Cass. pen., sez. II 26-06-2008 (24-06-2008), n. 25902 Uso di un’arma – Necessità che l’arma sia impugnata

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza dell’11.11.2002, il Tribunale di Matera dichiarò, fra l’altro: D.L.R.A. responsabile dei reati di cui all’art. 629 c.p., commi 1 e 2, artt. 611 e 644 c.p., e lo condannò alla pena di anni 4 mesi 9 di reclusione ed Euro 650,00, di multa per estorsione continuata, di mesi 5 di reclusione per il reato di cui all’art. 611 c.p., di anni 3 mesi 10 di reclusione ed Euro 15.000,00, di multa per usura in danno di M.P., di anni 1 mesi 2 di reclusione ed Euro 6.000,00, di multa per usura in danno di S.F., di anni 1 mesi 10 di reclusione per usura in danno di B.D. e così alla pena complessiva di anni 12 di reclusione ed Euro 31.650,00 di multa;
M.R. e O.P. responsabili del reato di estorsione e li condannò rispettivamente alla pena di anni 5 mesi 6 di reclusione ed Euro 1.000,00, di multa e di anni 5 di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa.
M. fu interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena e gli altri imputati furono interdetti per anni cinque dai pubblici uffici.
D.L. fu sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata minima di anni 3.
Gli imputati furono altresì condannati al pagamento in solido delle spese processuali e ciascuno al risarcimento dei danni ed alla rifusione delle spese di giudizio a favore delle parti civili (D. L. in favore della curatela del fallimento di C. G., di C.G., di M.P., di L.G., quale erede di S.F., di B. D. e Br.Do.; M. e O. in favore di M.P.).
Avverso tale pronunzia, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Potenza (limitatamente alle pene accessorie), i predetti ed altri imputati proposero gravame e la Corte d’appello di Potenza, con sentenza del 27.1.2006, fra l’altro, concesse a D.L. le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, dichiarò non doversi procedere nei confronti dello stesso in ordine ai reati di cui all’art. 611 c.p., ed ai reati di usura in danno di M.P., S. e B. perchè estinti per intervenuta prescrizione e lo condannò, per il reato di estorsione continuata alla pena di anni 4 mesi 7 di reclusione ed Euro 600,00, di multa, con riduzione della durata minima della libertà vigilata ad anni 1.
Ridusse la pena inflitta a M. ad anni 3 mesi 6 di reclusione ed Euro 1.000,00, di multa e la pena inflitta ad O. ad anni 3 mesi 4 di reclusione ed Euro 1.000,00, di multa. I predetti furono dichiarati interdetti dai pubblici uffici per la durata di anni 5.
Confermò le statuizioni civili relative ai predetti imputati e li condannò alla rifusione a favore delle parti civili delle spese di giudizio.
Ricorrono per cassazione il difensore dell’imputato D.L., M. personalmente ed il difensore di O..
Il difensore di D.L. deduce:
1. violazione di legge, omessa assunzione di una prova decisiva e vizio di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità per il delitto di estorsione aggravata, che sarebbe solo apparente e non potrebbe essere integrata dal richiamo alla sentenza di primo grado che sarebbe altrettanto immotivata; non sarebbe stata esaminata la censura specificamente svolta nei motivi di appello circa l’inattendibiltà di C.G., alle cui dichiarazioni non vi sarebbero riscontri ed i fatti riferiti non sarebbero neppure esattamente collocabili (la persona offesa parla di "una volta" e riferisce un episodio mai denunciato); la persona offesa ha indicato l’arma del ricorrente in una pistola semiautomatica affermando di aver ciò appreso dai Carabinieri a fronte della descrizione fornita e – a fronte della contestazione di non aver denunziato il fatto – ha precisato di aver parlato con i Carabinieri di altri e diversi episodi di minaccia ad opera di altri soggetti e poi, avendo appreso che quelle armi erano semiautomatiche, aveva desunto che anche quella del ricorrente lo fosse; la sentenza impugnata non avrebbe risposto alle specifiche censure; sarebbe priva di motivazione la sentenza con riferimento alla mancata assunzione del teste Avv. Auletta che certamente avrebbe avuto notizia di eventuali minacce patite dal suo assistito; mancherebbe motivazione in relazione all’aggravante dell’arma dal momento che non è stato accertato se l’arma sia stata mostrata;
2. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla declaratoria di prescrizione del reato di cui all’art. 611 c.p., anzichè ad un proscioglimento nel merito, dal momento che, secondo il racconto della persona offesa D.L. aveva solo la faccia arrabbiata e non proferì minaccia alcuna; inoltre il fine di indurre la persona offesa a non denunciare i fatti sarebbe stato trasformato nel fine di ritrattare in violazione dell’art. 521 c.p.p.;
3. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla determinazione della pena per il reato di estorsione aggravata, in quanto, avendo la Corte territoriale riconosciuto le attenuanti generiche giudicate equivalenti alle aggravanti, la pena base non avrebbe più potuto essere quella determinata dal primo giudice di anni 4 mesi 6 di reclusione ed Euro 500,00, di multa, ma il minimo edittale era di anni 3 di reclusione ed Euro 516,00, di multa; nè, in assenza di appello del P.M. avrebbe potuto essere individuata una pena più elevata di quella inflitta dal Tribunale;
4. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’applicazione della misura di sicurezza per la dura minima di anni 1, in quanto il riferimento ai danni cagionati alla persona offesa non avrebbe attinenza alla pericolosità e non sarebbe stata valutata l’epoca remota dei fatti.
