Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 24-10-2011, n. 22008 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata in data 17 maggio 2007 e notificata il successivo 15 giugno, la Corte d’appello di Milano, ha, per quanto qui interessa, confermato la decisione del primo giudice, di accertamento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro subordinato tra M.B. e la s.r.l. Edizioni Idea Donna dal febbraio 1998 al 3 luglio 1999, ritenendo fittizio il rapporto di lavoro intercorso tra la M. e la s.r.l. Lizia 87 dal 4 gennaio al 3 luglio 1999, istaurato con un contratto a tempo determinato di cui ha ritenuto pertanto illegittima l’apposizione dei termine. Ha poi riformato la decisione di primo grado, quanto alle conseguenze tratte dai suddetti accertamenti, condannando la sola E.I.D. s.r.l. a pagare alla dipendente il danno equivalente al trattamento economico complessivo dal 30 luglio 1999 all’11 agosto 2005.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la s.r.l.

Edizioni Idea Donna, affidandolo a due motivi.

Resiste alle domande la M. con rituale controricorso.
Motivi della decisione

1 – Col primo motivo di ricorso, la società deduce l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata laddove la Corte territoriale aveva confermato la valutazione del Tribunale relativamente alla natura subordinata del rapporto di collaborazione tra la M. e la EID ed al fatto che esso fosse proseguito con le medesime mansioni di decoratrice e con le medesime modalità precedenti anche dopo che la lavoratrice era stata Normalmente assunta dalla Lizia".

I giudici di secondo grado avrebbero motivato il loro convincimento "sulla base di un non imparziale riassunto delle risultanze istruttorie", ritenendo altresì erroneamente contraddittoria la qualificazione operata in giudizio dalla EID della attività svolta dalla M. in suo favore nel secondo periodo, quando ella era dipendente a tempo determinato della Lizia, in termini prima di "distaccò" e poi di "appalto lecito di manodopera", per giunta illogicamente affermando che con tale ultima qualificazione, la EID avrebbe riconosciuto "che le modalità del rapporto con se stessa fossero quelle di lavoro dipendente". In definitiva, la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare in maniera adeguata che lavoratrice non aveva provato la simulazione del rapporto di lavoro con la Lizia e anzi essa stessa in un primo momento avrebbe denunciato, per il tramite del proprio difensore, l’attribuzione da parte della Lizia di mansioni di trasporto merci, archivio, fattorinaggio, età, incompatibili con la qualifica di 5 livello del C.C.N.L. applicato. Con la conseguenza del "travisamento della vera e decisiva situazione di fatto", per effetto delle "omissioni e le contraddizioni che inficiano gravemente la motivazione della sentenza".

Il motivo è manifestamente infondato.

Le considerazioni svolte dal giudice dell’appello in ordine alle tesi difensive della società che qualificano la prestazione resa dalla M. a suo vantaggio nel secondo periodo come distacco e appalto lecito di manodopera, rappresentano infatti nella motivazione della sentenza rilievi di mero contorno, mentre il nucleo centrale, il senso della motivazione è rappresentato dalle pur sintetiche considerazioni secondo cui, alla stregua delle testimonianze raccolte in primo grado, era risultato che il rapporto di collaborazione nella fase iniziale aveva i connotati della subordinazione e che lo stesso era proseguito con le medesime modalità (spazio – temporali, provenienza delle direttive, controlli in corso d’opera etc.) anche nella seconda fase, in cui era stato fittiziamente imputato alla Lizia 87.

Non appaiono pertanto decisive le censure svolte sul primo argomento dalla società, la quale poi, con riferimento all’effettivo contenuto motivazionale della decisione, si limita a deduzioni generiche relative ad una pretesa erronea valutazione delle prove (e non di errori di fatto, censurabili esclusivamente col mezzo di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, come sembra intendere la difesa della contro ricorrente), senza indicare il contenuto di quelle che orienterebbero in maniera decisiva per conclusioni diverse da quelle ritenute dai giudici.

Salvo riferire di una missiva del 16 luglio 1999, diretta alle due società, col quale il difensore della M. aveva lamentato l’assegnazione di questa a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie della qualifica riconosciutale dalla Lizia 87 e comunque diverse da quelle di decoratrice, in precedenza svolte presso EID. Trattasi di circostanza che non esclude, pur nel demansionamento, la interposizione fittizia di persona e la prosecuzione di un unico rapporto, rivelata dalla identità dei connotati spazio-temporali e modali dello stesso, come adeguatamente accertato dai giudici di merito.

