Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 28-04-2011) 15-06-2011, n. 24020

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Premessa.

Con sentenza del 7 maggio 2009 la Corte d’appello di Bari confermava quella emessa in data 1^ aprile 2008 dal giudice dell’udienza preliminare che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato C.A. e altri colpevoli dei delitti di associazione per delinquere di tipo mafioso, di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti e dei relativi reati-scopo.

Il nucleo di entrambe le associazioni criminose era costituito da persone legate da rapporti di parentela, già giudicate e condannate con sentenze definitive per gli anzidetti reati associativi, cosicchè, per evitare sovrapposizioni, la commissione del reato di cui all’art. 416 bis c.p. oggetto del presente processo fu contestata a decorrere dall’anno 2003, mentre quella del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 decorre dall’1 giugno 2004.

La data finale non è stata precisata e pertanto va individuata con quella della pronuncia della sentenza di primo grado.

Contro la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica e gli imputati generalizzati in epigrafe.

I rispettivi motivi di impugnazione sono di seguito riassunti rispettando l’ordine alfabetico dei nomi dei ricorrenti.

Il Procuratore Generale.

1. Il pubblico ministero ricorrente impugna la sentenza sui seguenti punti:

1. l’esclusione dell’aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7 contestata per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74, sostenendo:

– che i risultati delle conversazioni intercettate dimostrerebbero che gli autori dei reati in materia di stupefacenti, per il controllo del territorio in cui esercitavano lo spaccio, si avvalevano della forza di intimidazione derivante dall’appartenenza all’associazione mafiosa;

– che l’associazione finalizzata al narcotraffico era stata costituita come reato-fine dell’associazione mafiosa e i suoi proventi erano destinati, allo stesso modo di quelli provenienti dai delitti di usura e di estorsione, ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa;

2. il riconoscimento, nei confronti di C.A., C. D., C.F. e C.R., del vincolo della continuazione tra i reati associativi loro ascritti e quelli analoghi per i quali furono condannati con precedenti sentenze definitive, assumendo che la decisione non sarebbe stata motivata e che tra i reati associativi oggetto del presente giudizio e quelli già giudicati vi sarebbe discontinuità e non permanenza nel tempo.

2. Il ricorrente propone una lettura alternativa delle risultanze probatorie esaminate e valutate dal giudice d’appello, senza però riuscire a dimostrarne la manifesta erroneità o illogicità, per cui la motivazione della sentenza impugnata è, relativamente a questi punti, incensurabile.

Inoltre, in merito al secondo motivo, si ricorda che la sentenza impugnata si è dovuta soffermare sul fenomeno dell’evidente continuità temporale delle due associazioni per delinquere, la cui nascita risale agli anni 80 e i cui componenti "storici" sono stati già condannati con sentenze definitive, allorchè ha respinto le richieste di proscioglimento avanzate a norma dell’art. 649 c.p.p., obiettando che non s’era verificata duplicazione di giudicati perchè la commissione dei reati associativi per cui è processo cominciava – come è stato specificato nella "Premessa" – dopo la cessazione di quelli già giudicati.

Pertanto il ricorso deve essere rigettato.

B.A..

1. Condannato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., denuncia mancanza di motivazione, perchè la sentenza non avrebbe indicato il contributo dato all’associazione per la realizzazione del programma criminoso nè avrebbe tenuto conto della detenzione protrattasi dal maggio 2004 al giugno 2006. 2. La sentenza impugnata attinge i gravi e convergenti indizi dimostrativi della partecipazione del ricorrente all’associazione mafiosa da diverse fonti probatorie: le conversazioni intercettate nella cella in cui fu ristretto dal luglio al novembre 2004, da cui risulta che prese parte al conflitto armato contro un clan rivale dei Capriati; la conversazione intercettata del 14.4.2005, da cui si ricava il suo collegamento con M.G. nel traffico di stupefacenti; la conversazione dell’11.2.2005, da cui si desume la sua disponibilità a compiere azioni di rappresaglia nell’interesse di persone appartenenti al clan Capriati; infine i ripetuti arresti in flagranza del reato di detenzione illecita di armi da sparo (il 24.1.2004e il 25.7.2004).

A tali risultanze il ricorrente si limita a opporre che la sentenza non avrebbe accertato il contributo prestato all’associazione e, pertanto, il ricorso di appalesa non solo infondato, ma anche generico.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.

C.A..

1. Condannato per:

– estorsione in danno di D.M. (capo C);

– estorsione in danno della cooperativa "Multiservizi Portuali" (capo G);

– reati associativi (capi A e B);

C.A. denuncia vizio di motivazione assumendo: che l’affermazione di responsabilità poggia sulla fama di capoclan acquistata per le imprese compiute prima dell’inizio della detenzione, anzichè su fatti specifici e concreti; che il suo nome è stato utilizzato dagli associati strumentalmente, per incutere maggior timore nelle vittime nonostante la sua estraneità ai fatti;

che i reati associativi sono stati artificiosamente duplicati, posto che i componenti delle due associazioni coincidono.

2. La responsabilità di C.A. in ordine ai reati-scopo ascrittigli non è stata affermata in base alla sua fama di capoclan o a supposizioni investigative, ma si fonda su concreti e precisi elementi di prova rappresentati:

– per l’estorsione in danno di D.M.: dalle dichiarazioni di O., secondo cui fu l’odierno ricorrente a conferire a Mi.Mi. e Q. l’incarico di coartare il debitore D. M. alle indebite dazioni;

– per l’estorsione in danno della cooperativa "Multiservizi Portuali": dalla conversazione intercettata il 24,12.2005, in cui De.Be.Ma. dice che l’imputato stabilì in Euro tremila la somma che doveva essere versata, e dalla conversazione del 15.1.2005, in cui M.G. riferisce che l’imputato gli chiese di ridurre le pretese verso la cooperativa da cinquemila a tremila Euro.

