Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 25-03-2011) 16-06-2011, n. 24382

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione M.E. avverso la sentenza del Giudice di pace di Rimini in data 4 ottobre 2005 con la quale è stata affermata la sua responsabilità in ordine ai reati di minacce e ingiuria in danno di D.D.U., fatti risalenti al (OMISSIS).

L’imputato era stato condannato alla pena pecuniaria di Euro 280 di ammenda.

Deduce:

1) il vizio di motivazione in ordine alla affermata responsabilità.

Questa era stata ritenuta sula base delle dichiarazioni della persona offesa della quale non era stata vagliata la attendibilità, pur nutrendo, la persona offesa, rancori nei confronti dell’imputato. In particolare era apodittica e non sufficiente la attestazione del D. D. e della convivente di avere riconosciuto per telefono la voce del M. il quale avrebbe proferito espressioni offensive e minatorie;

2) il vizio di motivazione sulla entità della pena che avrebbe potuto essere contenuta nel minimo.

Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.

Il percorso logico seguito dal Giudice di pace nella esposizione delle ragioni della ritenuta colpevolezza del M. presenta una intrinseca coerenza e una evidente plausibilità che lo rende immune da ulteriori censure di questa Corte di legittimità.

Il Giudice di pace, infatti, ha fondato il costrutto accusatorio sulle nette dichiarazioni sia della persona offesa che di altra testimone, evidenziandone la sovrapponibilità e la concludenza ai fini del decidere.

Sia l’uno che l’altra teste hanno segnalato elementi obiettivi a dimostrazione del rispettivo assunto (l’avere, il D.D., inserito il viva voce per fare udire le parole offensive e minatorie anche alla convivente presente; l’avere, il medesimo D.D. interloquito con colui che aveva effettuato la chiamata telefonica in questione chiamandolo " E.", il nome, cioè, del ricorrente;

l’avere, l’altra teste, affermato di avere avuto personale cognizione della voce del M. per averlo, in precedenza, udito parlare anche al locale da quello gestito) che quindi, implicitamente ma compiutamente deve ritenersi assoggettato ad un vaglio di attendibilità.

A fronte di tale ineccepibile motivazione, il ricorrente segnala circostanze (non essere dimostrato che il prevenuto avesse un apparecchio vivavoce; non avere neanche l’altra teste, una propria autonoma attendibilità perchè legata sentimentalmente al D. D.; non avere la teste dimostrato in quale modo avesse previamente conosciuto la voce del M.) che non hanno formato oggetto di specifica motivazione da parte del giudice, senza però che possa dirsi che una simile omissione è censurabile in cassazione.

Ha posto in evidenza più volte questa Corte che in tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (rv 215745).

Nella specie è indubbio che tale giustificazione, compatibile col senso comune, sia apprezzabile così come, per converso, non può censurarsi la mancanza di motivazione su questioni che, specificamente, non si è dimostrato abbiano formato, per la decisività rivestita, oggetto di altrettanto specifiche doglianze da parte della difesa.

Inammissibile è anche l’ultimo motivo di ricorso.

Il ricorrente chiede che siano direttamente valutate da questa Corte circostanze di fatto (quali ad esempio la incensuratezza o la minima entità del fatto) che il giudice del merito ha già apprezzato sia riconoscendo le circostanze attenuanti generiche che irrogando una pena prossima al minimo edittale, tenuto conto oltretutto che i reati sono stati unificati ex art. 81 c.p..

Deve tuttavia procedersi di ufficio alla rettifica della denominazione della sanzione pecuniaria, da intendersi come multa e non come ammenda, essendo ciò consentito dall’art. 619 c.p.p. come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità (Rv. 212532).

Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in Euro 500.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma di Euro 500.

Rettifica la pena pecuniaria irrogatacela sentenza impugnata nel senso che invece di ammenda deve intendersi multa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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