Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 12-05-2011) 16-06-2011, n. 24104 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

D.L., tramite il difensore, ricorre per cassazione avverso la ordinanza 3.6.2010 con la quale il Tribunale del Riesame di Napoli ha confermato il provvedimento di custodia cautelare in carcere con la quale gli è stato contestato:

"a) del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 7 e L. 6 febbraio 1980, n. 15, art. 1; per avere partecipato, ciascuno nella consapevolezza della rilevanza causale del proprio apporto, ad un’associazione di tipo mafioso denominata "clan dei Cosatesi", promossa, diretta ed organizzata prima da B. A. (anni 1980-1988), poi da S.F.d.N., da B.F., da I.M. e da D.F.V. (1988-1991) di seguito da S.F.d.N. e da B.F. ed infine, dopo l’arresto di questi ultimi due, da Z.M. e I.A., quali esponenti di vertice tuttora latitanti, della fazione facente capo alla famiglia SCHIAVONE e da B.D., B.A., B.R., G.L., A.N., S. G., C.A., quali componenti apicali che si avvicendavano alla guida della fazione facente capo alla famiglia BIDOGNETTI, i quali operando nell’intera aerea della Provincia di Caserta ed altrove, si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva, per la realizzazione dei seguenti scopi: il controllo delle attività economiche, anche attraverso la gestione monopolistica di interi settori imprenditoriali e commerciali; il rilascio di concessioni e di autorizzazioni amministrative;

l’acquisizione di appalti e servizi pubblici; l’illecito condizionamento dei diritti politici dei cittadini (ostacolando il libero esercizio di voto, procurando voti a candidati indicati dall’organizzazione in occasione di consultazioni elettorali) e per tale tramite il condizionamento della composizione e delle attività di organismi politici rappresentativi locali; il condizionamento delle attività delle amministrazioni pubbliche, locali e centrali;

il reinvestimento speculativo in attività imprenditoriali, immobiliari, finanziarie e commerciali degli ingenti capitali derivanti dalle attività delittuose,sistematicamente esercitate (estorsioni in danno di imprese affidatane di pubblici e privati appalti e di esercenti attività commerciali, traffico di sostanze stupefacenti, usura e altro); assicurare l’impunità agli affiliati attraverso il controllo, realizzato anche con la corruzione di organismi istituzionali; l’affermazione del controllo egemonico sul territorio, realizzata anche attraverso la contrapposizione armata con organizzazioni criminose rivali nel tempo e la repressione violenta dei contrasti interni; il conseguimento, infine, per sè e per gli altri affiliati di profitti e vantaggi ingiusti;

segnatamente tutti partecipavano alla componente del sodalizio che faceva capo alla famiglia SCHIAVONE, che controllava militarmente la provincia casertana e monopolisticamente diverse attività economiche. Ancorpiù in particolare, operavano nella struttura economico-criminale della citata famiglia che si occupava di conseguire e mantenere, attraverso la società "LA PAGANESE TRASPORTI & C. s.n.c." la gestione monopolistica ed il controllo del trasporto su gomma da e per i mercati ortofrutticoli di Fondi, Aversa, Parente, Trentola Ducenta e Giugliano e da questi mercati verso il sud Italia ed in particolare verso i mercati Siciliani di Palermo, Catania, Vittoria, Gela e Marsala".

"c bis) delitto p. e p. dagli artt. 110, 81 cpv. e 513 bis c.p., D.L. n. 152 del 1991, art. 7, perchè in concorso e previo accordo fra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso:

P.C. e T.L. quali gestori di fatto e soci occulti della Lazialfrigo srl (consociata della "Paganese Trasporti sne", società referente del clan camorrista dei cosatesi nel settore del trasporto su gomma nel settore ortofrutticolo gestita dal P.C.) mandanti ed organizzatori del delitto.