Priva di fondamento è infine la tesi che le due associazioni criminose contestate sarebbero frutto di un artifizio accusatorio.

Invero la sentenza fornisce ampia dimostrazione dell’esistenza e dell’operatività di due distinti sodalizi, che, seppure aventi un nucleo comune, erano diversamente composti, ciascuno dei quali impegnato a realizzare il proprio specifico programma di azioni delittuose.

Pertanto il ricorso, siccome infondato, va rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

C.D., C.F., C.P..

1. Condannati per i reati di cui all’art. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, i sunnominati ricorrenti denunciano vizio di motivazione, assumendo che lo stato di carcerazione aveva impedito la prosecuzione dell’attività criminosa e che la partecipazione alle "spartenze" non significava persistenza del vincolo associativo ma adempimento di un dovere dettato dalla morale familiare.

C.D., inoltre, lamenta che la prova relativa ai reati di estorsione (capi G e H) si fonderebbe su conversazioni intercettate dal significato equivoco.

2. I ricorrenti, detenuti in espiazione di pena inflitta per il reato di associazione di tipo mafioso ( C.D. e C. F. anche per quello di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74), denunciano l’illegittimità della nuova condanna per lo stesso reato, assumendo che la carcerazione avrebbe loro impedito di continuare l’attività criminosa e che la percezione di somme di denaro a loro versate dagli associati in libertà non era idonea a dimostrare l’attuale persistenza del vincolo associativo.

Il motivo è infondato.

Giova rammentare che i reati associativi appartengono alla categoria dei reati permanenti sotto un duplice profilo: per la permanenza oggettiva della struttura organizzata e per la permanenza soggettiva del vincolo che lega il singolo affiliato al sodalizio.

Sotto il primo profilo la permanenza si considera protratta fino allo scioglimento dell’associazione o fino alla riduzione degli associati in numero inferiore a tre; sotto il secondo profilo la condotta del partecipe si ritiene esaurita rescissione del vincolo associativo.

L’esperienza giudiziaria insegna che nelle associazioni mafiose, a differenza delle associazioni semplici caratterizzate da modalità di ingresso non formalizzate, l’affiliazione produce generalmente effetti potenzialmente permanenti, cosicchè la sospensione dell’attività dell’associato a causa di un evento sopravvenuto – come ad esempio la carcerazione – può non essere sufficiente a interrompere la condotta partecipativa, ove l’organizzazione alla cui esistenza e al cui mantenimento egli ha contribuito continui a esistere.

Ciò non toglie che, ai fini dell’accertamento giudiziale della responsabilità penale, la partecipazione all’associazione non possa essere presunta e quindi che la persistenza della militanza debba essere comunque provata.

La prova, dato che la fattispecie del reato in questione rimanda a una condotta a forma libera, potrà essere ricercata, nell’esplicazione del principio del prudente apprezzamento del giudice, in qualsiasi manifestazione comportamentale che l’esperienza interpreti come indicativa della persistente vitalità del vincolo associativo.

Nel caso concreto, i giudici del merito hanno individuato la prova del reato nella partecipazione dei ricorrenti alla ripartizione dei profitti provenienti dalle attività criminose esercitate dall’associazione nella quale avevano operato fino al momento della carcerazione.

L’inferenza logica Istituita tra percezione dei profitti dell’associazione e attualità del vincolo associativo non è affatto arbitraria, perchè corrisponde a conoscenze derivate dall’osservazione diretta del fenomeno delle associazioni criminali.

La partecipazione ai profitti è infatti segno inequivocabile non solo dell’attualità del vincolo associativo, ma anche del riconoscimento, da parte degli associati, del ruolo che il prenditore conserva all’interno della compagine associativa e che è pronto a riassumere nella sua pienezza non appena scarcerato.

Ovviamente la partecipazione ai profitti di cui si sta parlando, chiamata in gergo spartenza, è la quota di spettanza che l’associazione, secondo le regole stabilite dal capoclan, versa agli associati secondo il loro ruolo e che costoro rivendicano come un "diritto" per l’opera svolta in favore del sodalizio.

Non va quindi confusa con le somme che saltuariamente, a titolo grazioso, vengono talvolta corrisposte a un detenuto a prescindere dalla sua appartenenza all’associazione.

Venendo al caso concreto, i giudici di merito, dal contenuto delle numerose conversazioni ambientali intercorse tra gli associati in libertà aventi per tema la divisione degli illeciti profitti, hanno tratto la prova che i sunnominati ricorrenti partecipavano regolarmente alla ripartizione, percependo una quota, proporzionata al ruolo gerarchico, che veniva loro versata quale adempimento di un preciso obbligo "statutario" e non già come donativo precario a titolo di solidarietà intrafamiliare.

Aggiungasi che la persistenza del vincolo associativo è ulteriormente avvalorata, per C.D., dal concorso nelle estorsioni rubricate ai capi G e H (concorso emergente dalle conversazioni intercettate, il cui contenuto – come logicamente motiva la Corte territoriale – non presenta oscurità o equivocità) e, per C.F., dalle istruzioni sulla divisione dei profitti, personalmente impartite tramite Ma.Ni. e N.A..

Pertanto, sulla base di tali risultanze probatorie, è stata correttamente motivata l’affermazione di responsabilità penale dei ricorrenti.

Al rigetto del ricorso consegue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.

CA.Lu..

