Cass. pen., sez. II 24-06-2008 (10-06-2008), n. 25682 Con violenza o minaccia – Estorsione – Caratteri distintivi.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
Con sentenza del 21 ottobre 2003, la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza emessa il 10 giugno 2002 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale della medesima città nei confronti di B.M.B.A., ha rideterminato in complessivi anni quattro e mesi sei di reclusione ed Euro 400,00 di multa, la pena inflitta al predetto in ordine ai reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, estorsione, tentata e consumata, lesioni personali volontarie, tentata violenza privata, porto di coltello resistenza e lesioni al medesimo ascritti.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore il quale ha dedotto violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento al mancato assorbimento del reato di estorsione in quello di sfruttamento violento della prostituzione, considerata la identità della condotta contestata nel capo B) della imputazione rispetto alla ipotesi che appare descritta nel capo A).
Non rileverebbe, al riguardo, la distinzione operata dai giudici dell’appello tra estorsione e violenza privata, posto che la minaccia di un danno ingiusto è elemento costitutivo della aggravante della minaccia e violenza per il reato di cui alla L. n. 75 del 1958, artt. 3 e 4.
Si lamenta, poi, violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla confisca, giacchè la Corte territoriale avrebbe ritenuto che la mancata dimostrazione della provenienza lecita del denaro da parte dell’imputato equivarrebbe a prova della provenienza illecita, attraverso una inversione dell’onere della prova legittimato solo nelle ipotesi particolari di confisca "antimafia" delineate dal D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies.
Il ricorso è infondato.
Il primo motivo presenta, per la verità, profili di una qualche suggestione, giacchè il discrimen che deve cogliersi tra l’ipotesi dello sfruttamento dell’altrui prostituzione, aggravato dall’uso della violenza o della minaccia, rispetto al delitto di estorsione, può a tutta prima non essere di agevole ed immediata percezione;
anche perchè la scelta – di discutibile (e discussa) coerenza tecnica – operata dalla L. n. 75 del 1953, di prevedere una generalizzata ed indistinta gamma di aggravanti (art. 4) a sua volta indistintamente riferita ad una parimenti eterogenea rassegna di diverse fattispecie criminose (art. 3), in luogo della più lineare opzione (operata nel codice Rocco) di individuare singole figure di aggravamento in rapporto alle specifiche condotte criminose partitamente descritte nell’originario impianto codicistico, ha generato non poche perplessità, tanto sul piano teorico che su quello della concreta compatibilità tra le diverse aggravanti e le variegate fattispecie incriminatrici.
Malgrado ciò, il panorama normativo, la ratto della sua novellazione e la diversità dei beni protetti, secondo una gerarchia fatta fin troppo palese dalla notevole diversità dei trattamenti sanzionatori, consentono di ricomporre adeguatamente, secondo una prospettiva di logico bilanciamento, i tratti comuni e differenziali che è possibile cogliere tra le due figure criminose che vengono qui in discorso.
A proposito dello sfruttamento della prostituzione è noto come tanto la dottrina che la giurisprudenza di questa Corte siano da tempo pervenute alla conclusione di ritenere che l’attuale nomen della fattispecie e la sua configurazione in termini volutamente ampi ("chiunque in qualsiasi modo … sfrutti la prostituzione altrui"), rappresenti un dato ineludibilmente innovativo rispetto al corrispondente reato di sfruttamento della prostituzione, che l’art. 534 c.p. tracciava in termini senz’altro più specifici, ma – proprio per questo – di più circoscritta portata applicativa ("Chiunque si fa mantenere, anche in parte, da una donna, sfruttando i guadagni che essa ricava dalla sua prostituzione, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la reclusione da due a sei anni e la multa da L. mille a diecimila").
D’altra parte, la voluta genericità descrittiva della fattispecie, non è tale da porsi in contrasto con il principio di tipicità, giacchè – come ha osservato la Corte costituzionale, in tempi ormai lontani – i concetti di agevolazione e di sfruttamento della prostituzione altrui presentano una obiettività ben definita, "anche perchè acquisiti da tempo nel codice penale e sottoposti a lunga elaborazione dottrinale. Essi hanno un preciso ed inconfondibile significato, che non si presta ad equivoche interpretazioni.
Allargare il raggio di applicazione della previsione legislativa fino a comprendere attività che prima rimanevano impunite – ha puntualizzato la Corte – non significa svuotare di contenuto la norma, ma estenderla e rafforzarla.
E la circostanza che sia stata usata una formula, la quale, pur essendo di più ampio contenuto, risulti sinteticamente espressa, non costituisce un vizio della norma … ma un fatto normale in materia penale" (Corte cost, sentenza n. 44 del 1964).
Dovendosi dunque assegnare valore descrittivo al mero dato letterale dello sfruttamento, e pur nell’alveo di una risalente tradizione interpretativa di quella particolare ipotesi di sfruttamento, che riguarda l’altrui prostituzione, ne deriva che il contenuto precettivo della norma finisce per corrispondere con qualsiasi forma di indebito approfittamento – e dunque, qualsiasi ingiustificato profitto – tratto dall’esercizio della altrui prostituzione.