D.M. quale consapevole gestrige della Lazialfrigo e dei rapporti commerciali acquisiti illecitamente secondo le modalità indicate nel presente capo, gli altri quali autisti e gestori della Lazialfrigo e materiali autori del delitto, avvalendosi sia della forza di intimidazione dell’organizzazione di stampo mafioso e del sodalizio denominato "clan dei cosatesi" che controllava anche militarmente, la provincia di Caserta e parti delle limitrofe province di Latina e Napoli, nonchè i mercati ortofrutticoli di Giugliano, Aversa, Fondi e limitrofi, assoggettavano le attività di accesso e quindi di carico, scarico, trasporto di ortofrutta all’interno del mercato di Fondi e, quindi gli operatori che fì svolgevano le loro attività economiche, alle regole monopolistioche da loro fissate. In particolare, in base a tali regole il trasporto su gomma sulle tratte fra il suddetto mercato di Fondi e l’Italia nord occidentale veniva attribuito alla Lazialfrigo srl, sicchè qualsiasi commerciante e trasportatore (fra questi e tra gli altri F.R., R.E., C.R., S. A., M.M., D.I.F., D.I. E., C.D., P.G., V.F., C.P.T.E., O.G., L. e F.) che intendeva, rispettivamente o affidare ad altre ditte il trasporto dell’ortofrutta o acquisire incarichi di trasporto di ortofrutta, sulla tratta FONDI-PIEMONTE, veniva intimidito, anche con il ricorso alla minaccia di attentati a beni e persone o a quella di non potere più frequentare il MOF di Fondi. Con l’aggravante di avere agito con le modalità previste dall’art. 416 bis c.p. e di avere commesso il fatto alfine di agevolare il sodalizio mafioso sopra indicato. In Lazio – Piemonte e sul altre parti del territorio nazionale, reato in atto.

La difesa richiede l’annullamento del provvedimento impugnato deducendo:

p.1) Vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione all’art. 416 bis c.p.; L. 6 febbraio 1980, n. 15, art. 1;

artt. 110 e 81 cpv., 513 bis c.p. e D.L. n. 152 del 1991, art. 7, La difesa censura l’ordinanza impugnata per la unilateralità accusatola delle valutazioni fatte dal Tribunale che, adeguandosi al contenuto dell’ordinanza del giudice delle indagini preliminari, non ha tenuto conto delle argomentazioni svolte dalla difesa tanto nell’atto di impugnazione quanto nel corso della discussione orale. Più dettagliatamente la difesa censura la valutazione e la interpretazione delle conversazioni oggetto di intercettazione telefonica o ambientale, alle quali il Tribunale ha attribuito significati diversi dal reale senza avvedersi che il ricorrente è vittima di estorsioni (intercettazione n. 3645), priva di qualsiasi rilievo e possibile oggetto di aggressioni che non sarebbero neppure progettate se fosse persona di diversa caratura (intercettazioni nn. 1871, 1881, 1892), in posizione di contrasto rispetto ai figli dimostrativa di una sua lontananza dagli interessi del gruppo Pagano;

in tale contesto la difesa afferma che diversa deve essere la valutazione da darsi alla conversazione di cui alla intercettazione ambientale (non pienamente comprensibile perchè fortemente disturbata) n. 2849 del 24.4.2006 nella quale: a) i discorsi riguardanti la intestazione della azienda hanno una chiave di lettura nel tentativo di superamento di questioni di ordine fiscale; b) i discorsi attinenti ai clan malavitosi, sono conversazioni di carattere generico a commento di notizie di pubblico dominio.

Sostiene la difesa che le ulteriori conversazioni intercettate intercorrenti con altri operatori del settore dell’autotrasporto su gomma, al di là delle espressioni verbali talora adoperate, devono essere lette in chiave di discussione fra imprenditori commerciali per una più esatta esecuzione di contratti di trasporto al fine di evitare richieste di danni o di penalità da parte di terzi.

La difesa inoltre si duole della diversa lettura data dal Tribunale in riferimento al materiale probatorio acquisito dalla inchiesta svolta dalla Procura della Repubblica di Latina, la quale a suo tempo, non aveva ravvisato alcuna attività partecipativa dell’indagato a clan camorristici, aveva ricondotto la condotta del prevenuto alla semplice ipotesi di violazione dell’art. 629 c.p., successivamente derubricata in quella dell’art. 610 c.p., non aveva riscontrato, nonostante un lungo periodo di osservazione da parte della polizia giudiziaria, un qualsivoglia contatto o "vicinanza" del D.L. con persone legale al clan dei casalesi. In tale contesto valutativo la difesa lamenta anche che il Tribunale Napoletano non ha tenuto conto del verbale 20.5.2005 della riunione di coordinamento tenutasi presso la Procura Nazionale Antimafia nel quale si dava atto delle valutazioni del Procuratore della Repubblica di Latina il quale dava atto che dalle investigazioni svolte nell’ambito del procedimento penale n. 2127/05/21 non emergevano collegamenti del D. con esponenti mafioso/camorristici. p.2) Violazione dell’art. 273 c.p.p., comma 1, art. 416 bis c.p., commi 1, 2, 4 e 6; D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies, D.L. n. 152 del 1991, art. 513 bis c.p. e D.L. n. 152 del 1991, art. 7, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b). Nell’ambito di questo motivo, la difesa dopo avere ripreso le medesime argomentazioni già svolte nel paragrafo che precede, pone in evidenza che dalle intercettazioni telefoniche non emerge alcun accenno alla Paganese Trasporti nè tantomeno alle possibili influenze di clan camorristici e che non emerge alcun indizio che la attività della impresa dei D’Alterio fosse improntata ad una ferrea logica spartitoria di un mercato conquistato attraverso metodi violenti e mafiosi. A confutazione delle argomentazioni adottate in sede cautelare la difesa richiama il contenuto delle conversazioni telefoniche intercettate nonchè il contenuto delle dichiarazioni testimoniali rilasciate nell’ambito del procedimento n. 2127/05 da A.M., P.R., D.P.D., A.G., C.M., D.I.F., A.R., M.L., R.E., D.I.T., V.F., P.G., G.A., R.S., L. B., M.L., C.P. per ognuno dei quali sono state riportati per estratto i verbali delle deposizioni rese.