1. La ricorrente denuncia violazione della legge penale e mancanza di motivazione, sostenendo:

1. in ordine ai reati associativi (capi A e B), che il fatto ch’ella percepisse somme, provenienti dalle "spartenze", destinate al marito detenuto ( C.D.), non poteva costituire prova della condotta associativa;

2. in ordine al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (capo E), che la conversazione intercorsa tra Lo.Ma. e S.G., nella quale le si attribuiva l’acquisto di cinque kili di hashish, è priva di riscontri.

2.1 Il primo motivo di ricorso è parzialmente fondato.

La sentenza impugnata ricava dalle conversazioni intercettate, aventi per oggetto i criteri di ripartizione dei proventi illeciti, la prova dell’ingerenza organica della ricorrente negli affari del clan in cui il marito C.D. rivestiva il ruolo di dirigente.

Tuttavia, mentre il riferimento ai proventi del gioco d’azzardo riconduce a un’attività lucrativa sicuramente esercitata dall’associazione prevista dall’art. 416 bis c.p., il riferimento all’acquisto dei cinque kili di hashish, che forma oggetto del capo G, sembra contraddire anzichè avvalorare la ritenuta partecipazione all’associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

Infatti l’anzidetto acquisto, che rappresenta l’unico episodio di implicazione della ricorrente nel traffico di sostanze stupefacenti, fu concluso al di fuori del circuito associativo, suscitando per questo il risentimento degli affiliati sopra menzionati, che commentarono negativamente l’autonomia dell’iniziativa.

Pertanto la sentenza va annullata limitatamente all’affermazione di responsabilità in ordine al reato di cui al capo B dell’imputazione, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello, che, riesaminato il quadro probatorio, valuterà se esistano elementi dai quali poter logicamente desumere la partecipazione della ricorrente anche all’associazione dedita al narcotraffico.

2.2 Il secondo motivo è infondato, perchè le dichiarazioni degli interlocutori di una conversazione captata nel corso di un’intercettazione regolarmente autorizzata sono liberamente valutate dal giudice secondo gli ordinari criteri di apprezzamento della prova e non abbisognano, per costituire prova dei fatti dichiarati, di riscontri oggettivi, non essendo alle stesse applicabili le disposizioni di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, Cass., Sez. 5^, 7.2.2003 n. 38413, Alvaro, rv 227411).

Nel caso concreto la sentenza impugnata, valutata la spontaneità della conversazione e la personalità dei colloquianti, ha ritenuto, con apprezzamento non sindacabile in sede di legittimità, che non v’era ragione di dubitare della veridicità del fatto discusso e, quindi, che non occorressero particolari riscontri per l’affermazione di responsabilità.

La censura va pertanto rigettata.

CA.Nu..

1. Condannata per concorso nel reato di estorsione (capo M), denuncia mancanza di motivazione:

1. in ordine all’affermazione di responsabilità, per omessa indicazione del contributo oggettivo e soggettivo dato alla commissione del reato;

2. in ordine alla pena, determinata in misura superiore al minimo edittale, diminuita per le attenuanti generiche misura inferiore ad un terzo, con diniego dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p., comma 1. 2. Il primo motivo è infondato, perchè la sentenza impugnata, dalla piana lettura delle sommarie informazioni testimoniali rese dai coniugi D.C.F. e St.An. parti offese dal reato – secondo cui la ricorrente si recò più volte al domicilio delle vittime ora per accompagnarvi De.Be.

D., autrice delle minacce estorsive, ora per riscuotere le somme estorte – ha tratto la coerente conclusione che la stessa non fu un’inerte spettatrice del reato, ma concorse con piena consapevolezza nella sua consumazione, spalleggiando e coadiuvando l’azione della protagonista.

E’ infondato anche il secondo motivo, posto che, nel valutare la congruità della pena inflitta dal giudice di primo grado, quello d’appello si è discrezionalmente attenuto ai criteri dettati dall’art. 133 c.p..

Il riconoscimento dell’attenuante prevista dall’art. 114 c.p. è stato implicitamente negato, sottolineando, con valutazione di merito qui non sindacabile, che il concorso prestato nella perpetrazione del reato non poteva essere ritenuto "marginale".

Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili, liquidate nell’importo precisato nel dispositivo.

CI.An..

1. Condannato per il reato di estorsione in danno di D.M. (capo C), denuncia violazione della legge penale e vizio di motivazione.

Assume che, dato l’incarico ad O. e all’avv. De Filippis di recuperare il suo credito verso D.M. ammontante a una trentina di milioni di lire, presa conoscenza dello spessore criminale dei soggetti chiamati all’esazione, desistette, prima avvertendo O. che avrebbe risolto da solo la questione e, poi, richiesto di esibire i titoli del proprio credito, adducendo la scusa di averli smarriti.

Lamenta in particolare:

1. mancata qualificazione del fatto come reato di ragion fattasi ex art. 393 c.p. con dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per difetto di querela, deducendo che il credito fatto valere era reale;

2. omesso riconoscimento della desistenza volontaria ex art. 56 c.p., comma 3, atteso che la sentenza avrebbe ignorato: che, tramite O., egli aveva avvertito gli esecutori del reato del proprio recesso; che le cambiali insolute erano in suo possesso, per cui era errata l’argomentazione che avesse chiesto l’intervento della criminalità a causa dello smarrimento dei titoli; che non aveva ricevuto alcuna parte del profitto dell’estorsione;

3. erronea applicazione dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 posto che, quando apprese che il recupero del credito era stato affidato a un gruppo mafioso, recedette.

2.1 La sentenza impugnata ha escluso la configurabilità del reato di ragion fattasi, osservando che le minacce esercitate nei confronti della vittima non miravano a ottenere il pagamento del credito, vantato da Ci.An. r.d.u.t.d.m.

d.l.d.e.i.m.p.i.v.d.u.

s.a.r.p.c.l.d.

d.g.e.r.s.c.d.d.

a.l.p.d.q.d.i.a.f.d.

c.Capriati Antonio.

