T.A.R. Lazio Roma Sez. II ter, Sent., 21-06-2011, n. 5508 Costruzioni abusive Sanzioni amministrative e pecuniarie

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con determinazione dirigenziale n. 1158 del 15 maggio 2009, il Comune di Roma (ora Roma Capitale) ha revocato alla ricorrente l’autorizzazione commerciale n. 38 del 14 marzo 1996 relativa all’esercizio (di vendita di fiori) ubicato in Roma, via Palmiro Togliatti n. 738, ciò in ragione del fatto che i manufatti ivi esistenti erano privi di un valido titolo edilizio.

Avverso tale atto, e tutti gli altri ad esso connessi, ha proposto impugnativa la ricorrente chiedendone l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, e la condanna dell’amministrazione resistente al risarcimento dei danni, per i seguenti motivi:

1) illegittimità del provvedimento impugnato per violazione di legge relativamente all’art. 24 della legge 11 giugno 1071 n. 426.

L’amministrazione resistente ha rilasciato l’autorizzazione commerciale n. 38 del 14 marzo 1996 alla ricorrente (comodataria dell’immobile), in pendenza di un procedimento di condono intentato dal sig. Giovanni O., così ingenerando nell’istante l’affidamento circa la regolarità della situazione.

Il decorso del tempo ha consolidato tale posizione che è stata poi vanificata dall’adozione, nel 2009, del provvedimento impugnato;

2) illegittimità del provvedimento per violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990; eccesso di potere per manifesta ingiustizia, illogicità e carente motivazione nonché violazione dei principi posti a tutela dell’affidamento incolpevole.

Il provvedimento impugnato, proprio in ragione dell’affidamento ingenerato nella ricorrente, è carente di motivazione, in violazione dei principi contenuti nella legge 241 del 1990.

3) illegittimità del provvedimento per violazione della legge n. 241 del 1990.

Nella vicenda in esame, l’amministrazione ha disatteso il dovere di buona fede che deve ispirare i rapporti tra pubblico e privato, avendo ingenerato negli anni l’affidamento circa la stabilità della posizione lavorativa della ricorrente;

4) illegittimità del provvedimento per violazione dei principi generali di autotutela previsti dalla legge n. 241 del 1990; eccesso di potere, violazione del giusto procedimento, difetto di motivazione, perplessità e contraddittorietà.

Il provvedimento impugnato non deve essere qualificato come revoca ma come annullamento in quanto non vi è stata alcuna valutazione degli interessi coinvolti anche perché, dopo anni di inerzia, l’amministrazione si è "ricordata" dell’esistenza di un’irregolarità edilizia senza considerare l’affidamento ingenerato dal trascorrere del tempo in capo alla ricorrente;

5) illegittimità per violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 22 del D.lgs n. 114 del 1998 avente ad oggetto "riforma della disciplina relativa al settore del commercio".

L’art. 22 del D.lgs n. 114 del 1998, per le violazioni di cui all’art. 7 del decreto citato in materia di esercizi di vicinato, prevede l’irrogazione di una sanzione pecuniaria e non l’adozione del provvedimento di revoca dell’autorizzazione commerciale;

6) illegittimità del provvedimento per violazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990; eccesso di potere, carenza di motivazione con violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990.

La comunicazione di avvio del procedimento è del 7 maggio 2009 mentre il provvedimento impugnato è stato adottato il successivo 15 maggio, senza che la ricorrente abbia potuto interloquire con l’amministrazione chiedendo ad esempio il riesame della pratica di condono e convincendo il titolare dell’immobile a depositare la documentazione comprovante la titolarità dei manufatti.

Da ciò, la carenza di motivazione del provvedimento impugnato che fa un generico riferimento all’assenza dell’autorizzazione edilizia.