Sulla scorta delle prove in atti, la difesa rileva la carenza degli elementi costitutivi della fattispecie dell’art. 416 bis c.p., non ravvisandosi, al di là del compimento di singoli atti v. pag. 42 del ricorso circostanze fattuali comprovanti una proiezione verso l’esterno di una intimidazione che impersonalmente dovrebbe promanare dal consorzio criminoso. p.3) violazione dell’art. 274 c.p.p. e art. 275 c.p.p., comma 3 ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) con riferimento agli artt. 648, 649, 273 e 309 c.p.p.. Con il motivo in esame la difesa, riprendendo argomenti già illustrati nei precedenti punti e segnatamente l’esito della riunione 20.5.2005 presso la Direzione Nazionale antimafia, ribadisce la sussistenza di una questione di "ne bis in idem cautelare" tra le risultanze della inchiesta della Procura di Latina e quella successiva della Procura Partenopea. p.4) violazione dell’art. 274 c.p.p. e art. 275 c.p.p., comma 3 in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b). Sul punto la difesa segnala che a seguito di giudizio e di condanna alla pena di anni tre di reclusione, per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 75 e 709, il D.L. è stato alla pena di anni tre di reclusione con contestuale concessione degli arresti domiciliari. La difesa sostiene pertanto: "….il reato per il quale D. L. veniva condannato dal Tribunale di Latina è da considerarsi di pari gravità dei reati contestati nel procedimento penale che qui interessa; pertanto, se recentemente il Tribunale per il "riesame" di Roma e successivamente il giudice di merito investito del procedimento ritenevano prima attenuante e poi venute meno le esigenze cautelari, tale giudizio può e deve estendersi alla situazione vagliata nel procedimento penale della DDA di Napoli, potendo ritenersi superata la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3. La circostanza che il Tribunale di Latina autorizzava D.L. a svolgere attività lavorativa per la Lazialfrigo, si manifesta oltremodo rilevante, poichè la impresa de qua veniva considerata dal Tribunale Pontino proprio il luogo ove si presumevano avvenuti alcuni traffici di sostanza stupefacente, ciò a significare che, ad ogni modo, l’azienda non era da considerarsi altro che un effettivo luogo di lavoro e nulla più".

Passando al vaglio i primi tre motivi di impugnazione, fra loro sostanzialmente simili sia in ordine alla tipologia delle censure, sia in relazione alle argomentazioni svolte dalla difesa, il Collegio osserva quanto segue.

La difesa censura il provvedimento impugnato, denunciando la erronea applicazione della legge penale sostanziale e processuale, nonchè il vizio di motivazione, per contraddittorietà e manifesta illogicità evidenziata attraverso tre distinti profili: a) valutazione del contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali; b) valutazione degli atti e degli esiti della inchiesta inizialmente svolta dalla Procura della Repubblica di Latina; c) valutazione del verbale della riunione del 20.5.2005 presso la Procura Nazionale Antimafia. Attraverso il costante richiamo di specifici atti di indagine, la difesa tende a dimostrare che il provvedimento impugnato si appalesa manifestamente illogico perchè non emergono indizi in ordine alla esistenza di una subordinazione della impresa del D.L. alla Paganese, nè tantomeno elementi di prova concreti circa l’appartenenza o la adesione del D.L. al cd. "clan dei casalesi", nè l’adozione, nell’esercizio della attività di impresa nel settore del trasporto su gomma connesso al mercato ortofrutticolo, di metodi, mezzi o condotte riconducibili ad atteggiamento di imperio ed imposizione verso la concorrenza caratterizzate da metodo mafioso. Il ricorso, particolarmente documentato da continui e costanti richiamati a singoli atti processuali, puntualmente riportati nel testo, non può essere accolto per sua strutturale infondatezza connessa a limiti propri del giudizio di legittimità.