L.m.-.s.l.s.i.-.n.f.d.

f.a.o.l.r.d.p.d.d.c. m.q.d.d.c.d.o.e.p.p.e.

u.p.n.d.i.c.p.r.i.

i.p.c.a.d.h.i.i.d.d.

e.

D.a.c.a.v.i.p.r.d.e.

a.d.p.r.i.q.d.e.h.p. n.c.c.i.c.d.c.a.d.c.a.

D.n.1.d.1.a.7.e.a.g.a.d.r.

d.f.d.i.p.q.

p.d.d.t.m.a.q.

a.

L.g.d.l.i.c.q.l.m.s.

e.i.f.d.t.f.i.d.a.a.d.l.

d.r.i.d.f.v.u.p.p.d.

a.l.c.d.v.a.e.s.i.c. d.c.l.c.c.i.t.c.l.m.

t.a.r.q.d.s.t.i.u.c.e.

(.S.2.1.n.4.C.r.2.

I.p.l.m.a.c.m.m.d.d.

l.f.d.a.a.d.u.

d.i.q.i.r.a.q.m.f.p.a.

p.s.i.c.d.r.g.n. p.d.c.u.d.r.t.s.i.q.f.

v.i.f.s.p.a.m.p.s.c.c. i.s.g.d.r.e.n.g.i.c.e.c. f.p.d.u.o.d.v.a.a.q.

s.(.S.5.1.n.2.C.r.2.

P.l.q.g.a.a.f.i.e.e.

c. 2.I.g.d.m.h.a.i.c.d. C. A. nella consumazione del reato, rilevando ch’egli è stato "il fautore e la scintilla che ha determinato l’avvio di tutta l’attività estorsiva" e che, pur resosi conto della caratura criminale degli "esattori" presentatigli da O., non recedette, come dimostrano l’incontro di fine febbraio nel bar pizzeria " (OMISSIS)S. Pietro (OMISSIS)Pescatore"; i resoconti fatti da O. alla D.F. sul contatto tra gli "esattori" e la spaventatissimo debitore, che si affretta a reperire due autovetture per rabbonire i grassatori; la telefonata del 2.3.2004 in cui Q. comunica ad O. di avere già trasmesso a D.M. i documenti necessari per l’intestazione della Lancia Y 10 a Ca.Ro. (fotocopia della carta d’identità e numero di codice fiscale), ammonendolo a "concludere" al più presto.

Per la sussistenza dell’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 si rinvia a quanto osservato sopra, trattando lo stesso motivo proposto da Ci..

2.2 In ordine al secondo motivo, si osserva che la sentenza d’appello non ha chiarito se la mattina del 10.3.2004 i tre malviventi si fossero presentati o no armati di pistola, dilemma ingenerato dalle contrapposte versioni rese sul punto dalle impiegate Mo.An. e Te.Ni..

Tuttavia la circostanza non ha valore decisivo, sia perchè il capo d’imputazione non contesta l’impiego di armi sia perchè l’uso di minaccia risulta abbondantemente provato dal comportamento minatorio tenuto dai tre malviventi.

Si osserva poi che non è importante sapere quale dei due imputati abbia avanzato la richiesta estorsiva, dal momento che, agendo essi riuniti, dell’azione dell’uno, per la regola del concorso di persone nel reato, risponde anche l’altro.

Infine la sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per entrambe le ipotesi previste dalla norma, emerge dall’azione concretamente posta in essere, da un lato facendo leva sulla forza di intimidazione promanante dal clan mafioso, evocato presentandosi come "i Capriati" e, dall’altro, specificando che il "contributo" era destinato alla salvezza del capoclan e quindi alla sopravvivenza dell’associazione.

2.3 Il terzo motivo di ricorso è infondato, perchè, per la ragione testè sopra esposta, ai fini dell’affermazione di colpevolezza, non rileva accertare quale dei tre soggetti piombati nella stanza in cui era stata convocata la vittima abbia profferito la minaccia incriminata, dato che la palese sinergia delle singole azioni legittima l’applicazione della disciplina del concorso di persone nel reato.

2.4 E’ invece fondato il quarto motivo concernente l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 perchè – come più diffusamente esposto sopra, trattando lo stesso motivo proposto dalla coimputata D.F. – non risulta che il reato sia stato commesso avvalendosi del metodo mafioso o al fine di agevolare l’associazione mafiosa.

2.5 Il quinto motivo è infondato, perchè la sentenza impugnata ha motivato le ragioni della condanna, desumendo la prova della partecipazione dei ricorrenti al reato di cui all’art. 416 bis c.p. dalle estorsioni commesse ai danni di D.M. e Ba., rimarcando che entrambe furono perpetrate a vantaggio del sodalizio e che l’incarico ad eseguire la prima era stato loro conferito direttamente dal capoclan. Le censure sollevate, investendo le valutazioni logicamente plausibili compiute dai giudici del merito, sono inammissibili.

Si osserva, in particolare, che non è criticabile l’identificazione di Q. nello " z.C.", posto che l’attribuzione dell’appellativo proviene dagli organi inquirenti, i quali hanno attestato che Q. è chiamato così e che non vi sono altri Francesco tra le persone che frequentano la moglie di C. A..

