Cass. civ. Sez. I, Sent., 24-10-2011, n. 21968 Sentenze ecclesiastiche di nullità, delibazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 5.11.2007 C.T. chiedeva allei Corte di Appello di Venezia di dichiarare efficace nell’ordinamento italiano la sentenza del Tribunale Ecclesiastico Regionale Triveneto, confermata s in sede di gravame dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo e resa esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, con la quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario con M. L.M., celebrato in (OMISSIS).

Quest’ultima, costituitasi, si opponeva alla domanda sostenendo di aver avuto una gravidanza molto difficile all’età di diciassette anni a causa di una anemia mediterranea; che il marito l’aveva abbandonata essendo andato a vivere con altra donna; che era quindi intervenuta separazione consensuale ed era ancora in corso la causa di divorzio; che la sentenza ecclesiastica era contraria all’ordine pubblico perchè da parte sua non era mai stata esclusa la possibilità di avere figli, essendovi solo l’intenzione di differire la decisione in ragione delle non buone condizioni di salute; che la sentenza risultava viziata anche per altro verso, e cioè per la violazione del proprio diritto alla salute; che il provvedimento in questione non avrebbe potuto comunque essere oggetto di delibazione per la difformità riscontrabile rispetto alla sentenza di primo grado che ne avrebbe escluso la definitività.

La Corte di appello dichiarava l’efficacia nel territorio dello Stato della sentenza del tribunale Ecclesiastico in questione, ritenendo sussistenti le condizioni a tal fine richieste ed osservando in particolare, con riferimento al requisito della non contrarietà della statuizione di nullità all’ordine pubblico italiano, che tale ipotetico contrasto non risultava in realtà configurabile, poichè in sede di delibazione di sentenza di nullità matrimoniale "per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii" (quale quella che sarebbe stata ricorrente nel caso di specie) il giudice italiano sarebbe vincolato all’accertamento in fatto compiuto dal giudice ecclesiastico, accertamento che per l’appunto avrebbe deposto nel senso della riscontrata intenzione, da parte della donna, di escludere l’ipotesi della maternità.

Avverso la decisione M.L.M. proponeva ricorso per cassazione affidato a sette motivi, poi ulteriormente illustrati da memoria, cui non resisteva l’intimato.

La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 26.9.2011.
Motivi della decisione

Con i sette motivi di impugnazione M.L. ha rispettivamente denunciato:

1) violazione di legge, per aver la Corte effettuato il controllo di conformità della decisione all’ordine pubblico sulla base del disposto della L. n. 218 del 1995, che fa riferimento all’ordine pubblico internazionale, anzichè su quello degli artt. 796 e 797 c.p.c., che viceversa al medesimo fine richiamano l’ordine pubblico interno;

2) violazione di legge per l’omessa rilevazione del contrasto con l’ordine pubblico interno, ravvisato nella violazione del diritto alla salute, costituzionalmente garantito dall’art. 32 Cost.. La documentazione prodotta avrebbe infatti comprovato le gravi condizioni psicofisiche in cui versava essa ricorrente, e ciò avrebbe dato conferma sia dell’inesistenza di una intenzione di non avere figli che della reale esigenza di un differimento temporaneo della maternità, per la ragione ora indicata;

3) violazione di legge per causale identica a quella indicata sub 2), sotto il profilo della violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost..

La lesione del detto diritto sarebbe invero derivata dal fatto che l’attività istruttoria non si sarebbe svolta correttamente, e ciò in quanto: a) sarebbe stata espressamente manifestata la volontà di non escludere in modo assoluto di avere figli; b) gli addebiti mossi al marito circa la volontà di non avere figli non sarebbero stati contrastati, e quindi il relativo contenuto sarebbe stato implicitamente ammesso; c) i testi di parte attrice, che avrebbero deposto in senso contrario, sarebbero stati inattendibili; d) a torto non sarebbe stato considerato grave il motivo di salute addotto nel giudizio davanti al tribunale ecclesiastico, così come analogamente a torto sarebbe stato affermato il raggiungimento di una certezza morale sul punto; e) il Tribunale Ecclesiastico in sede di impugnazione avrebbe omesso di acquisire la memoria di appello da lei predisposta e di accogliere la richiesta di riesame del Difensore del Vincolo, così valutando diversamente le prove raccolte in primo grado e determinando una difformità fra le due decisioni adottate;