M.R. deduce:
1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità in ordine al reato di estorsione senza evidenziare in modo dettagliato il fatto e sarebbero apodittiche le argomentazioni relative al coinvolgimento del ricorrente; non vi sarebbero prove certe e tangibili;
2. violazione di legge in relazione all’incompetenza del Tribunale di Matera perchè il reato sarebbe stato consumato in (OMISSIS);
3. violazione di legge in relazione alla mancata applicazione della continuazione fra il fatto oggetto del presente procedimento ed il reato di detenzione illegale di arma per il quale vi è condanna definitiva;
4. violazione di legge in relazione alla mancata declaratoria di prescrizione del reato.
Il difensore di O.P. deduce:
1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità del ricorrente per il delitto di estorsione, benchè il Tribunale avesse riconosciuto che ciascuno degli imputati avesse posto in essere condotte distinte, sicchè non vi sarebbe alcuna condotta di minaccia posta in essere dal ricorrente, nè accordo con altri;
2. violazione di legge e vizio di motivazione in quanto è stato ritenuto che l’imputato avesse minacciato M.P., mentre egli avrebbe solo gridato all’indirizzo di costui e la Corte territoriale non avrebbe chiarito se le forti grida possano costituire minaccia; il fatto che le grida siano state effettuate alla presenza dei dipendenti di M.P. le priverebbe di ogni valenza intimidatoria;
3. violazione di legge e vizio di motivazione in quanto O. non avrebbe avuto alcun rapporto usurario con M.P. e anche se il ricorrente avesse avuto titoli di credito rilasciati dalla persona offesa, esigerne il pagamento non avrebbe integrato il delitto di estorsione; il ricorrente avrebbe agito su delega del fratello per il recupero della gru affidata in comodato a M.P..
Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di D.L. è inammissibile perchè, sotto il profilo della violazione della legge processuale e del vizio di motivazione tenta di sottoporre a questa Corte un giudizio di merito, non consentito neppure alla luce della modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), introdotta con L. n. 46 del 2006, ed inoltre è manifestamente infondato.
Va premesso che la modifica normativa dell’art. 606 c.p.p., lett. e), di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46 lascia inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, il cui vizio di mancanza, illogicità o contraddittorietà può ora essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati. E’ perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorchè si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della motivazione.
Ciò peraltro vale nell’ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell’ipotesi di doppia pronunzia conforme il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice d’appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice.
Infine il dato probatorio che si assume travisato od omesso deve avere carattere di decisività non essendo possibile da parte della Corte di cassazione una rivalutazione complessiva delle prove che sconfinerebbe nel merito.
Nel caso in esame i giudici di merito, non hanno affatto travisato il contenuto delle prove in atti, ma hanno espresso una valutazione sulle stesse. In particolare non è vero che non sia stata esaminata la doglianza sul giudizio di attendibilità delle dichiarazioni di C.G., che è stato confermato sulla base del fatto che le stesse erano "ottimamente circostanziate" e riscontrate dai documenti rinvenuti e dalle dichiarazioni di Co.Ma. (f. 13 sentenza impugnata).
In tale valutazione non si ravvisa alcuna manifesta illogicità sicchè le censure svolte non possono essere proposte in questa sede.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "I limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 5^ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745, Cass. Sez. 2^ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).
Le doglianze relative alle pretese contraddizioni relative alla indicazione dell’arma quale semiautomatica non solo non hanno carattere di decisività rispetto al giudizio di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, ma non presentano neppure profili di evidente falsità.
Non si può parlare di mancata ammissione di una prova decisiva quanto alla mancata audizione dell’Avv. Auletta, anzitutto perchè si versa in ipotesi di rinnovazione del dibattimento in appello e la stessa avrebbe dovuto essere disposta, ai sensi dell’art. 603 c.p.p., non trattandosi di prove nuove, solo se il giudice di appello avesse ritenuto di non poter decidere allo stato degli atti ed anche tale valutazione è di merito (v. Cass. Sez. 5 sent. n. 6379 del 17.3.1999 dep. 21.5.1999 rv 213403: "In tema di giudizio di appello, poichè il vigente c.p.p., pone una presunzione di completezza della istruttoria dibattimentale svolta in primo grado, la rinnovazione, anche parziale, del dibattimento ha carattere eccezionale e può essere disposta solo qualora il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Pertanto, mentre la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dar conto dell’uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti, nel caso, viceversa, di rigetto, la decisione può essere sorretta anche da motivazione implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione – in senso positivo o negativo – sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento." Inoltre difetta il carattere di decisività della prova di cui si lamenta la mancata assunzione.
