Cass. pen., sez. II 25-06-2008 (11-06-2008), n. 25756 Prova – Omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza del 24.2.1997 il Pretore di Milano condannava N. F., ritenuto il vincolo della continuazione fra i reati allo stesso ascritti e concesse la circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni uno mesi sei di reclusione e L. 1.000.000 di multa, avendolo ritenuto responsabile dei reati di contraffazione di carta di identità (artt. 477 – 482 c.p.), ricettazione della stessa (art. 648 c.p.) ed illegittima sostituzione della propria persona a quella del titolare del detto documento (art. 494 c.p.).
Avverso tale sentenza proponevano appello l’imputato ed il Procuratore Generale presso la Corte di Appello.
Con sentenza del 3.7.2003 la Corte di Appello di Milano dichiarava non doversi procedere nei confronti del N. in ordine ai reati di cui agli artt. 477 – 482 e 494 c.p., e, in accoglimento dell’appello del Procuratore Generale, negate le circostanze attenuanti generiche, rideterminava la pena per il delitto di ricettazione in anni due di reclusione ed Euro 700,00 di multa.
Avverso tale sentenza l’imputato N.F. propone, per mezzo del difensore, ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge sotto diversi profili.
Col primo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. d), per mancata assunzione di prova decisiva. In particolare rileva la difesa che, sebbene nei motivi di appello fosse stata chiesta la rinnovazione parziale dibattimento, la Corte territoriale aveva omesso di escutere in qualità di teste il titolare della carta di identità per cui è processo, escussione necessaria al fine dell’accertamento della esistenza o meno del reato presupposto richiesto per la configurabilità della ricettazione.
Il motivo è manifestamente infondato.
Ed invero sul punto la Corte territoriale, richiamato il costante orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale la rinnovazione del giudizio in appello è istituto di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso allorchè il giudice ritenga nella sua discrezionalità di non poter decidere allo stato degli atti, ha rilevato che nel caso di specie il contenuto della denuncia presentata dall’interessato e ritualmente acquisita agli atti rendeva non necessaria l’escussione del teste indicato.
Sul punto ritiene il Collegio di dover evidenziare che il motivo di annullamento previsto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) presuppone che la prova non acquisita abbia un contenuto tale da risolvere il thema decidendum; siffatta evenienza non si verifica nella fattispecie in esame, ove si osservi che, in subiecta materia, questa Corte ha a più riprese ha evidenziato come, in tema di cosiddetto smarrimento di assegno, di altro titolo e, comunque, di cosa (fra cui va compresa la carta di identità) che mantenga "chiari e intatti i segni esteriori pubblicitari di un possesso legittimo altrui", non appare configurabile il presupposto dello smarrimento obiettivo vero e proprio, tale che il bene possa ritenersi del tutto uscito dalla sfera di disponibilità del possessore, nel senso che egli non abbia alcuna possibilità di ripristinare il suo potere di fatto sullo stesso e debba quindi considerarsi come venuto meno anche l’elemento psicologico del possesso (in proposito v. Cass. sez. 2^, 28.12.1989 n. 17393; Cass. sez. 2^, 16.6.99 n. 11034).
In questa prospettiva il venir meno della relazione materiale del titolare con la cosa posseduta, al di fuori dei casi in cui il medesimo ne abbia volontariamente dimesso il possesso, postula che il potere di fatto non sia cessato, in quanto esso è suscettibile di essere ripristinato attraverso i segni esteriori della cosa, i quali costituiscono l’espressione inequivocabile del possesso altrui mai venuto meno nella sua essenza psicologica. Pertanto colui che fa proprio un simile bene, uscito dalla custodia del suo titolare, senza provvedere, avendone la possibilità, alla materiale restituzione, pone in essere una condotta riconducibile sotto il profilo materiale e psicologico, o alla previsione della fattispecie criminosa del furto qualora l’impossessamento sia avvenuto senza intermediario, con sottrazione vera e propria al legittimo titolare dello "ius possidenti", ovvero a quella concretantesi nella ricettazione laddove, come nel caso di specie, non risulti provato che sia stato l’imputato ad appropriarsi per primo del documento smarrito.
Pertanto sotto questo profilo il ricorso proposto denota la sua manifesta infondatezza atteso che l’escussione del titolare del documento in parola non assume, per le considerazioni in precedenza svolte, alcun carattere decisivo in ordine alla configurabilità ed alla sussistenza del contestato delitto di ricettazione.
Col secondo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione di legge penale sostanziale e vizio di motivazione circa la ricorrenza del delitto di ricettazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), con riferimento all’art. 648 c.p.. In particolare rileva la difesa che la Corte territoriale non aveva sufficientemente motivato in ordine alla questione del reato presupposto della ricettazione; ed invero la Corte territoriale aveva individuato il suddetto delitto presupposto nella appropriazione indebita da parte di terzi di cosa smarrita, sebbene in realtà dagli atti del processo non emergesse in alcun modo la prova del suddetto delitto presupposto.
Anche sul punto il ricorso è manifestamente infondato.