Si è costituita in giudizio l’amministrazione capitolina, chiedendo il rigetto del ricorso perché infondato nel merito e rappresentando altresì che il provvedimento di rigetto della domanda di condono edilizio (D.D. n. 302 dell’8 settembre 2003) era stato adottato in ragione del mancato consenso da parte del proprietario dell’immobile (soggetti diversi dal sig. O., che pure aveva concesso in comodato alla ricorrente i manufatti di che trattasi, nel novembre 1990).

Con ordinanza n. 4460/2009, è stata accolta la domanda di sospensiva.

Con atto depositato in data 18 novembre 2010, sono intervenuti ad opponendum i sigg.ri M. qualificandosi proprietari del terreno sito in Roma, via Palmiro Togliatti nn. 738740 (foglio n. 946, particella n. 368) i quali – nel depositare la sentenza del Tribunale civile n. 7191 del 2001 (passata in giudicato) che dichiarava l’O. occupante abusivo del suddetto terreno e dei manufatti ivi insistenti e ne ordinava il rilascio – hanno chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza e la condanna dell’amministrazione resistente al risarcimento dei danni.

In prossimità della trattazione, gli intervenienti hanno depositato una memoria e ulteriore documentazione, insistendo nelle loro conclusioni.

Alla pubblica udienza del 7 giugno 2011, la causa, dopo la discussione delle parti, è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.
Motivi della decisione

1. I primi quattro motivi del ricorso possono essere trattati congiuntamente in quanto riguardano profili diversi di un’unica censura, ovvero l’illegittimo esercizio del potere di autotutela da parte dell’amministrazione resistente.

1.1 Ciò premesso, è utile anzitutto evidenziare che la normativa in materia di rilascio delle autorizzazioni commerciali (D.lgs 114 del 1998 e Legge 287 del 1991) prescrive, quanto ai requisiti oggettivi che devono sussistere per il rilascio delle relative licenze, che le attività devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienicosanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici.

Precedentemente all’entrata in vigore della suddetta disciplina normativa (nel vigore, quindi, dell’art. 24, comma 3, della legge 426 del 1971), la giurisprudenza amministrativa era pervenuta alla conclusione che non era compito dell’amministrazione verificare, in sede di rilascio dell’autorizzazione, la compatibilità dell’esercizio commerciale con la disciplina urbanistica o con la normativa edilizia, in quanto gli interessi diversi da quelli commerciali, indicati nell’abrogato art. 24 della legge n. 426 del 1971, dovevano essere tutelati con altre modalità ed in sedi diverse (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. III, 30 settembre 1986, n. 1957; Tar Veneto, 4 dicembre 1985, n. 942; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 6 giugno 1988, n. 177; Tar Lazio, Latina, 27 gennaio 1990, n. 41; Tar Toscana, sez. II, 20 marzo 1996, n. 155; Tar Sardegna, 23 agosto 1996, n. 1971).

Tale orientamento giurisprudenziale muoveva dalla considerazione che la disciplina dettata in materia di commercio non subordinava esplicitamente il rilascio o il mantenimento dell’efficacia dell’autorizzazione all’accertamento della compatibilità del pubblico esercizio da autorizzare con le norme e prescrizioni urbanistiche, ma si limitava a stabilire che l’esercizio dell’attività non esclude il rispetto delle norme e prescrizioni suddette, restando salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate (cfr. Tar Lombardia, sez. Brescia, 2 agosto 1993, n. 659).

Con l’entrata in vigore del D.lgs 114 del 1998 e della legge 287 del 1991, è stato invece stabilito uno stretto collegamento tra la programmazione delle rete commerciale e la pianificazione urbanistica, sicché l’apertura e degli esercizi commerciali e di quelli di somministrazione di alimenti e bevande, è subordinata alle previsioni di quest’ultima, trattandosi di un rapporto tra attività di gestione e attività programmatoria (cfr. Tar Lombardia, sez. IV, 3 febbraio 2006, n. 160 e 17 ottobre 2008, n. 5154), anche in considerazione della circostanza per cui l’amministrazione comunale non può tollerare una situazione che, per altri versi, dovrebbe reprimere (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 8 agosto 2007, n. 7409; TRGA, Bolzano, sez. I, 1 ottobre 2003, n. 427).