Anche a prescindere da una certa vaghezza nella "indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero" del "le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione" (necessaria, a pena di inammissibilità, a norma dell’art. 366-bis c.p.c., applicabile ratione temporis al ricorso in esame) il motivo contiene pertanto censure in parte riferite ad argomentazioni non decisive e in parte generiche (e quindi inammissibili).

2 – Col secondo motivo, viene denunciato il vizio di motivazione della sentenza su punti decisivi nonchè l’errata applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 e dell’art. 1227 c.c., comma 2.

Anche tale motivo è comunque manifestamente infondato.

La stessa società ricorrente, infatti, interpreta correttamente le pur involute espressioni della sentenza riguardanti le conseguenze degli accertamenti espletati ( "Da quanto sopra discende la nullità del termine inserito in un contratto in corso. Pur se non voglia trarsi da ciò la conseguente natura di licenziamento del recesso intimato da Lizia – con la conseguente applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 quanto al risarcimento del danno (il rapporto si è comunque risolto l’11 agosto 2005), posto che non si è in primo grado neppure allegato e in appello comunque non provato il ricorrere del requisito numerico (Cass, S. U. 10 gennaio 2006 n. 141) – competono all’attrice a titolo di risarcimento del danno tutte le retribuzioni dalla data di costituzione (30 luglio 2005; tra le molte, Cass. 27 ottobre 2005 n. 20858") nel senso della impossibilità di qualificare la comunicazione della scadenza del termine come licenziamento e tuttavia sviluppa la prima parte delle censure contenute nel secondo motivo per sostenere (quindi inutilmente) che semmai non sarebbe applicabile nel caso in esame l’art. 18 S.L. ma la L. n. 604 del 1966, art. 8 (formulando altresì al riguardo un quesito di diritto, anch’esso pertanto non pertinente rispetto all’effettivo contenuto della decisione censurata.

Inoltre, nonostante che l’esplicito richiamo alla sentenza di questa Corte n. 20858/05 renda evidente che, con l’espressione sopra riferita "dalla data di costituzione", la sentenza faccia riferimento all’istituto della "costituzione in mora del creditore", di cui l’art. . 1206 e segg., in particolare art. 1217 c.c., ne cessaria, in caso di nullità del termine, per la decorrenza del danno da risarcire e nonostante che nel caso di specie tale costituzione in mora sia stata individuata in un atto (presumibilmente la lettera del legale della lavoratrice, citata dalla stessa ricorrente a pag. 12 del ricorso) del 30 luglio 1999 (come indicato nel dispositivo della sentenza, mentre il diverso anno riportato nella motivazione è frutto di un errore, come compreso chiaramente dalla ricorrente nel proprio atto), la società rifiuta di affrontare la relativa tematica con eventuali censure, ipotizzando irrealisticamente una intima contraddizione nella motivazione della sentenza che, pur dichiarando non invocabile la disciplina dei licenziamenti, avrebbe nel caso in esame fatto applicazione dell’art. 18 S.L..

Nella seconda parte del motivo, la società censura la sentenza per avere apoditticamente affermato (citando Cass. 11 maggio 2005 n. 9898, che in realtà riguarderebbe un caso diversa) che la mera inerzia non integra la fattispecie dell’art. 1227 c.c., comma 2. In proposito, la Corte d’appello non avrebbe infatti tenuto conto del fatto che nonostante la M. si fosse attivata già con lettera dei propri difensori del 30 luglio 1999 per impugnare il "licenziamento", avviando altresì la procedura di tentativo obbligatorio di conciliazione, aveva poi proposto il ricorso introduttivo del presente giudizio solo il 10 febbraio 2005, per cui sarebbe evidente il tentativo di lucrare compensi senza effettuare alcuna prestazione; tanto più che, invitata a riprendere servizio a seguito della decisione qui impugnata, la M. avrebbe declinato l’invito.

Anche tale censura è infondata dovendosi ritenere che la mera inerzia del lavoratore nel promuovere il giudizio per ottenere i danni conseguenti alla mancata ripresa del rapporto di lavoro, richiesta dal lavoratore col sostenere la nullità del termine apposto allo stesso, non possa di per sè, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 2, costituire causa di limitazione del risarcimento dovutogli, ben potendo il datore di lavoro supplire a tale inerzia con la propria iniziativa giudiziaria.

Il ricorso va pertanto respinto, con la conseguente condanna della società ricorrente a rimborsare alla M. le spese del giudizio, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla M. le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 3.000,00, oltre accessori, per onorari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *