
che punisce lo straniero inottemperante all’ordine di allontanamento
del questore solo ove lo stesso si trattenga nel territorio dello
Stato oltre il termine stabilito e «senza giustificato motivo»:
limitazione che non si rinviene, per contro, nella disposizione
impugnata;
che detta disposizione – sottoponendo a pena il «migrante
economico» – violerebbe, ancora, il principio di eguaglianza, che
vieta ogni discriminazione fondata su condizioni personali o sociali;
che la nuova norma risulterebbe irrazionale anche nella parte
in cui – nell’elevare a reato lo stato di clandestinita’, in
precedenza penalmente irrilevante – anziche’ prevedere una «adeguata
tempistica», ha concesso ai «clandestini» un termine di soli quindici
giorni per allontanarsi dal territorio dello Stato, ponendoli cosi’
nella concreta impossibilita’ di evitare di incorrere in
responsabilita’ penale per un fatto anteriormente commesso;
che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 violerebbe,
infine, l’art. 2 Cost., in quanto pregiudicherebbe «i diritti
inviolabili dell’uomo alla propria identita’ personale ed alla
propria cittadinanza», nonche’ l’art. 25, secondo comma, Cost.,
perche’ non sanzionerebbe fatti materiali, ma condizioni personali;
che, in sostanza – osserva conclusivamente il rimettente –
tanto dalle singole censure prospettate che dal loro complesso,
emergerebbe come la discrezionalita’ del legislatore sia stata
esercitata in modo manifestamente irragionevole, sia nella
configurazione della fattispecie criminosa, sia nella determinazione
del relativo trattamento sanzionatorio;
che, quanto alla rilevanza, il giudice a quo riferisce che,
sulla base degli atti irripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria
e degli altri documenti acquisiti, gli imputati nei giudizi
principali risultano presenti nel territorio nazionale senza essere
muniti di permesso di soggiorno e, anzi – nei casi di cui alle
ordinanze r.o. n. 130, n. 131 e n. 132 del 2010 – trovandosi gia’
colpiti da provvedimento di espulsione: donde la rilevanza della
questione, il cui accoglimento comporterebbe l’assoluzione degli
imputati stessi, altrimenti esposti ad una sentenza di condanna;
che nel giudizio di costituzionalita’ relativo all’ordinanza
r.o. n. 135 del 2010, e’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilita’
della questione, in quanto il rimettente si sarebbe limitato a dare
conto dei dubbi di legittimita’ costituzionale del pubblico
ministero, senza formulare una propria valutazione di non manifesta
infondatezza: l’unica valutazione espressa dal giudice a quo
atterrebbe, infatti, all’irragionevolezza della fattispecie criminosa
e della relativa sanzione;
che, sotto il primo profilo, la questione sarebbe comunque
infondata, giacche’ la scelta di attribuire rilievo penale a
comportamenti in precedenza sanzionati solo in via amministrativa
costituirebbe esercizio, non irragionevole, dell’ampia
discrezionalita’ che al legislatore compete nell’individuazione delle
condotte punibili e delle relative sanzioni;
che, sotto il secondo profilo – quello, cioe’, della natura
della sanzione, censurata in rapporto alla condizione di impossidenza
del destinatario dell’incriminazione – la questione risulterebbe
puramente astratta e, dunque, inammissibile, giacche’ il rimettente
non riferisce che l’imputato nel giudizio a quo versi effettivamente
nella predetta condizione.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano identiche
questioni, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti
con unica decisione;
che il Giudice di pace di Trieste dubita, in riferimento a
plurimi parametri, della legittimita’ costituzionale dell’art. 10-bis
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16,
lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in
materia di sicurezza pubblica), che punisce con l’ammenda da 5.000 a
10.000 euro, salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, lo
straniero che fa ingresso o si trattiene illegalmente nel territorio
dello Stato;
che l’eccezione preliminare di inammissibilita’ formulata
dell’Avvocatura dello Stato in rapporto all’ordinanza r.o. n. 135 del
2010 – ma estensibile anche alle altre ordinanze di rimessione che
sollevano le questioni di costituzionalita’ su eccezione di parte –
non e’ fondata;
che dal tenore complessivo di dette ordinanze emerge,
infatti, con sufficiente chiarezza, che il giudice a quo,
nell’esporre – in termini di sintesi – le censure prospettate dalle
parti, ha inteso condividerle e farle proprie: onde non si puo’
ritenere che manchi un apprezzamento sul punto;
che alcune delle questioni sollevate sono, nondimeno,
manifestamente inammissibili per difetto di adeguata motivazione
