Cass. civ. Sez. I, Sent., 24-10-2011, n. 21938

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Svolgimento del processo

M.M. agiva davanti al Tribunale di Vicenza per ottenere la dichiarazione della estensione degli effetti della sentenza del Tribunale di Vicenza n. 617/98 alla società convenuta Tecnicapompe Zanin s.r.l. Con tale sentenza il Tribunale vicentino aveva condannato la ditta Tecnicapompe di Zanin Giorgio al pagamento della somma di L. 8.097.160 oltre interessi dal 12 novembre 1987 al saldo.

Assumeva il M. che, a seguito della cessione dell’azienda dalla ditta individuale dello Z. alla s.r.l. Tecnicapompe Zanin aveva diritto, ex art. 2555 c.c., a far valere il suo credito nei confronti della società conferitaria.

Si costituiva la s.r.l. convenuta ed eccepiva l’inefficacia della sentenza n. 617/98 nonchè il difetto di responsabilità, ex art. 2560 c.c., per i debiti contratti dallo Z. anteriormente alla cessione del ramo di azienda e non risultanti dai libri contabili obbligatori. In subordine eccepiva il proprio difetto di legittimazione.

Il Tribunale di Vicenza rigettava la domanda del M. e la Corte di appello di Venezia ha confermato tale decisione.

Ricorre per cassazione M.M. affidandosi a due motivi di impugnazione.

Si difende con controricorso la s.r.l. Tecnicapompe Zanin.
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce l’omessa motivazione su un fatto fondamentale della controversia.

Il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c. in quanto il ricorrente non ha adempiuto alla prescrizione del predetto articolo secondo cui, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2560 c.c. Il ricorrente sottopone alla Corte il seguente principio di diritto:

dica la Suprema Corte se, per quanto previsto all’art. 2560 c.c., comma 2 il cessionario di un’azienda non sia responsabile per il pagamento di un debito accertato con sentenza passata in giudicato in un procedimento iniziato contro il proprio cedente, qualora la cessione sia avvenuta nelle more del giudizio che ha portato alla condanna del proprio dante causa/cedente.

Anche questo motivo di ricorso è inammissibile. La Corte di appello ha rilevato l’inammissibilità della mutatio libelli con la quale l’appellante aveva modificato nel corso del giudizio di appello la causa petendi originariamente basata sulla richiesta di applicazione dell’art. 2560 c.c. e successivamente modificata nella richiesta di applicazione dell’art. 2558 c.c. e ha peraltro rilevato che tale richiesta doveva considerarsi infondata in quanto la norma da ultimo invocata regola il subentro nei contratti aziendali non già nei contratti risolti per inadempimento del cedente come quello oggetto della sentenza n. 617/98 del Tribunale di Vicenza.

La sentenza impugnata della Corte di appello di Venezia esclude, per altro verso, la fondatezza della domanda sotto il profilo dell’applicazione dell’art. 2560 c.c. in quanto la condizione, prevista dal comma 2, per l’accollo dei debiti da parte dell’acquirente del ramo d’azienda è quella della loro iscrizione nei libri contabili dell’azienda ceduta ma tale condizione, che doveva essere provata dal creditore, non risulta neanche dedotta.

Infine la Corte di appello esclude l’efficacia della citata sentenza n. 617/98 nei confronti della odierna controricorrente rilevando che in base al principio generale di cui all’art. 2909 c.c. la sentenza passata in cosa giudicata ha efficacia tra le parti e gli aventi causa del rapporto dedotto in sentenza e ribadisce che una successione nel rapporto può sussistere, nel caso di cessione del ramo di azienda, solo alle citate condizioni previste dall’art. 2560 c.c..

Nessuna di queste rationes decidendi, esplicitate dalla Corte di appello nella sua motivazione, è stata impugnata dal ricorrente, come si evince chiaramente dalla lettura del quesito di diritto sottoposto alla Corte. Ciò comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 1.200,00, di cui 200,00 per spese, oltre spese generali e accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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