Scompare, pertanto, dal panorama della fattispecie, l’antico riferimento alla prostituzione, intesa come condizione di vita; allo stesso modo in cui tramonta la corrispondente configurazione dello sfruttatore, come stabile approfittatore di chi esercita il meretricio (l’art. 534 c.p., infatti, e come già si è ricordato, puniva chi "si fa mantenere, anche in parte, da una donna, sfruttando i guadagni che essa ricava dalla sua prostituzione").
Avuto dunque riguardo alla ratio sottesa all’ampliamento della sfera di tutela apprestata dalla normativa vigente, se ne deve dedurre che la disposizione che punisce lo sfruttamento della prostituzione, persegue l’obiettivo di impedire che taluno tragga un ingiustificato vantaggio dai guadagni ricavati attraverso la prostituzione, atteso il peculiare disvalore sociale e morale che, come si è osservato in dottrina, presenta tale forma di parassitismo.
La norma, pertanto, tutela un interesse eminentemente pubblico, e non l’interesse privato della persona che esercita la prostituzione, la quale ultima, pur "subendo" lo sfruttamento, è comunque consenziente e non riveste – secondo l’opinione più tradizionale – la qualità di persona offesa.
La giurisprudenza risalente era infatti solita affermare che l’oggetto specifico della tutela penale è "l’interesse a salvaguardare la moralità pubblica ed il buon costume, mediante la repressione della partecipazione ai guadagni che la donna ricava dalla sua turpe attività": v., ad es., Cass., Sez. 3^, 12 giugno 1975, Sorrentino; Cass., Sez. 3^, 29 gennaio 1970, Coluu.
Più di recente si è, però, parzialmente "corretto il tiro", affermandosi che "il bene giuridico protetto dalla L. 20 febbraio 1958, n. 75, non è la tutela della salute pubblica, ma la libertà di determinazione della donna nel compimento di atti sessuali, garantita attraverso il perseguimento dei terzi che da tale attività intendono ricavare un vantaggio economico, atteso che non costituisce reato il compimento di atti sessuali al di fuori di ogni attività di sfruttamento o di agevolazione, anche se posti in essere con fini di lucro personale" (Cass., Sez. 3^, 8 giugno 2004, Alessio).
Esce, dunque, per questa via, sostanzialmente rafforzata la tesi di chi intravedeva, nel sistema delineato dalla L. n. 75 del 1958, un meccanismo volto a tutelare indirettamente, e cioè senza assegnare ad esso una autonoma rilevanza, l’intera gamma degli interessi particolari che fanno capo alla persona che si prostituisce, proprio attraverso il perseguimento di condotte che – come quelle di "sfruttamento" – sono ineluttabilmente destinate ad incidere negativamente su quegli interessi, anche sul versante squisitamente economico. D’altra parte, ove le condotte siano state poste in essere con violenza o con minaccia, la condizione dello "sfruttato" non può non risaltare appieno come oggetto di tutela penale, facendo dunque virare il reato nello spettro della plurioffensività.
In questa prospettiva, diviene allora agevole intravedere il tratto distintivo che separa fra loro l’ipotesi dello sfruttamento della prostituzione aggravata dall’uso della violenza o minaccia, rispetto alla ipotesi "comune" della estorsione.
Posto, infatti, che, nella prima figura criminosa, la condotta del soggetto sfruttato non cessa di essere caratterizzata, malgrado l’uso della violenza o della minaccia, dalla volontarietà della scelta di continuare ad esercitare il meretricio e di consentire all’agente di "approfittare indebitamente" di quella condizione – dalla definizione normativa è infatti assente l’elemento della "costrizione" (v., per taluni dei profili accennati, Cass., Sez. 3^, 10 novembre 1982, Angiolini) – se ne deve desumere che, ove attraverso la violenza o la minaccia la persona che si prostituisce sia stata costretta a fare o ad omettere di fare alcunchè, e lo "sfruttatore" abbia da ciò conseguito un ingiusto profitto con danno per il soggetto "sfruttato", la fattispecie ravvisabile sarà necessariamente quella delineata dall’art. 629 c.p..
D’altra parte, è del tutto evidente che – anche al lume dei valori costituzionali – non potrebbe in alcun modo giustificarsi un sistema che, addirittura, "degradasse" la sfera di protezione del soggetto – basti considerare la notevole maggior gravità del trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di estorsione, rispetto a quella stabilita per lo sfruttamento aggravato della prostituzione – in funzione della "natura" – più o meno socialmente accettata – della attività svolta.
Quando, al contrario, e come già si è posto in risalto, oggetto di protezione della L. n. 75 del 1958, è sicuramente anche la persona che venga sfruttata, specie se con violenza o minaccia.
Ne deriva, pertanto, che nella specie, sussistono tutti i presupposti per ritenere integrate entrambe le ipotesi criminose contestate.
Il secondo motivo di ricorso, concernente la confisca, è invece palesemente inammissibile in quanto, a fronte della congrua motivazione offerta dai giudici del merito, il ricorrente si limita a proporre censure e rilievi di fatto, insuscettibili di delibazione nella presente sede di legittimità.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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