Ed invero osserva innanzi tutto il Collegio che, per costante orientamento giurisprudenziale, ai fini della configurabilità del delitto di ricettazione è necessaria la consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto, senza che sia peraltro indispensabile che tale consapevolezza si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto, potendo anche essere desunta da prove indirette, allorchè siano tali da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza della provenienza illecita di quanto ricevuto.
Posto ciò, devesi ulteriormente evidenziare che la conoscenza della provenienza delittuosa della cosa può desumersi da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dal comportamento dell’imputato che dimostri la consapevolezza della provenienza illecita della cosa ricettata, ovvero dalla mancata – o non attendibile – indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede (Cass. Sez. 2^, 27.2/13.3.1997, n. 2436, CP 98, 827).
E nel caso di specie la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che l’assenza di plausibili spiegazioni in ordine alla legittima acquisizione della suddetta carta di identità, si pone come coerente e necessaria conseguenza di un acquisto illecito, essendo in re ipsa la illiceità dell’acquisto, o comunque della ricezione, di una carta di identità intestata ad altro soggetto.
Ed in tema di reato presupposto deve rilevarsi che, ai fini dell’accertamento della responsabilità per il delitto di ricettazione, non è necessario l’accertamento giudiziale della commissione dello stesso nè l’esatta tipologia del reato, potendo il giudice affermarne l’esistenza attraverso prove coerenti e logiche.
Nè a tal fine è necessaria, in caso di reato perseguibile a querela, l’effettiva presentazione della stessa, atteso che la querela attiene non alla sussistenza del reato bensì alla sua concreta punibilità.
E pertanto anche sotto questo profilo il ricorso evidenzia la sua manifesta infondatezza.
Col terzo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione circa l’accoglimento dell’appello del Procuratore Generale in ordine alla esclusione delle circostanze attenuanti generiche, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), c.p.p. in relazione agli artt. 62 bis e 133 c.p.. In particolare rileva la difesa che la Corte territoriale aveva, in parziale riforma della decisione del giudice di primo grado, escluso la concessione delle circostanze attenuanti generiche sulla base dei soli precedenti penali dell’imputato, con palese violazione della disposizione di cui all’art. 62 bis c.p. che impone per contro di tener conto di tutti i parametri ex art. 133 c.p..
Anche sul punto il ricorso manifestamente infondato.
In proposito osserva il Collegio che la Corte territoriale si è correttamente riportata a quegli elementi, consistenti nei gravi precedenti penali dell’imputato "indicativi dell’intensa capacità a delinquere del prevenuto e della di lui spiccata pericolosità", ritenuti rilevanti ai fini della esclusione delle suddette attenuanti generiche, dando pertanto pienamente contezza di quegli elementi che non consentivano un atteggiamento di particolare clemenza, che costituisce in definitiva il contenuto di tali attenuanti.
A ciò devesi aggiungere che, secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, "in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio;" (Cass. Sez. 1^ sent. n. 11361 del 19/10/1992 dep. 25/11/1992 rv 192381).
Nè può omettersi di rilevare che ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p. il giudice, nell’esercizio del suo ampio potere discrezionale, deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., ma non è necessario a tal fine che li esamini tutti essendo sufficiente che specifichi a quale di essi ha inteso fare riferimento; ciò in quanto anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti medesime (Cass. Sez. 2^ sent. n. 4790 del 16/1/1996 dep. 10/5/1996 rv 204768).
A tale regola si è attenuta la Corte di appello di Milano ponendo appunto in rilievo i numerosi e gravi precedenti penali dell’imputato che non consentivano un trattamento di particolare clemenza, facendo pertanto riferimento a quello, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., che riteneva prevalente ed atto a determinare il diniego della concessione del beneficio.
Col quarto motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione di legge e difetto di motivazione circa la mancata sussunzione del reato de quo in quello di cui al capoverso dell’art. 648 c.p..
Anche tale motivo è manifestamente infondato.
Ritiene in proposito il Collegio di dover evidenziare che per la configurabilità dell’ipotesi attenuata di cui al capoverso dell’art. 648 c.p. occorre che il fatto, valutato nel suo insieme, e quindi anche con riferimento alle modalità dell’azione, ai motivi della stessa, alla personalità dell’imputato, presenti quelle connotazioni di marginalità, occasionala e modestia che consentano di qualificare il reato come ipotesi di particolare tenuità evidenziando una rilevanza criminosa assolutamente modesta; siffatte connotazioni non sono invero riscontrabili nella fattispecie in esame in considerazione non solo di tutti gli elementi integrativi del fatto – reato, ma anche della valutazione negativa, in precedenza operata dalla Corte d’appello, delle personalità dell’imputato, elementi che consentono pertanto di escludere l’occasionalità di tale condotta delittuosa ed il carattere assolutamente modesto o addirittura marginale della stessa, che invece appare indicativa di una persistente ed allarmante capacità a delinquere dell’agente.
Pertanto anche sotto questo profilo il ricorso proposto denota la sua manifesta infondatezza.
Il ricorso deve di conseguenza essere dichiarato inammissibile, e tale declaratoria comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, potendosi ravvisare profili di colpa, anche la condanna al versamento della somma di euro mille alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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