2.6 Il sesto motivo è fondato.

La giurisprudenza di legittimità, in tema di applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici ai sensi dell’art. 29 c.p., ha chiarito:

– che, nel caso di condanna per reato continuato, nel commisurare la durata della pena accessoria a quella principale, deve farsi riferimento alla pena base inflitta per la violazione più grave, come determinata in concorso delle circostanze attenuanti e aggravanti e del relativo bilanciamento, e non a quella complessiva, comprensiva dell’aumento per la continuazione (Cass., Sez. 4^, 25.2.1999, Lubrano, rv 213149);

– che, nel caso di applicazione della diminuente del rito abbreviato, la pena da prendersi in considerazione è quella risultante dopo la diminuzione di un terzo imposta dallo speciale giudizio abbreviato (Sez. Unite, 27.5.1998, Ishaka, rv 210980).

Orbene, tanto a Mi. quanto a Q. è stata inflitta una pena base che, aumentata per l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e diminuita di un terzo per il rito abbreviato, risulta essere inferiore a cinque anni di reclusione.

Pertanto, in violazione dell’art. 29 c.p., comma 1, e art. 32 c.p., comma 3, sono state illegittimamente inflitte l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale durante l’espiazione della pena.

All’errore può rimediare direttamente questa Corte ai sensi dell’art. 620 c.p.p., lett. l), stabilendo la durata dell’interdizione dai pubblici uffici in anni cinque ed eliminando l’interdizione legale.

Poichè il motivo di annullamento non è esclusivamente personale, a mente dell’art. 627 c.p.p., comma 5, per l’effetto estensivo dell’impugnazione, la sentenza dev’essere annullata senza rinvio anche nei confronti di Ca.Lu., D.B.A., De.Be.Do., De.Be.Lu., D.B. M., De.Be.Ni., D.N., Lo., Ma.Gi., Ma.Gi., Mo.Do., M. N., Mu., N., S.G. e St., fissando la durata dell’interdizione dai pubblici uffici in anni cinque ed eliminando la pena dell’interdizione legale.

2.7 Il settimo motivo è inammissibile per difetto di legittimazione.

Il ricorrente, allegando la relativa documentazione, sostiene che fin dal 16.12.2004 ha ceduto le proprie quote a Sc.Pi..

Se così è, egli ha perso la qualità di socio e pertanto non ha titolo per impugnare il provvedimento di confisca che riguarda una res che non gli appartiene.

2.8 L’ottavo motivo è fondato.

Nella sentenza impugnata non si rinviene alcuna risposta alla deduzione difensiva secondo cui il pagamento di Euro 25,00 (tale sarebbe l’importo versato per acquisire l’unica quota posseduta), per l’evidente modestia, poteva essere ragionevolmente ritenuto alla portata delle tasche del ricorrente.

Pertanto la sentenza va annullata per questo capo, con rinvio alla Corte territoriale per nuovo giudizio, congruamente motivato, sulla confiscabilità della quota.

2.9 Il nono e ultimo motivo è fondato.

La Corte d’appello, riformato il giudizio di equivalenza tra attenuanti e aggravanti in quello di prevalenza, al momento della rideterminazione della pena ha dimenticato di apportare alla pena base, aumentata D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 la riduzione corrispondente alle attenuanti generiche.

La sentenza deve dunque essere annullata in parte qua, con rinvio alla Corte territoriale affinchè ridetermini la pena, calcolando la riduzione dovuta per le attenuanti generiche.

MO.Do..

1. Denuncia violazione della legge penale e vizio di motivazione:

1. in ordine al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, perchè la multiformità degli episodi di spaccio e i contrasti sulla divisione dei profitti dimostrerebbero l’inesistenza dell’affectio societatis; inoltre inosservanza dell’art. 649 c.p.p., perchè non è stata dichiarata l’improcedibilità dell’azione penale a causa della pendenza di altro procedimento per lo stesso reato;

2. in ordine al reato di cui all’art. 416 bis c.p., perchè è mancata l’indicazione del ruolo rivestito e del contributo prestato, per cui non si rileva differenza tra la condotta di partecipazione all’organizzazione dedita al narcotraffico e quella di associazione al clan mafioso;

3. in ordine ai reati di usura (capi A15 e A35), perchè l’ascolto delle conversazioni intercettate non permetterebbe di individuarla come finanziatrice dei prestiti usurari.

2. I motivi di ricorso condensati sotto i punti 1 e 2 sono uguali a quelli enunciati dai coimputati M.G. e Ma.Lu. e, pertanto, per la conoscenza delle ragioni del rigetto, si rinvia a quanto esposto sopra trattando la posizione dei ricorrenti Ma..

Il terzo motivo propone una rilettura di elementi di prova sui quali la sentenza impugnata si è espressa con valutazioni logicamente ineccepibili e, pertanto, è inammissibile.

Il ricorso deve dunque essere rigettato con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

MO.Nu..

1. Condannato per entrambi i reati associativi, denuncia mancanza di motivazione, lamentando che la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione la censura secondo cui la condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. è fondata sui medesimi elementi utilizzati per affermare la sua partecipazione all’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

2. Il ricorso è infondato.

La sentenza impugnata ha fondato il giudizio di colpevolezza in ordine al reato di cui all’art. 416 bis c.p. sul rapporto organico intrattenuto dal ricorrente con M.G., dal quale prendeva gli ordini per il recupero forzoso dei crediti derivanti non solo dal traffico illecito degli stupefacenti, ma anche dai reati propri dell’associazione mafiosa, alla spartizione dei cui profitti pure partecipava.

Il ricorso deve dunque essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

MU.Li..

1. Condannata per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74, denuncia mancanza di motivazione, perchè il giudice a quo non ha tenuto conto delle dichiarazioni della collaboratrice di giustizia De Sanctis Anna secondo cui essa ricorrente non aveva mai spacciato.