La difesa ha formulato doglianze che attengono al merito della valutazione degli elementi di prova illustrato dal Tribunale del riesame, e nel contempo, attraverso una articolatissima illustrazione di specifici atti processuali, ha proposto una diversa lettura del compendio probatorio, fornendo in taluni casi una possibile chiave di lettura del contenuto dei discorsi oggetto di intercettazione telefonica o ambientale, alternativa a quella fatta dal Tribunale del riesame.

Le argomentazioni così svolte non possono trovare accoglimento perchè, nel momento del controllo della motivazione, il giudice di legittimità non è chiamato a stabilire se la decisione di merito impugnata, proponga la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, perchè la Corte di legittimità deve limitarsi a verificare se giustificazione posta a base del provvedimento gravato, sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. Il suddetto principio (già affermato in Cass. Sez. 4^ 2.12.2003 n. 4842; Cass. Sez. 4^ 28.9.2004 n. 47891 trova la sua giustificazione nel fatto che l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) non consente, in nessun caso, alla Corte una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove.

In tale ambito si deve rilevare, in primo luogo, che la difesa non ha posto in evidenza carenze di motivazione, manifeste illogità o contraddizioni (vizi tipici della motivazione previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) desumibili dalla lettura del provvedimento impugnato cui il giudice di legittimità è vincolato sulla base del dato normativo, ma ha dedotto argomentazioni che impongono una rivalutazione del merito. In secondo luogo, con riferimento al costante richiamo critico, del contenuto delle conversazioni oggetto di intercettazione telefonica o ambientale, va ribadito che l’interpretazione del linguaggio e del contenuto delle conversazioni costituisce questione di "fatto", rimessa alla valutazione del giudice di merito e si sottrae la sindacato di legittimità in quanto tale valutazione, come nel caso di specie, sia motivata in conformità ai criteri della logica v. in tal senso Cass. Sez. 6^ 11.12.2007 n. 15396; e più recentemente Cass. Sez. 6^ 8.1.2008 n. 17619. In terzo luogo, le medesime doglianze difensive, non possono neppure essere prese in considerazione come vizio della motivazione emergente dal raffronto con altri atti del processo specificatamente indicati nei motivi di gravame (cd. vizio per travisamento della prova). Nel caso in esame, dandosi doverosamente atto che la difesa in modo puntuale e preciso ha indicato gli atti processuali che a suo avviso non sono stati correttamente considerati dal Tribunale, pur tuttavia la stessa difesa ha dedotto argomenti e considerazioni che si riconducono ad una (inammissibile) semplice rivalutazione del materiale probatorio presi in considerazione dal Giudice delle indagini preliminari prima e dal Tribunale dei riesame, poi.

Infatti, in relazione a questo più specifico possibile profilo di censura, deve essere riaffermato il principio per il quale: "In virtù della previsione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), novellata dalla L. n. 46 del 2006, art. 8, il controllo del giudice di legittimità si estende alla omessa considerazione o al travisamento della prova, purchè decisiva, con la precisazione che ciò che è deducibile in sede di legittimità e rientra, pertanto, in detto controllo è solo l’errore revocatorio (sul significante), in quanto il rapporto di contraddizione esterno al testo della sentenza impugnata, introdotto con la suddetta novella, non può che essere inteso in senso stretto, quale rapporto di negazione (sulle premesse), mentre ad esso è estraneo ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per "brani" nè fuori dal contesto in cui è inserito. Ne deriva che gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e che, pertanto, restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio" v. Cass. Sez. 5^ 11.1.2007 n. 8094 e nello stesso senso Cass. Sez. 4^ 10.7.2007 n. 35683.

Infatti, la possibilità di dedurre il vizio di motivazione per travisamento della prova in sede di giudizio di legittimità, è limitata all’ipotesi in cui il giudice del merito abbia fondato il suo convincimento su di una prova inesistente ovvero su di un risultato probatorio incontestabilmente diverso da quello reale con la conseguenza che, qualora la prova che si assume travisata provenga dall’escussione di una fonte dichiarativa, l’oggetto della stessa deve essere del tutto definito o attenere alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile Cass. pen., sez. 4^, 12.2.2008 in Ced Cass. Rv 239533. Nel caso in esame il Tribunale, riprendendo legittimamente la motivazione della ordinanza cautelare (richiamandola in toto) svolgendo quindi una ulteriore analisi a confutazione delle argomentazioni svolte dalla difesa, ha effettuato una propria valutazione degli elementi di prova posti a base del provvedimento cautelare, indicando le fonti e i relativi contenuti attraverso una operazione intellettiva che non denota manifeste illogicità o contraddittorietà con i dati probatori esaminati, dandone una interpretazione coerente e non censurabile nel merito.

