Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 28-04-2011) 15-06-2011, n. 24010

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con sentenza deliberata in data 7 maggio 2010, depositata in cancelleria il 10 maggio 2010, il Tribunale di Lucca, sezione distaccata di Viareggio applicava a S.H., ai sensi dell’art. 444 c.p.p., la pena di mesi cinque di reclusione, per i reati di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, comma 5 ter e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 6, comma 3. 2. – Avverso il citato provvedimento è insorto tempestivamente il Procuratore Generale territoriale chiedendone l’annullamento non avendo il giudice in alcun modo motivato in ordine alla legittimità del decreto di espulsione e della legittimità dell’ordine di allontanamento. Inoltre non ha aveva motivato in relazione alla sussistenza di un giustificato motivo per il trattenimento. Infine la pena base applicata era inferiore al minimo edittale.
Motivi della decisione

3. – Rileva il Collegio che il 28 aprile 2011 è stata depositata la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel procedimento C-61/11 PPU, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, proposta dalla Corte d’appello di Trento nell’ambito del procedimento a carico di H. E.D., imputato del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, in relazione alla direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante "norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare".

Con tale sentenza la Corte Europea afferma che "la direttiva 2008/115, in particolare i suoi arti. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo".

Spetta perciò al giudice nazionale "disapplicare ogni disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l’art. 14, comma 5-ter, di tale decreto legislativo", tenendo altresì nel debito conto il principio "dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri".

A ragione della decisione, la Corte di giustizia ha osservato:

– che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 risponde a una esigenza di "gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato – la concessione di un termine per la sua partenza volontaria – alla misura che maggiormente limita la sua libertà – il trattenimento in un apposito centro -, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità";

– che, in quest’ottica, persino il trattenimento, che rappresenta la misura più restrittiva della libertà consentita dalla direttiva, è strettamente regolamentato, quanto a durata e modalità, "allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi" e di "limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo" entro termini ragionevoli – vale a dire non superiori al tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito – e i più brevi possibili – in conformità all’ammonizione già impartita dall’ottavo dei "Venti orientamenti sul rimpatrio forzato" adottati il 4 maggio 2005 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa;

– che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere al rimpatrio coattivo conformemente all’art. 8 n. 4 della direttiva, una pena detentiva quale quella prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, "solo perchè un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale", dovendo "essi Stati invece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti";

– che una regolamentazione nazionale quale quella oggetto d’esame finisce per ostacolare la stessa applicazione delle misure di cui all’art. 8, n. 1, della direttiva medesima (in base alla quale "Gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria a norma dell’art. 7, paragrafo 4, o per mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio entro il periodo per la partenza volontaria concesso a norma dell’art. 7") e ritardare l’esecuzione della decisione di rimpatrio.

4. – La decisione della Corte di Giustizia, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell’Unione con effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni, incide sul sistema normativo impedendo la configurabilità del reato. L’effetto è paragonabile a quello della legge sopravvenuta (cfr. C. Cost. nn. 255 del 1999, 63 del 2003, 125 del 2004 e 241 del 2005 secondo cui "i principi enunciati nella decisione dalla Corte di giustizia si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno, con il valore di jus superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui quella norma conserva efficacia e deve essere applicata anche da parte del giudice nazionale") con portata abolitrice della norma incriminatrice.

Non può a tale proposito ingenerare incertezze il riferimento contenuto, nella sentenza E.D., alla applicabilità della "pena più mite". Nell’ordinamento non residuano ipotesi residuali di reato che possano ritenersi interamente contenute nella contestazione D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 14, comma 5-quater, idonee a riespandersi senza necessità alcuna di integrazione a fronte della disapplicazione della fattispecie in esame.

Il richiamo alle tradizioni costituzionali comuni e ai diritti fondamentali rende per altro evidente che i principi evocati sono quelli elaborati, anche dalla Corte EDU, in tema di art. 7 della Convenzione, mentre la sentenza della CtGUE lager, pure richiamata (e che tratta di sanzioni amministrative), palesa come nel linguaggio della Corte il termine "pene" si riferisca a qualsivoglia regime sanzionatorio o afflittivo, non necessariamente corrispondente ad un trattamento "penale" secondo l’ordinamento italiano.

5. – In relazione a fattispecie quale quella in esame, realizzata prima della scadenza dei termini per il recepimento della direttiva, deve per conseguenza affermarsi che il fatto non è più preveduto dalla legge come reato.

La formula è in linea con quanto già ritenuto, in relazione a ipotesi in qualche modo simile, da questa Corte, Sez. 1 sentenza del 20 gennaio 2011, Titas Luca, allorchè ha osservato che la pronunzia della Corte di Giustizia che accerta l’incompatibilità della norma incriminatrice con il diritto Europeo (si trattava del caso Schwibbert) "si incorpora nella norma stessa e ne integra il precetto con efficacia immediata" (cfr. Corte Cost nn. 13 del 1985,389 del 1989,168 del 1991), così producendo "una sorta di abolitio criminis" che impone, in forza di interpretazione costituzionalmente necessitata, di estendere a siffatte situazioni di sopravvenuta inapplicabilità della norma incriminatrice nazionale, la previsione dell’art. 673 c.p.p..

6. – In relazione al reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 6, comma 3 occorre invece rammentare la recentissima sentenza delle Sezioni Unite 24 febbraio 2011, n. 16453, Alacev che ha ritenuto essere intervenuta l’abolitio criminis del reato già previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 6, comma 3, nei confronti dello straniero in posizione irregolare, a seguito delle modificazioni introdotte dalla L. n. 94 del 2009, art. 1, comma 22, lett. h).

Da un attenta disamina del testo normativo indicato (la L. 15 luglio 2009, n. 94, art. 1, 5 comma 22, lett. h), (ove si stabilisce che lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino ad Euro 2.000) è stata per vero scientemente operata la sostituzione della congiunzione da disgiuntiva ("ovvero") a congiuntiva ("e"), modificando così la connessione interna delle parole e imponendo allo straniero di esibire, oltre ai documenti d’identificazione personale, anche quelli attestanti la regolarità della presenza nel territorio dello Stato.

Il legislatore ha in altre parole introdotto un "doppio binario" trattamentale, sanzionando gli stranieri regolarmente soggiornanti per la mancata esibizione dei documenti con la pena inasprita dall’art. 6, comma terzo e gli stranieri in posizione irregolare con una progressione sanzionatoria-repressiva scandita sulle diverse eventuali condotte illecite (art. 10-bis, art. 14, comma 5-ter, art. 14, comma 5-quater, art. 13, comma 13, D.Lgs. cit.), sempre finalizzato all’espulsione dal territorio nazionale nel più breve tempo possibile, essendo l’interesse protetto dalla norma proprio quello di procedere immediatamente alla verifica della regolarità della presenza dello straniero onde attivare il meccanismo processual- penale e amministrativo volto all’espulsione dal territorio nazionale dello straniero in posizione irregolare.

Nella fattispecie di causa, come emerge dalla lettura del capo di imputazione non si era verificata la concorrenza dell’esibizione dei documenti d’identificazione unitamente a quella del titolo di soggiorno venendo pertanto meno l’integrazione del precetto normativo.

4. – Ne consegue che deve adottarsi pronunzia ai sensi dell’art. 620 c.p.p. come da dispositivo.
P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè i fatti non sono previsti dalla legge come reato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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