sulle ragioni dell’asserita violazione dei parametri evocati,
prospettata in termini puramente assiomatici (ex plurimis, ordinanze
n. 202, n. 191 e n. 181 del 2009): carenza che non puo’ venire
colmata dal rinvio alle piu’ ampie deduzioni contenute in atti di
parte, essendo il rimettente tenuto ad esplicitare in modo autonomo e
autosufficiente, nell’ordinanza di rimessione, i motivi per i quali
reputa lesi i parametri stessi (ex plurimis, ordinanze n. 19 del 2008
e n. 75 del 2007);
che detta carenza e’ riscontrabile, in particolare, con
riguardo alla censura di violazione dell’art. 2 Cost., motivata dal
giudice a quo con il solo rilievo che la norma censurata
pregiudicherebbe «i diritti inviolabili dell’uomo alla propria
identita’ personale ed alla propria cittadinanza», senza che venga
spiegato attraverso quale meccanismo si produrrebbe l’ipotizzato
vulnus; con riguardo alla censura di violazione dell’art. 24 Cost.,
basata sull’apodittico assunto che la disposizione impugnata non
consentirebbe all’imputato «di dimostrare efficacemente […] a fini
assolutori la esistenza di una qualche causa di giustificazione»,
senza che si chiarisca donde deriverebbe il lamentato impedimento
alla facolta’ di difendersi provando; con riguardo, infine, alla
censura di violazione dell’art. 117 Cost., la quale si esaurisce nel
mero richiamo alle norme internazionali con le quali la norma
censurata si porrebbe contrasto;
che manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza
risulta, per altro verso, la questione relativa alla preclusione
dell’oblazione per la contravvenzione in esame, sancita dal secondo
periodo del comma 1 della norma impugnata (preclusione che il
rimettente reputa ingiustificata e, dunque, lesiva dell’art. 3
Cost.), giacche’ dalle ordinanze di rimessione non consta che
l’imputato abbia concretamente presentato, in alcuno dei casi, una
domanda di oblazione;
che, per il resto, questa Corte ha gia’ scrutinato questioni
di legittimita’ costituzionale in larga parte analoghe a quelle oggi
sollevate, giudicandole infondate (sentenza n. 250 del 2010);
che si e’ escluso, in specie, che l’art. 10-bis del d.lgs. n.
286 del 1998 violi il principio di materialita’ del reato, desumibile
dall’art. 25, secondo comma, Cost., sottoponendo a pena una
«condizione personale e sociale» – quella di straniero «clandestino»
(o, piu’ propriamente, «irregolare») – della quale verrebbe
arbitrariamente presunta la pericolosita’ sociale;
che la norma impugnata non reprime, infatti, un «modo di
essere» della persona, ma uno specifico comportamento, trasgressivo
di norme vigenti, quale quello descritto dalle locuzioni alternative
«fare ingresso» e «trattenersi» contra legem nel territorio dello
Stato: la condizione di «irregolarita’» del migrante non e’, dunque,
un dato preesistente ed estraneo al fatto, ma rappresenta, al
contrario, la conseguenza della stessa condotta resa penalmente
illecita, esprimendone in termini di sintesi la nota strutturale di
illiceita’;
che considerazioni analoghe valgono quanto alla questione
relativa alla violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.),
per avere la norma impugnata, sottoponendo a pena il «migrante
economico», introdotto una discriminazione fondata su condizioni
personali o sociali;
che, al riguardo, questa Corte ha gia’ rilevato come la norma
censurata non possa ritenersi volta a rendere penalmente rilevanti
situazioni di poverta’ ed emarginazione, ma si limiti a reprimere «la
commissione di un fatto oggettivamente (e comunque) antigiuridico,
offensivo di un interesse reputato meritevole di tutela»,
identificabile «nell’interesse dello Stato al controllo e alla
gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto
normativo»: interesse la cui protezione penalistica «non puo’
considerarsi irrazionale ed arbitraria», in quanto strumentale alla
salvaguardia «del complesso di beni pubblici "finali", di sicuro
rilievo costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni
di immigrazione incontrollata» (sentenza n. 250 del 2010);
che la Corte ha, del pari, gia’ disatteso la censura di
violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), connessa
alla coincidenza dell’ambito applicativo della nuova fattispecie
criminosa con quello della preesistente misura amministrativa
dell’espulsione;
che la sovrapposizione della disciplina penale a quella
amministrativa e la circostanza che il legislatore abbia mostrato di
«considerare l’applicazione della sanzione penale come un esito
"subordinato" rispetto alla materiale estromissione dal territorio
nazionale dello straniero» non comportano ancora, infatti, che il
procedimento penale per il reato in esame rappresenti, a priori, un