Questa Corte ha affermato (ed il Collegio condivide l’assunto) che "per prova, la cui mancata assunzione può costituire motivo di ricorso per cassazione, deve intendersi solo quella che, confrontata con le ragioni poste a sostegno della decisione, risulti determinante per un esito diverso del processo, e non anche quella che possa incidere solamente su aspetti secondari della motivazione ovvero sulla valutazione di affermazioni testimoniali da sole non considerate fondanti della decisione prescelta". (Cass. Sez. 1^ sent. n. 4836 del 5.4.1994 dep. 28.4.1994 rv 198620).
In altri termini "Il vizio della sentenza di cui all’art. 606 c.p.p., lett. d), (mancata assunzione di una prova decisiva quando la parte ne ha fatto richiesta a norma dell’art. 495 c.p.p., comma 2) consiste in una sorta di "error in procedendo", ravvisabile solamente quando la prova richiesta e non ammessa, confrontata con le argomentazioni formulate in motivazione a sostegno ed illustrazione della decisione, risulti tale che, se esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; perchè si configuri il vizio "de quo" deve cioè necessariamente sussistere la certezza della decisività della prova ai fini del giudizio e dell’idoneità dei fatti che ne sono oggetto ad inficiare le ragioni poste a base del convincimento manifestato dal giudice". (Cass. Sez. 2^ sent. n. 2380 del 27.1.1995 dep. 9.3.1995 rv 200980).
Peraltro "il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), (mancata assunzione di prova decisiva) rileva solo quando la prova richiesta e non ammessa, confrontata con le argomentazioni a sostegno della decisione adottata, risulti "decisiva", cioè tale che, se esperita, avrebbe potuto determinare una diversa soluzione.
La valutazione di siffatta decisività deve quindi essere compiuta accertando se i fatti indicati dal ricorrente nella relativa richiesta siano tali da potere inficiare tutte le argomentazioni poste a fondamento del convincimento del Giudice". (Cass. Sez. 1^ sent. n. 12584 del 21.10.1994 dep. 20.12.1994 rv 200073).
Pertanto "il diritto della parte a vedersi ammettere prove contrastanti con l’accusa, la cui mancata assunzione è denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 606 c.p.p., lett. d) in relazione all’art. 495 c.p.p., comma 2, va rapportato, per verificarne il fondamento alla motivazione della sentenza impugnata. Viene, infatti, ad essere priva di fondamento la censura che denunzi il rigetto, sul punto, della istanza difensiva, se tale rigetto risulti sorretto da argomentazioni logiche, idonee a dimostrare che le cosiddette controprove, dedotte dalla parte, non possono modificare il peso delle prove di accusa". (Cass. Sez. 6^ sent. n. 11411 del 14.10.1993 dep. 14.12.1993 rv 198554).
Quanto al fatto che non vi sarebbe risposta a specifiche censure mosse nei motivi di appello va ricordato che secondo l’orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide, "anche nella vigenza del nuovo codice di procedura penale vale il principio secondo cui il vizio di motivazione non può essere utilmente dedotto in Cassazione sol perchè il giudice abbia trascurato o disatteso degli elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero dovuto o potuto dar luogo ad una diversa decisione, poichè ciò si tradurrebbe in una rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità. Esso è configurabile, invece, unicamente quando gli elementi trascurati o disattesi abbiano un chiaro ed inequivocabile carattere di decisività, nel senso che una loro adeguata valutazione avrebbe dovuto necessariamente portare, salvo intervento di ulteriori e diversi elementi di giudizio, ad una decisione più favorevole di quella adottata". (Cass. Pen. sez. 1^ sent. 6922 del 11.5.1992 dep. 11.6.1992 rv 190572).
Per quanto attiene al fatto che l’arma non sarebbe stata utilizzata per minacciare, va ricordato che, per la configurabilità dell’aggravante dell’arma, nel delitto di estorsione, e necessario che il reo sia palesemente armato, ma non che l’arma sia addirittura impugnata per minacciare, essendo sufficiente che essa sia portata in modo da poter intimidire, cioè da lasciare ragionevolmente prevedere e temere un suo impiego quale mezzo di violenza o minaccia per costringere il soggetto passivo a subire quanto intimatogli. (V. Cass. Sez. 1^ sent. n. 16211 del 5.10.1978 dep. 29.12.1978 rv 140683).