2. La censura è infondata, perchè la regola, enunciata dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), della "concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata", impegna il giudice a dare conto, in modo logico e adeguato, delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, senza ch’egli possa incorrere nel vizio di carenza di motivazione per non avere risposto dettagliatamente a tutte le deduzioni difensive (Cass., Sez. 4^, 24.10.2005 n. 1149, Mirabilia, rv 233187).

Nella fattispecie la sentenza impugnata, attraverso la rappresentazione degli elementi che provano la sicura colpevolezza della ricorrente (la gestione diretta dei tre kili di hashish di cui al capo A2 dell’imputazione e la partecipazione alla divisione dei profitti derivanti dall’attività collettiva di spaccio), ha implicitamente disatteso, per l’evidente incompatibilità, le generiche dichiarazioni della De.Sa. che la vorrebbero invece estranea ai reati ascrittile.

Il ricorso deve dunque essere rigettato, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

N.A.T..

1. Condannata per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74, denuncia mancanza di motivazione, assumendo:

1. che le conversazioni intercettate non dimostrerebbero la ritenuta attività di spaccio;

2. che il concorso nella cessione illecita di sostanze stupefacenti non può essere confuso con la partecipazione ad un’associazione dedita al narcotraffico.

2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, perchè, sotto l’etichetta del vizio di motivazione, in realtà sollecita una diversa – e in questa sede non consentita – lettura del testo delle conversazioni intercettate, senza riuscire, però, a dare la prova che l’interpretazione fattane dai giudici di merito sarebbe manifestamente illogica.

Il secondo motivo è infondato, perchè la sentenza impugnata ha diffusamente e correttamente motivato l’affermazione di responsabilità in ordine al reato associativo, desumendone la prova dalla valutazione critica delle particolari modalità e circostanze in cui la ricorrente esercitava lo spaccio (operava sotto le direttive del sodale Ma.Fr., riceveva continuativamente la sostanza dal sodale Lo., riferiva i risultati del suo lavoro al marito detenuto P., discuteva con gli altri sodali la "spartenza" destinata a sè medesima e al marito), ritenute, alla luce di massime di comune esperienza, sicuramente indicative dello stabile inserimento nella compagine associativa.

Il ricorso deve dunque essere rigettato, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

O.M..

1. Denuncia inosservanza della legge penale e vizio di motivazione in ordine all’estorsione in danno di D.M.:

1. per la ritenuta sussistenza del reato, perchè mancherebbe l’elemento costitutivo dell’ingiusto profitto, posto che D.M. era effettivamente debitore, che la somma chiestagli era quella effettivamente dovuta e non il suo doppio come erroneamente ritenuto in sentenza, che a pagamento del debito consegnò spontaneamente due autovetture, che l’Alfa Romeo 156 promessa ad esso O. come compenso per l’intermediazione non gli fu mai consegnata;

2. per il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8. in ordine all’estorsione in danno di Gu.Do.:

3. per il diniego dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p., comma 1, perchè la sentenza non avrebbe considerato che il suo apporto sarebbe stato di minima importanza;

4. per la mancata esclusione dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 atteso che nessuno degli agenti rappresentò la propria appartenenza ad associazione mafiosa e la vittima cedette alla richiesta sol perchè minacciata d’essere presa a schiaffi.

2.1 Il primo motivo di ricorso è al limite dell’inammissibilità, perchè propone censure che investono la valutazione della prova compiuta dai giudici di merito, senza peraltro riuscire a dimostrarne la manifesta illogicità.

Comunque, sul punto, si rimanda a quanto sopra esposto riguardo all’analogo motivo dell’imputata D.F., dovendosi qui aggiungere soltanto che la deduzione sulla "spontaneità" della consegna delle due autovetture è smentita dalle conversazioni intercettate nel corso delle quali il ricorrente riferisce alla correa D.F. quanto le minacce di Mi. e Q. abbiano terrorizzato D.M..

La circostanza poi che la seconda autovettura non sia definitivamente entrata nella disponibilità del ricorrente è irrilevante per la valutazione della sussistenza del reato, che si consumò nel momento in cui la vittima, soggiacendo all’ingiunzione degli estortori, consegnò il veicolo al ricorrente, che poi lo passò a Mi..

2.2 Il secondo motivo è infondato, perchè la Corte territoriale ha correttamente motivato il diniego dell’attenuante in questione, osservando che la dedotta collaborazione, intervenuta a distanza di anni e dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, riguarda fatti e reati estranei al presente processo, per cui non poteva dispiegarvi l’effetto invocato.

2.3 Il terzo motivo è infondato, perchè, dalla ricostruzione del fatto compiuta dalla Corte di merito, che ha individuato nel ricorrente "il reale organizzatore dell’incontro" in cui si consumò l’estorsione, emerge l’implicita esclusione dell’attenuante invocata, per l’evidente incompatibilità del ruolo fondamentale assunto nella preparazione ed esecuzione del reato con la pretesa "minima importanza" dell’opera prestata.

2.4 Il quarto motivo è fondato per la ragione esposta sopra, trattando dell’uguale motivo formulato dalla coimputata D. F..

Pertanto la sentenza deve essere annullata su questo punto, con rinvio ad altra sezione della stessa Corte d’appello.

P.N..

1. Condannato per entrambi reati associativi, denuncia violazione della legge penale e mancanza di motivazione, lamentando che l’affermazione di responsabilità sia stata fondata su conversazioni intercettate intercorse tra terzi, recepite acriticamente, sfornite di riscontri oggettivi.