Appare inoltre priva di sostanziale rilievo la questione circa la possibile identificazione in persona diversa dal D., quale effettivo interlocutore della conversazione intercorsa con il Pagano e riportata a pag. 21-22 della ordinanza del Tribunale. Si tratta di circostanza di fatto, rilevata dal Tribunale sulla base delle osservazioni della difesa, che, ad avviso del medesimo organo giudicante, peraltro non modifica il quadro probatorio riguardante la posizione dell’odierno ricorrente. La valutazione del Tribunale appare corretta alla luce della complessiva struttura argomentativa del provvedimento, sì che la riferibilità di quella conversazione a persona diversa dal ricorrente, effettivamente non muta il complesso indiziario rappresentato da intercettazioni, indagini di polizia giudiziaria e dichiarazioni di collaboratori di giustizia.

Con riferimento al profilato contrasto di valutazione dei medesimi elementi probatori, fatto dalla Procura di Latina e dalla Procura della Repubblica di Napoli, nonchè dal Giudice delle indagini preliminari in fase di emissione del provvedimento cautelare, la doglianza difensiva deve essere disattesa alla luce della approfondita analisi condotta dal Tribunale del riesame sul punto (v. pp. 25 – 27). Il Tribunale da atto che l’originaria valutazione delle dichiarazioni testimoniali relative al D.G. e ai suoi familiari, è stata effettuata dal giudice delle indagini preliminari di Latina in termini riduttivi. Sul punto il Tribunale del riesame ha affermato: "… la vera natura del potere intimidatorio della Lazialfrigo sul territorio fondano si svela nella presente indagine, nella ricostruzione del collegamento con P.C. e l’organizzazione Casalese, della quale la società dei D’ALTERIO rappresenta una mera articolazione. Appare evidente che il compendio delle intercettazioni di questo procedimento si appalesa quale novum di eccezionale rilevanza e portata che ben consente una diversa chiave di lettura degli elementi raccolti nel procedimento pontino e legittima le attuali contestazioni… ". La suddetta motivazione, che supera la deduzione difensiva in merito ad un presunto ne bis in idem cautelare, si fonda sul raffronto e la portata del diverso contenuto investigativo della inchiesta pontina con quello del presente procedimento, che è giudizio di merito non manifestamente illogico o irragionevole, alla luce delle complessive argomentazioni contenute nella decisione e della natura delle imputazioni contestate nel presente procedimento, le quali non presentano un qualche carattere di identità con quelle mosse nel procedimento n. 2127/05/21 Rg Procura Latina (non essendo stata in tal senso fornita indicazione da parte del ricorrente).

Si deve infatti ritenere pienamente legittima la rivalutazione, da parte di altra Autorità Giudiziaria, di elementi di fatto, già ritenuti, da un giudice diversamente competente per territorio, privi di sufficiente capacità dimostrativa ai fini di una determinata accusa, quando, ai fini della contestazione del nuovo reato (nel caso di specie violazione dell’art. 416 bis c.p. e art. 513 bis c.p.), precedentemente non ritenuto, le suddette circostanze di fatto si accompagnino a nuovi elementi di prova, successivamente acquisiti dalla autorità competente, che ne consentono un diverso apprezzamento. Per le suddette ragioni i primi tre motivi di ricorso devono essere rigettati. Il quarto motivo di ricorso si appalesa, per contro del tutto inammissibile. La presunzione di pericolosità prevista dall’art. 275 c.p.p., comma 3, si impone in forza dell’accusa di violazione dell’art. 416 bis c.p. e art. 513 bis c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7 e non può essere superata per il solo fatto che una diversa autorità giudiziaria, in un diverso procedimento penale attinente a fatti diversi, ancorchè gravi (quali la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 80) abbia ritenuto di applicare una misura cautelare meno afflittiva di quella della custodia cautelare in carcere.

L’autonomia delle vicende penali, dei reati contestati, delle misure cautelari disposte in diversi contesti processuali, non consente di ritenere che l’un giudizio sulla esigenze cautelari possa essere in concreto, in qualsivoglia modo direttamente influenzato da una diversa decisione resa nel diverso giudizio.

Per le suddette ragioni il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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