Cass. pen., sez. I 25-06-2008 (05-06-2008), n. 25728 Presupposti per il sequestro preventivo a fini di confisca – Oneri di prova a carico del P.M. e dell’interessato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Lecce, adito ex art. 322 c.p.p., ha – per quanto qui interessa confermato il sequestro preventivo dell’azienda denominata "(OMISSIS)", appartenente a C.M., disposto dal G.I.P. in sede il 29.12.2007. Osserva il Tribunale che il C. è sottoposto a custodia cautelare in qualità capo di associazione di tipo mafioso, nonchè per estorsione ed usura, e sulla gravità indiziaria si è formato giudicato cautelare. I titoli di reato rendono obbligatoria, in caso di condanna, la confisca dei beni di non giustificata provenienza nella disponibilità dell’indagato, se di valore sproporzionato ai redditi dichiarati o all’attività economica svolta, a norma del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies e successive modifiche. Ne è pertanto consentito il sequestro preventivo ai sensi del comma 4, art. citato e dell’art. 321 c.p.p., comma 2. Nel caso di specie ricorrevano i presupposti per l’applicazione della misura; la ditta in sequestro era stata costituita nel 2002, e nell’anno precedente il C. aveva percepito un reddito di soli Euro 1.800,00 quale lavoratore dipendente. La capacità reddituale era stata bassissima o nulla anche nelle annate anteriori. Le famiglie di origine dell’indagato e della moglie potevano contare ciascuna su un unico reddito di modestissima entità. Ciononostante, il C. aveva sostenuto nell’anno 2003 spese di avviamento dell’azienda per Euro 62.141 ed effettuato acquisti di mitili per Euro 300.000 nel 2004, per Euro 462.000 nel 2005. L’azienda era inoltre dotata di un muletto e due mezzi per il trasporto della merce e aveva, a quanto emerso dalle indagini, quattro dipendenti non regolarizzati; era concessionaria di un’area demaniale marittima di mq. 12.000, di cui aveva richiesto l’ampliamento nel 2003, pur non disponendo allo stato di impianti di allevamento (i mitili immessi in commercio erano acquistati presso terzi). L’investimento non era giustificato da una vincita al lotto di Euro 200.000, avvenuta nel 2004 e quindi due anni dopo l’inizio dell’attività; del resto, a quanto emerso dalle indagini, la quota trattenuta dall’indagato era di soli Euro 65.000, essendo stato il resto versato ad un omonimo cugino, detenuto per analogo reato associativo. Nè era attendibile la prospettazione difensiva di una forma di autofinanziamento basata su acquisti a credito e pagamento differito al momento della rivendita della merce, anche a mezzo di assegni postdatati; poichè gli acquisti erano effettuati prevalentemente all’estero, siffatte agevolazioni erano difficilmente concepibili o del tutto impraticabili, nè comunque riscontrate da movimenti bancari proporzionati al volume degli affari.
Ricorre per cassazione il difensore, denunciando violazione della legge penale. L’entità delle spese di impianto e gestione dell’azienda era stata stimata a livelli inverosimili senza indicare la fonte del convincimento al proposito maturato; in particolare, gli esborsi effettivamente necessari all’avviamento dell’attività potevano ammontare a un centinaio di Euro. D’altra parte, non si era considerata una sovvenzione per Euro 14.500 versata nel 2002 dal padre dell’indagato, che aveva ottenuto un risarcimento da società assicurativa; circostanza emersa dalle indagini ed oggetto di specifiche deduzioni difensive.
Quanto allo sviluppo della gestione, non si era tenuto conto del consuetudinario differimento, nel commercio in questione, dei pagamenti ai fornitori a rivendita avvenuta; i rilievi della difesa erano stati disattesi per mancanza di riscontro nella documentazione bancaria, non acquisita dall’accusa, cui incombeva il relativo onere.
Era stata invece superfluamente considerata la vincita al lotto, successiva all’inizio dell’attività.
Il ricorso è manifestamente infondato quanto all’unica questione di diritto sollevata, e cioè la ripartizione dell’onere della prova.
Questo, secondo le regole ordinarie, incombe all’accusa quanto alla sproporzione del bene rispetto alla capacità reddituale (lecita) del soggetto; una volta provata la mancanza di proporzione, in ragione del titolo del reato vi è una relativa presunzione di illecita accumulazione patrimoniale, che può essere superata da specifiche e verificate allegazioni dell’interessato (questi infatti, per testuale previsione del D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, è soggetto a confisca o sequestro quando "non può giustificare la provenienza" delle disponibilità economiche non confacenti alle sue condizioni).
Nel caso di specie, quindi, a lui spettava l’onere di produrre la documentazione bancaria (nella sua piena disponibilità) a sostegno della tesi difensiva dell’autofinanziamento mediante pagamenti differiti ai fornitori. Ciò considerato, le ulteriori questioni sollevate con il gravame si risolvono in censure in punto di fatto o nella prospettazione di un alternativo apprezzamento delle risultanze investigative, cioè in doglianze non consentite nel giudizio di legittimità, e tanto meno in tema di ricorso ex art. 325 c.p.p., ammesso soltanto per violazione di legge, sicchè la motivazione può essere censurata esclusivamente se mancante o meramente apparente. Va in particolare rilevato che la spesa iniziale sostenuta per l’avviamento dell’azienda, in misura largamente eccedente l’asserita sovvenzione paterna, è stata indicata nell’ordinanza impugnata con riferimento all’esito di accertamenti incrociati presso le banche dati dell’amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali ed alle informazioni correlativamente assunte, e del resto risulta pienamente proporzionata all’entità (non contestata) del giro di affari degli anni successivi, ai mezzi ed al personale impiegato, alle dimensioni della concessione demaniale ottenuta.
Il ricorso va perciò dichiarato inammissibile. Consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e – non emergendo ragioni di esonero – di una somma alla cassa delle ammende, congruamente determinata in 1000,00 Euro.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Prima Sezione Penale, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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