mero "duplicato" della procedura amministrativa di espulsione: «e
cio’, a tacer d’altro, per la ragione che – come l’esperienza attesta
– in un largo numero di casi non e’ possibile, per la pubblica
amministrazione, dare corso all’esecuzione dei provvedimenti
espulsivi»; mentre «la stessa sostituzione della pena pecuniaria con
la misura dell’espulsione da parte del giudice – configurata,
peraltro, dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 come
soltanto discrezionale ("puo’") – resta espressamente subordinata
alla condizione che non ricorrano le situazioni che, ai sensi
dell’art. 14, comma 1, del medesimo decreto legislativo, impediscono
l’esecuzione immediata dell’espulsione con accompagnamento alla
frontiera a mezzo della forza pubblica» (sentenza n. 250 del 2010);
che, con riguardo alla censura di violazione del principio di
ragionevolezza e della finalita’ rieducativa della pena (artt. 3 e 27
Cost.), legata alla comminatoria di una pena pecuniaria nei confronti
di persone prive di fonti di reddito, va disattesa l’eccezione di
inammissibilita’ per difetto di rilevanza, formulata dall’Avvocatura
dello Stato sulla considerazione che il giudice a quo non avrebbe
precisato se l’imputato nel giudizio principale versi effettivamente
in una condizione di indigenza;
che tale eccezione sovrappone i piani della rilevanza e della
non manifesta infondatezza: l’idoneita’ a colpire persone
impossidenti e’ evocata, infatti, dal rimettente come tratto generale
della norma incriminatrice, atta a porla in contrasto con i parametri
costituzionali considerati; il che non implica che – ai fini
dell’ammissibilita’ della questione – esso debba risultare
riscontrabile anche nella fattispecie concreta che da’ adito
all’incidente di costituzionalita’, rimanendo la questione comunque
rilevante a fronte dell’incidenza dell’eventuale ablazione della
norma impugnata sugli esiti del processo principale, destinato
verosimilmente a concludersi, altrimenti – secondo quanto si afferma
nelle ordinanze di rimessione – con una sentenza di condanna (con
riferimento ad analoga eccezione, sentenza n. 250 del 2010);
che, nel merito, questa Corte ha gia’ rilevato – con riguardo
alla dedotta violazione del principio di ragionevolezza – che e’, in
effetti, difficilmente contestabile che «la pena dell’ammenda,
applicabile allo straniero per il reato in esame nei casi di mancata
esecuzione (o eseguibilita’ immediata) dell’espulsione, presenti una
ridotta capacita’ dissuasiva: e cio’, a fronte della condizione di
insolvibilita’ in cui assai spesso (ma, comunque, non
indefettibilmente) versa il migrante irregolare e della difficolta’
di convertire la pena rimasta ineseguita in lavoro sostitutivo o in
obbligo di permanenza domiciliare (art. 55 del d.lgs. n. 274 del
2000), stante la problematica compatibilita’ di tali misure con la
situazione personale del condannato, spesso privo di fissa dimora e
che, comunque, non puo’ risiedere legalmente in Italia»;
che «simili valutazioni – al pari di quella attinente, piu’
in generale, al rapporto fra "costi e benefici" connessi
all’introduzione della nuova figura criminosa, rapporto secondo molti
largamente deficitario […] – attengono, tuttavia, all’opportunita’
della scelta legislativa su un piano di politica criminale e
giudiziaria: piano di per se’ estraneo al sindacato di
costituzionalita’» (sentenza n. 250 del 2010);
che analoghe considerazioni valgono anche in rapporto alla
asserita violazione della finalita’ rieducativa della pena:
violazione che il rimettente fa discendere, non da una connotazione
intrinseca della sanzione pecuniaria comminata, e neppure dal suo
difetto di proporzione rispetto al disvalore dell’illecito, ma
esclusivamente dalla sua carenza di effettivita’, legata alla
(ricorrente) condizione di insolvibilita’ dell’autore del fatto;
cio’, senza considerare che l’accoglimento di tale questione
produrrebbe un risultato antitetico rispetto agli intenti del giudice
a quo, risolvendosi, in sostanza, nell’affermazione dell’esigenza
costituzionale di inasprire il trattamento sanzionatorio della
fattispecie criminosa, sostituendo l’attuale pena dell’ammenda con
una pena che offra maggiori garanzie di eseguibilita’ e, cioe’, in
pratica, con la pena detentiva;
che questa Corte ha escluso, inoltre, la configurabilita’ di
una violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparita’
di trattamento rispetto al delitto di inottemperanza all’ordine di
allontanamento impartito dal questore, di cui all’art. 14, comma
5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 (sentenza n. 250 del 2010),
rilevando che la mancata reiterazione nella norma impugnata della