4) vizio di motivazione con riferimento al giudizio relativo alle condizioni di salute di essa ricorrente;

5) violazione di legge sotto il profilo della lesione del diritto di difesa, in ragione del fatto che le dichiarazioni riportate nelle sentenze non sarebbero state valutate nella loro ìntegralità e sarebbero state estrapolate dal loro contesto;

6) violazione di legge per contrasto della sentenza con l’ordine pubblico italiano, sotto l’aspetto della mancata tutela della buona fede.

La crisi del matrimonio sarebbe stata infatti determinata dall’infedeltà del C., mentre la relativa riserva mentale sul punto sarebbe stata ignorata da essa ricorrente, circostanza che avrebbe integrato gli estremi della violazione della propria buona fede;

7) vizio di motivazione per l’affermata corrispondenza dell’art. 123 c.c. con il canone 1101, che sarebbe stata invece insussistente.

Alla luce di quanto sopra esposto emerge dunque, sinteticamente, che l’erroneità della decisione impugnata è stata dedotta sotto i profili: dell’inesattezza del richiamo alla L. n. 218 del 1995, art. 64 al fini della dichiarazione di efficacia della sentenza del Tribunale Ecclesiastico (primo motivo); del contrasto con l’ordine pubblico interno per violazione del diritto alla difesa e di quello alla salute (secondo, terzo, quarto e quinto motivo); dell’esistenza di una riserva mentale da parte del C. circa il rispetto dell’obbligo di fedeltà (sesto motivo); del parallelismo (ritenuto improprio) configurato fra l’art. 123 c.c. ed il canone 1101, che per tale ragione determinerebbe un vizio di motivazione (settimo motivo).

Osserva al riguardo il Collegio che le censure sono infondate anche se, con riferimento al primo motivo, è riscontrabile una imprecisione nella motivazione, che va pertanto corretta sul punto.

Ed infatti la Corte di appello, pur avendo valutato le condizioni per la declaratoria di efficacia della sentenza ecclesiastica alla stregua delle condizioni richieste dalla legge italiana, e quindi tenendo conto dell’ordine pubblico interno al quale ha fatto esplicito riferimento, ha espressamente richiamato quale parametro utilizzabile per la relativa delibazione la L. n. 218 del 1995, art. 64. Tuttavia nella specie risultano viceversa applicabili gli artt. 796 e 797 c.p.c., e ciò per effetto del richiamo ai detti articoli contenuto nell’Accordo di modificazione del Concordato lateranense, reso esecutivo con L. 25 marzo 1985, n. 121, e gerarchicamente sovraordinato alla legge ordinaria in virtù del principio concordatario accolto dall’art. 7 Cost. (C. 06/4876, C. 03/8764).

La denuncia della pretesa lesione dei diritti alla salute ( art. 32 Cost.) e di difesa ( art. 24 Cost.), che determinerebbe un contrasto con l’ordine pubblico interno, risulta poi inconsistente sotto un duplice aspetto.

Da una parte la detta violazione è stata invero prospettata non già in ragione dell’affermazione di principio dell’applicazione di metodiche da parte del giudice ecclesiastico contrastanti con la tutela dei sopra citati diritti, costituzionalmente garantiti, ma piuttosto sotto il profilo degli effetti che, in ragione della decisione adottata dal detto giudice all’esito degli accertamenti disposti ed effettuati secondo la vigente disciplina del codice di rito applicabile in tale giudizio, si sarebbero determinati in danno della ricorrente.