Da ciò consegue che l’apertura di esercizi commerciali presuppone la conformità dei relativi locali alle prescrizioni urbanistiche (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2001; Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2521; Tar Campania, Napoli, sez. III. 23 febbraio 2003, n. 1250).

Tale orientamento, peraltro, è stato ribadito dal giudice di appello il quale ha avuto modo di chiarire che, in ordine alla necessaria relazione di conformità tra autorizzazione commerciale e disciplina urbanistica, alla stregua della normativa vigente (D.lgs 114 del 1998 e legge 287 del 1991), l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanisticoedilizia rappresenta un momento istruttorio necessario, in quanto diretto ad accertare l’esistenza di un presupposto espressamente previsto dalla legge e che, pertanto, sia inibito all’autorità amministrativa il rilascio degli atti autorizzativi in difetto di tale conformità (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3639/2000 e, sez. IV, 3027/2007).

Da ciò consegue che "l’attività commerciale non può essere autorizzata in immobili difformi dalla disciplina urbanistica" (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5 aprile 2005, n. 1543; Cons. Stato, sez. V, 8 luglio 2008, n. 3398).

1.2 Ciò posto con riferimento all’evoluzione giurisprudenziale sul collegamento tra conformità edilizia e rilascio delle autorizzazioni a svolgere in locali abusivi attività commerciali, deve altresì osservarsi che, con riferimento all’adozione delle ordinanze di demolizione di manufatti abusivi, la giurisprudenza amministrativa afferma, ormai costantemente, che l’amministrazione ha l’obbligo di adottare tali provvedimenti senza la necessità di motivare in ordine alla prevalenza dell’interesse pubblico rispetto a quello privato.

È stato, altresì, affermato che gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, che si protraggono nel tempo e vengono meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni.

Da ciò consegue che, per quanto riguarda la decorrenza della prescrizione dell’illecito amministrativo permanente, trova applicazione il principio relativo al reato permanente, secondo cui il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza (art. 158, comma I, cod. pen.); pertanto, per gli illeciti amministrativi in materia paesistica, urbanistica ed edilizia, la prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 della legge 22 ottobre 1981 n. 689 inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza, con la conseguenza che, vertendosi in materia di illeciti permanenti, il potere amministrativo repressivo, come la determinazione di applicare la sanzione pecuniaria, può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell’esercizio del potere; più in particolare, per quanto concerne il momento in cui può dirsi cessata la permanenza per gli illeciti amministrativi in materia urbanisticoedilizia e paesistica, per il diritto amministrativo si è in presenza di un illecito di carattere permanente, caratterizzato dall’omissione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conclusione che l’Autorità, se emana un provvedimento repressivo (di demolizione, ovvero di irrogazione di una sanzione pecuniaria), non emana un atto "a distanza di tempo" dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente (in tal senso, Cons. St., sez. IV, 16 aprile 2010, n. 2160).

Ciò posto, sebbene parte della giurisprudenza amministrativa affermi anche che l’unico limite all’obbligo dell’amministrazione di ripristinare la situazione di liceità deve rinvenirsi nel lungo lasso di tempo dalla commissione dell’abuso edilizio ed il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione preposta alla vigilanza (per tutte, TAR Campania, sez. IV, 15 aprile 2011, n. 972), tale situazione non è rinvenibile nel caso di specie posto che nessun affidamento legittimo può dirsi ingenerato nella ricorrente la quale era comunque a conoscenza del fatto che era pendente un procedimento di condono edilizio avviato nel dicembre 1994 dal sig. O., poi rigettato con provvedimento del 2003 (D.D. n. 302 dell’8 settembre 2003).