clausola «senza giustificato motivo», presente nella citata
disposizione, non esclude che alla contravvenzione in esame si
applichino le esimenti di ordine generale;
che la diversita’ di regime comunque riscontrabile tra le due
fattispecie – stante la maggiore ampiezza delle situazioni
riconducibili al paradigma del «giustificato motivo» rispetto alle
cause generali di non punibilita’ – non ridonda, d’altronde, in una
violazione del parametro evocato;
che, per un verso, infatti, la scelta di riconoscere
efficacia giustificativa, per il delitto di inottemperanza all’ordine
di allontanamento, a situazioni ostative ulteriori rispetto alle
esimenti di ordine generale trova fondamento nelle peculiarita’ di
tale forma di espulsione, consentita solo ove ricorrano specifiche
situazioni, impeditive dell’accompagnamento immediato alla frontiera
e alle quali sovente corrispondono condizioni di rilevante
difficolta’ di tempestivo adempimento da parte dell’intimato: cosi’
che la clausola in questione rappresenta un elemento che contribuisce
a rendere costituzionalmente "tollerabile" il rigore sanzionatorio
che connota la figura criminosa;
che, sotto altro profilo, poi, alla contravvenzione in esame
e’ applicabile – diversamente che al predetto delitto – l’istituto
della improcedibilita’ per particolare tenuita’ fatto, proprio dei
reati di competenza del giudice di pace (art. 34 del d.lgs. 28 agosto
2000, n. 274, recante «Disposizioni sulla competenza penale del
giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre
1999, n. 468»): istituto che «puo’ valere a "controbilanciare" la
mancata attribuzione di rilievo alle fattispecie di "giustificato
motivo" che esulino dal novero delle cause generali di non
punibilita’» (sentenza n. 250 del 2010);
che quanto, poi, all’ulteriore elemento di discriminazione
denunciato dal rimettente – ossia la circostanza che lo straniero
inottemperante all’ordine di allontanamento del questore sia punito
solo qualora si trattenga nel territorio dello Stato oltre il termine
stabilito (termine che la norma censurata invece non prevede) – vale
osservare che cio’ rientra nella logica del «"salto di qualita’"
della risposta punitiva» prefigurato dall’art. 14, comma 5-ter, del
d.lgs. n. 286 del 1998: «salto di qualita’» che interviene solo
allorche’ lo straniero – che gia’ versa in una condizione di
irregolarita’, rilevante agli effetti dell’art. 10-bis – ometta di
adeguarsi, entro il termine assegnatogli, al sopravvenuto
provvedimento amministrativo individualizzato che gli impone di
lasciare il territorio nazionale;
che con riguardo, ancora, alla questione afferente alla
mancata previsione di una disciplina transitoria a tutela degli
stranieri irregolarmente presenti nel territorio dello Stato al
momento dell’entrata in vigore della nuova norma incriminatrice,
questa Corte ha gia’ ritenuto inammissibile analoga questione –
sollevata in rapporto a diverso parametro (l’art. 24, anziche’ l’art.
3 Cost.) – rilevando come essa si risolva «nella richiesta di una
pronuncia additiva dai contenuti indefiniti e non costituzionalmente
obbligati»: non potrebbe essere, infatti, la Corte «a stabilire "un
termine e una modalita’ operativa" per consentire a detti stranieri
di allontanarsi spontaneamente dall’Italia senza incorrere in
responsabilita’ penale, trattandosi di operazione che implica scelte
discrezionali di esclusiva spettanza del legislatore» (sentenza n.
250 del 2010).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla
Corte costituzionale.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Riuniti i giudizi,
Dichiara la manifesta inammissibilita’ delle questioni di
legittimita’ costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo
25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge
15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 (quanto alla
preclusione dell’oblazione e alla mancata previsione di una
disciplina transitoria), 24 e 117 della Costituzione, dal Giudice di
pace di Trieste con le ordinanze indicate in epigrafe;
Dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di
legittimita’ costituzionale del citato art. 10-bis del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286, sollevate, in riferimento agli
artt. 3 (quanto ai restanti profili), 25, secondo comma, e 27 della
Costituzione, dal Giudice di pace di Trieste con le medesime
ordinanze.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

Il Presidente: De Siervo

Il redattore: Frigo

Il cancelliere: Di Paola

Depositata in cancelleria l’11 novembre 2010.

Il direttore della cancelleria: Di Paola

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Fonte: http://www.gazzettaufficiale.it/

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