Dall’altra è stata sostanzialmente delineata una interpretazione del materiale probatorio difforme da quella posta dal giudicante a base della sua decisione, interpretazione che a sua volta presupporrebbe un accertamento in punto di fatto, e cioè l’esistenza di una grave condizione di salute della M., l’incidenza negativa (anche solo potenziale) di una eventuale maternità sulle dette condizioni, l’attribuzione del dato relativo all’assenza di figli all’esigenza di difendere la propria salute, accertamento che non risulta esservi stato. Identiche considerazioni valgono poi con riferimento all’asserita violazione del diritto di difesa, rispetto alla quale la M. si è sostanzialmente doluta del fatto che le circostanze da lei rappresentate sarebbero emerse con chiarezza da una corretta interpretazione del materiale probatorio acquisito, e sarebbero state viceversa erroneamente ignorate dal giudicante a causa di una inadeguata lettura degli atti processuali. Quanto infine alla pretesa non conformità della sentenza di appello a quella di primo grado, l’assunto non trova conforto nella stessa indicazione data dal ricorrente (che l’ha individuata esclusivamente in una non coincidente interpretazione delle prove raccolte) e, in particolare, nell’avvenuta emissione del decreto di esecutività del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica (C. 93/3635). Sono inoltre inammissibili il quarto, il quinto ed il sesto motivo di impugnazione, per effetto delle seguenti considerazioni.

Per il quarto l’inammissibilità discende dalla non corretta applicazione dell’art. 366 bis c.p.c. all’epoca vigente. La M. con tale motivo ha infatti denunciato un vizio di motivazione, ma la relativa illustrazione non è corredata della chiara indicazione del fatto controverso (la ricorrente si è invero limitata a formulare tre quesiti di diritto, viceversa prescritti per la denuncia di violazione di legge) che, ai fini della sua corretta prospettazione, richiede la rappresentazione di un momento di sintesi che ne circoscriva puntualmente i limiti (C. 08/26014, C. 08/25117, C. 08/16558, C. 08/4646, C. 07/20603). In ordine al quinto motivo va rilevato che la Corte di appello, cui era stata prospettata analoga doglianza, l’ha disattesa poichè "l’eccezione si pone in contrasto peraltro con il principio secondo cui il giudice italiano non ha il potere di riesaminare nel merito la decisione ecclesiastica" (p. 8), essendo "il giudice italiano vincolato ai fatti accertati in quella pronuncia", statuizione che risulta in linea con la giurisprudenza di questa Corte (C. 08/2467, C. 99/4311) e che rende del tutto inconsistenti le doglianze concernenti il contenuto di documenti di cui si assume l’errata valutazione da parte del giudice ecclesiastico.

Quanto al sesto motivo, è sufficiente rilevare che la questione relativa alla pretesa riserva mentale del marito circa il rispetto dell’obbligo di fedeltà non è stata oggetto di esame da parte del giudice ecclesiatico, che nulla risulta aver statuito sul punto, sicchè la stessa è fisiologicamente sottratta al giudizio della Corte di appello, sollecitata alla declaratoria di efficacia nella Repubblica della sentenza straniera.

Resta infine il settimo motivo, con il quale è stato denunciato un vizio di motivazione in ragione dell’affermata "corrispondenza tra l’art. 123 c.c., che prevede l’istituto della simulazione ed il canone 1101 CIC, che disciplina l’esclusione di un bene essenziale del matrimonio" (le ulteriori argomentazioni svolte con la memoria rilevano nei limiti consentiti dalla censura come sopra prospettata), motivo che appare privo di pregio perchè, oltre a non essere confortato dall’indicazione del fatto controverso, è incentrato su un profilo che la Corte di appello non ha posto a base della decisione impugnata e la cui eliminazione, quindi, non potrebbe comunque determinare alcuna incidenza sul relativo contenuto.

Il giudice del merito, infatti, si è limitato ad affermare sul punto che l’invalidità del vincolo matrimoniale per esclusione della prole da parte della donna (canone 1101) non si pone in contrasto con l’ordine pubblico italiano, ed ha confortato poi tale affermazione con la disciplina dell’art. 123 c.c., che prevedendo l’impugnazione del matrimonio nel caso in cui gli sposi avessero convenuto di non adempierne gli obblighi ed esercitarne i diritti, sarebbe espressione di un principio analogo.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, mentre nulla va disposto in ordine alle spese processuali poichè l’intimato non ha svolto attività difensiva.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

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