Ora, pur ammettendo che la ricorrente non fosse a conoscenza del rigetto nel 2003 della domanda di condono edilizio, l’interessata non può comunque ritenere che il rilascio dell’autorizzazione commerciale nel 1996 abbia potuto ingenerare l’affidamento nella regolarità urbanistico- edilizia dell’immobile in quanto costituisce principio di autoresponsabilità il dovere dell’interessato di seguire l’evoluzione di una procedura (come quella di condono) di cui si è al corrente, seppure avviata da altri, il cui esito favorevole o sfavorevole è in grado di incidere direttamente sui propri interessi commerciali.

1.3 Alla situazione sopra descritta, non può non aggiungersi un elemento di fatto che emerge dal provvedimento di diniego del condono edilizio del 2003 e dalla documentazione depositata in giudizio dagli intervenienti ad opponendum (sigg.ri M., titolari del terreno sito in Roma, via Palmiro Togliatti nn. 738740 – foglio n. 946, particella n. 368) ed, in particolare, dalla sentenza del Tribunale civile n. 7191 del 2001 (passata in giudicato).

Con la citata sentenza, il giudice civile ha dichiarato l’O. (soggetto che ha dato in comodato l’immobile di che trattasi alla ricorrente) occupante abusivo del suddetto terreno e dei manufatti ivi insistenti tanto da ordinarne il rilascio in favore dei predetti sigg.ri M..

Del resto, la stessa amministrazione resistente ha negato il condono edilizio (relativamente alla porzione di terreno di che trattasi) proprio a causa del mancato consenso dei legittimi proprietari ovvero i Sigg.ri M..

1.4 In ragione di quanto sopra dedotto e del fatto che deve essere ribadita l’obbligatorietà da parte dell’amministrazione di ripristinare la situazione di illiceità e di revocare (recte: annullare) il titolo che autorizza l’esercizio dell’attività commerciale (atteso lo stretto collegamento tra autorizzazione commerciale e conformità edilizia), i primi quattro motivi devono essere respinti.

2. Anche il sesto motivo (avente ad oggetto la comunicazione di avvio del procedimento e lo scarso tempo concesso alla ricorrente per interloquire), di cui si anticipa l’esame per motivi di ordine logico, va respinto essendo sufficiente richiamare quanto esposto nel punto precedente con riferimento alla obbligatorietà dell’iniziativa assunta con il provvedimento impugnato da parte dell’amministrazione resistente.

3. Il quinto motivo è anch’esso infondato in quanto la fattispecie sanzionatoria contemplata negli artt. 7 e 22 del D.lgs n. 114 del 1998 si riferisce ad ipotesi diverse da quella in esame ovvero al contenuto non veritiero della DIA presentata per l’avvio degli esercizi di vicinato.

Per quanto riguarda il caso di specie, si tratta, invero, di una ipotesi sanzionatoria che non esclude affatto la possibilità per l’amministrazione di adottare il provvedimento impugnato.

4. Con l’atto di intervento, poi, i sigg.ri M. chiedono altresì la condanna dell’amministrazione resistente a risarcire i danni per difetto di vigilanza (quantificati in euro 204.180,00).

Ora, in disparte il fatto che l’amministrazione ha adottato un provvedimento che, all’esito dell’esame delle suddette censure, è risultato immune dai vizi dedotti e che, nel 2003, ha comunque negato il rilascio del provvedimento di condono edilizio, ciò che altresì rileva è che la domanda risarcitoria è stata introdotta con atto di intervento ovvero con uno strumento non idoneo ad ampliare l’oggetto della controversia.

La richiesta di risarcimento danni va, quindi, dichiarata inammissibile.

5. In conclusione, il ricorso va respinto mentre la domanda risarcitoria avanzata dagli intervenienti va dichiarata inammissibile.

6. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Dichiara inammissibile la domanda risarcitoria avanzata dagli intervenienti ad opponendum.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in euro 3.000,00 (tremila/00) oltre IVA e CPA, di cui euro 1500,00 in favore di Roma Capitale ed euro 1500,00 in favore degli intervenienti ad opponendum.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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