Il secondo motivo proposto nell’interesse di D.L. è manifestamente infondato.
Quanto alla pretesa imputazione del fatto questa Corte ha affermato (ed il Collegio condivide l’assunto) che "si ha mancata correlazione tra fatto contestato e sentenza – o nullità della sentenza per difetto di contestazione – quando vi sia stata una immutazione tale da determinare uno "stravolgimento" dell’imputazione originaria:
quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi cioè, rispetto a quello contestato, in rapporto di ontologica eterogeneità o incompatibilità, nel senso che viene a realizzarsi una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato posto in tal modo di fronte ad un fatto "nuovo", rispetto al quale non ha alcuna possibilità di effettiva difesa". (Cass. Sez. 1^ sent. 9958 del 27.10.1997 dep. 5.11.1997 rv 208935).
In ordine alla mancata pronunzia di assoluzione nel merito anzichè per prescrizione è sufficiente ricordare che, secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio "in presenza di una causa estintiva del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., solo nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile; tanto che la valutazione da compiersi in proposito appartiene più al concetto di "constatazione" che a quello di "apprezzamento". Ed invero il concetto di "evidenza", richiesto dal dell’art. 129 c.p.p., comma 2, presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara ed obiettiva, che renda superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione ad un accertamento immediato. Ne consegue che gli atti dai quali può essere desunta la sussistenza della "causa più favorevole" sono costituiti unicamente dalla stessa sentenza impugnata, in conformità ai limiti di deducibilità del vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)". (Cass. Sez. 6^ sent. n. 31463 del 8.6.2004 dep. 16.7.2004 rv 229275).
Nel caso di specie non si ravvisa nella motivazione della sentenza della Corte territoriale alcun vizio di tal genere in relazione alla dichiarazione di non doversi procedere per estinzione del reato per prescrizione.
Il quarto motivo proposto nell’interesse di D.L. è manifestamente infondato dal momento che la sociale pericolosità dell’imputato è stata anzitutto motivata in base alla "pervicacia nella attività delittuosa" (f. 23 sentenza impugnata), desumibile dal numero di episodi contestati.
E’ invece fondato il terzo motivo di ricorso proposto nell’interesse di D.L..
In conseguenza del riconoscimento delle attenuanti generiche giudicate equivalenti alle aggravanti la pena base aveva un minimo edittale di anni 3 di reclusione ed Euro 516,00, di multa ed ai sensi dell’art. 597 c.p.p., comma 4, il giudice d’appello avrebbe dovuto diminuire la pena inflitta dal primo giudice, che tali attenuanti non aveva riconosciuto.
La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro per una nuova determinazione della pena.
Il primo motivo di ricorso proposto da M. è inammissibile per violazione dell’art. 591 c.p.p., lett. c) in relazione all’art. 581 c.p.p., lett. c) perchè le doglianze sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici.
Il secondo motivo di ricorso proposto da M. è manifestamente infondato e generico, dal momento che il fatto è contestato come commesso in (OMISSIS) e non è precisato nel ricorso per quale ragione il reato dovrebbe invece ritenersi commesso solo in (OMISSIS). Inoltre non consta che l’incompetenza per territorio sia stata eccepita tempestivamente e neppure che sia stata dedotta nei motivi di appello.
Il terzo motivo di ricorso proposto da M. è manifestamente infondato in quanto non consta che sia stata chiesta al giudice d’appello l’unificazione sotto il vincolo della continuazione del reato oggetto del presente procedimento con quello relativo alla detenzione dell’arma, per la quale sarebbe intervenuta sentenza di condanna irrevocabile. Peraltro l’applicazione della continuazione, ove ne sussistano i presupposti potrà essere richiesta al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 671 c.p.p..
Il quarto motivo di ricorso proposto da M. è manifestamente infondato in quanto, essendo il reato commesso fino al (OMISSIS), la prescrizione non è maturata essendo il termine di anni 15 prorogabile della metà.
Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di O. è inammissibile perchè non dedotto nei motivi di appello.
Il secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse di O. è manifestamente infondato dal momento che la sentenza impugnata richiama quella di primo grado affermando che dalle dichiarazioni della persona offesa risultava che O. aveva posto in essere le minacce "di cui in rubrica" (f. 4 sentenza impugnata), vale a dire, come si evince da capo 6, minacce di morte.
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile poichè propone a questa Corte censure di merito, avendo la Corte territoriale affermato che l’imputato aveva riferito al teste P. che M.P. gli doveva dei soldi.
I ricorsi di M.R. e O.P. devono essere pertanto dichiarati inammissibili.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibili i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati in solido al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – ciascuno al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di D.L.R. A. limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro e dichiara inammissibile nel resto il ricorso del predetto D.L..
Dichiara inammissibili i ricorsi di M.R. e O. P. e condanna i predetti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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