2. Il ricorso è in parte fondato.

La giurisprudenza di legittimità insegna che le dichiarazioni compiute da persone che conversino tra loro – se captate nel corso di intercettazione regolarmente autorizzata – sono liberamente valutate dal giudice secondo gli ordinari criteri di apprezzamento della prova, anche quando presentino valenza accusatoria nei confronti di terzi che avrebbero concorso in reati commessi dagli stessi dichiaranti, non trovando in questo caso applicazione la regola di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3, destinata invece a operare nella valutazione delle dichiarazioni endoprocedimentali (Sez. 5^, 7.2.2003 n. 38413, Alvaro, rv 227411).

Si è anche precisato che, quando il significato della conversazione, per incompletezza del colloquio o per cattiva qualità della registrazione o cripticità del linguaggio o per altre ragioni non sia connotato da chiarezza, intelligibilità o inequivocità, il risultato della prova può divenire incerto, cosicchè, per superare gli eventuali dubbi interpretativi, sarà necessario reperire elementi di conferma.

Nel caso di specie, però, dubbi interpretativi sul contenuto delle conversazioni intercettate non ve ne sono, perchè – come hanno costatato i giudici di merito – l’audio è comprensibile e gli interlocutori, non sospettando di essere ascoltati, parlano liberamente, senza usare termine criptici.

Pertanto i colloqui captati sono stati validamente utilizzati come affidabile fonte di prova, senza che vi fosse la necessità di ricercare aliunde riscontri o conferme.

Si deve tuttavia osservare che, dalle conversazioni richiamate in sentenza, mentre emergono gravi e precisi indizi della sicura partecipazione del ricorrente all’associazione dedita al traffico degli stupefacenti, altrettanto non può dirsi per la partecipazione all’associazione di tipo mafioso, per cui l’affermazione di responsabilità in ordine a quest’ultimo reato appare sfornita di adeguata motivazione.

Pertanto la sentenza deve essere annullata limitatamente al capo che ha confermato la condanna del ricorrente per il delitto associativo di cui al capo A, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della stessa Corte d’appello.

S.G..

1. Denuncia mancanza di motivazione:

1. in ordine all’affermazione di responsabilità per i reati associativi, lamentando che la Corte barese non ha preso in considerazione che essa ricorrente si intrometteva nella spartizione dei proventi illeciti non perchè inserita nell’organizzazione criminosa, ma quale moglie e sorella di associati ( M. G. e Ma.Mi.), che, essendo detenuti, abbisognavano di aiuto economico;

2. in ordine alla pena, perchè determinata in misura superiore al minimo edittale.

2. Il primo motivo è infondato, perchè l’affermazione di responsabilità in ordine a entrambi i reati associativi non è fondata sul mero interessamento per la corresponsione ai propri congiunti di un ""aiuto economico" (che, in realtà, come puntualizza la sentenza, rappresentava la "spartenza" degli illeciti profitti realizzati dalle due associazioni criminose), ma sulle numerosissime conversazioni intercettate sulla sua autovettura, dalle quali risulta chiaramente che era "impegnata nelle attività più direttamente operative praticamente su tutti i fronti: gestione della droga, conti, spartenze, interventi sulle questioni problematiche all’interno dei gruppi, gestione diretta delle usure".

La sentenza ha dunque fornito adeguata spiegazione delle ragioni in base alle quali è giunta alla decisione di condanna.

Il secondo motivo è manifestamente infondato, perchè la pena base per la violazione più grave, rappresentata dal reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 2, è stata inflitta in misura pari al minimo edittale (anni dieci di reclusione), mentre gli aumenti a titolo di continuazione sono stati confermati giacchè la Corte d’appello, con valutazione discrezionale non sindacabile dal giudice di legittimità, ha ritenuto che fossero congrui al grado di pericolosità sociale dimostrato per il ruolo "di tutto riguardo" rivestito nell’ambito della consorteria criminale e per la partecipazione ai singoli reati scopo.

Il ricorso deve dunque essere rigettato, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

SP.Mi..

1. Condannato per partecipazione ai reati associativi, spaccio (capo A22) ed estorsione (capo A38), denuncia mancanza di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità per partecipazione ai reati associativi, deducendo: che, essendo detenuto fin dall’anno 2001, non poteva dare nè ha dato alcun contributo all’attività del sodalizio criminoso; che le sollecitazioni della sorella S. G. a ricordarsi di lui al momento della spartizione degli illeciti profitti dell’organizzazione non miravano a reclamare il riconoscimento di un "diritto" spettantegli quale associato, ma alla corresponsione di un aiuto economico dovuto per solidarietà familiare; che l’attività di spaccio esercitata nel carcere di Foggia non era collegata a quella svolta dal clan Capriati.

2. Il ricorso è infondato per le ragioni già esposte sopra, esaminando l’analogo motivo di ricorso formulato da C. F., C.A. e C.P..

La sentenza impugnata ha confutato le deduzioni difensive, osservando che il tenore delle conversazioni intercettate rendeva manifestamente insostenibile l’interpretazione riduttiva secondo cui la "spartenza" sarebbe un’anodina forma di solidarietà familiare, e non invece un "diritto" acquisito e reclamato in forza dell’appartenenza al sodalizio criminoso.

La sentenza ha altresì ricondotto l’attività di spaccio esercitata nel carcere di Foggia al programma criminoso proprio dell’associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, considerando che a fornirgli lo stupefacente era la sorella S.G. in quell’organizzazione sicuramente operante.

Esiste, perciò, una logica e adeguata spiegazione delle ragioni della ritenuta responsabilità penale.

Il ricorso deve dunque essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

S.R..

1. Condannato per concorso nel reato di usura (capo A9) denuncia mancanza di motivazione:

1. in ordine al ritenuto concorso, perchè la sentenza non avrebbe tenuto conto che la parte lesa, precisando ch’egli s’era limitato una volta ad accompagnare la figlia S.G. e un’altra a ritirare un pagamento, l’avrebbe scagionato dall’accusa;

2. in ordine alla pena, per avere negato la prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti e la riduzione della pena al minimo edittale.

2. Le doglianze proposte dal ricorrente sono mera reiterazione dei motivi d’appello, ai quali la sentenza impugnata ha dato puntuale e logica risposta, osservando:

1) che il ricorrente si prestò a reclamare e a incassare, in nome e per conto della figlia S.G., la somma dovuta da Tr.Gi., nella sicura consapevolezza – comprovata dal tenore dei colloqui telefonici intercettati – della sua natura usuraria, per cui concorse a pieno titolo nella consumazione del reato;

2) che il ricorrente, essendo pluripregiudicato, non meritava un trattamento sanzionatorio più mite di quello stabilito dal giudice di primo grado.

Il ricorso, siccome infondato, deve dunque essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

ST.Gi..

1. Condannato per i reati di cui agli artt. 416 bis c.p., al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74, estorsione e porto abusivo di una pistola, denuncia mancanza di motivazione, per non avere la Corte territoriale dato risposta ai motivi enunciati nell’atto di appello in ordine all’affermazione di responsabilità per ciascuno dei reati ascrittigli.

2. Il ricorso è infondato, perchè la sentenza impugnata, contrariamente all’assunto formulato, ha preso in esame per ciascun capo d’imputazione le deduzioni difensive proposte nei motivi d’appello e, con puntuale richiamo alle risultanze probatorie valutate secondo logica e nel rispetto delle norme giuridiche, le ha tutte confutate stendendo una motivazione coerente e completa, immune dal vizio denunciato.

Così, per quanto attiene ai reati associativi, la sentenza, esaminati criticamente i risultati delle conversazioni intercettate, ha desunto la prova della partecipazione associativa: dal rapporto di stretta subordinazione che legava il ricorrente a M. G., che, esercitando il ruolo di organizzatore, anche dal carcere gli impartiva direttive e consigli; dalla commissione di reati scopo assonanti con il programma delittuoso peculiare di ciascuna associazione; dalla sistematica partecipazione alla divisione dei profitti derivanti dall’attività criminosa.

Per il reato di cui al capo Q, la sentenza ha ripercorso lo svolgimento del fatto attraverso la lettura delle conversazioni intercettate.

Il 24.7.2004 Lo. chiede a S.G. una fornitura di cocaina.

Allora S.G. si rivolge a F. e si accorda per la cessione di trenta grammi, che " St.Gi.", quello stesso pomeriggio, ritirerà da F. e consegnerà a Lo..

Quattro giorni dopo (28.4.2004) S.G. e Lo. parlano dell’avvenuta consegna e del compenso da dare a " St.Gi." per l’incarico assolto.

Orbene la sentenza identifica " St.Gi." nell’omonimo ricorrente, per il rapporto di subordinazione che lo legava a M.G., il quale, attraverso la moglie S. G., dirigeva il traffico di stupefacenti.

La sentenza ha altresì confutato la tesi difensiva, secondo cui il ridetto " St.Gi." potrebbe identificarsi in A. G. (coimputato, giudicato separatamente), osservando che il " St.Gi." di cui alle conversazioni intercettate viene anche chiamato "ragazzo" e tale appellativo si attaglia a St., che all’epoca aveva solo vent’anni, e non anche ad Ab., che di anni ne aveva cinquantatrè.

La conclusione è logicamente ineccepibile e altrettanto ineccepibili sono le valutazioni critiche che hanno condotto la Corte di merito a disattendere i rilievi difensivi relativi agli altri capi d’imputazione.

Pertanto il ricorso dev’essere rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

La Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata:

– nei confronti di Mi. e Q. e, per l’effetto estensivo dell’impugnazione, nei confronti di Ca.Lu., D.B.A., De.Be.Do., D.B. L., De.Be.Ma., De.Be.Ni., D. N., Lo., Ma.Gi., Ma.Gi., M. D., Mo.Nu., Mu., N., S.G. e St., limitatamente alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici, che determina nella durata di anni cinque, e dell’interdizione legale durante la pena, che elimina;

– nei confronti di Lo., limitatamente alle pene accessorie del ritiro della patente di guida e del divieto di espatrio e alla misura di sicurezza della libertà vigilata, che elimina.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di:

– Q., limitatamente al computo delle già concesse attenuanti generiche e alla misura della confisca della quota della "San Nicola Piccola Società Cooperativa";

– M.G., limitatamente alla riconoscibilità della continuazione con i reati giudicati con sentenza della Corte d’appello di Bari dell’ll.1.2006;

– Ca.Lu., limitatamente al reato di cui al capo B);

– F., limitatamente al reato di cui al capo A);

– L., limitatamente al reato di cui al capo B);

– P., limitatamente al reato di cui al capo A);

– Mi., Q., O. e D.F., limitatamente all’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 attinente al reato di cui al capo A33);

e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Bari.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Ma.Gi., limitatamente al reato di cui al capo C), per non avere commesso il fatto e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Bari per la determinazione della pena per i reati residui.

Rigetta nel resto i ricorsi.

Rigetta il ricorso del P.G..

Rigetta i ricorsi di C.A., C.D., C.F., C.P., Ca.Nu., Ci., D.B.A., De.Be.Do., De.Be.Lu., De.Be.Ma., D.B. N., D.N., D.P., Fa., M. F., Ma.Lu., Ma.Mi., Ma.Mi., Ma.Gi., mi.fr., Mo.Do., Mo.Nu., Mu., N., S. G., Sp.Mi., S.R., St. e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condanna De.Be.Do., De.Be.Lu., D. N. e Ca.Nu. al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili, che liquida in complessivi Euro 2.000,00 oltre agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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