Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-03-2011) 17-06-2011, n. 24440

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 5 marzo 2009 la Corte di appello di Roma riformava la sentenza emessa il 15 luglio 2008 dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere con la quale P.F., C. D., M.A. e V.G. erano stati dichiarati colpevoli del reato di concorso in estorsione aggravata anche ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 conv. nella L. n. 203 del 1991, reato commesso in (OMISSIS) ai danni di A.A., e il M. dell’analogo reato commesso in (OMISSIS) ed erano stati condannati, ritenuta la continuazione, il P. e il C. alla pena di anni dodici di reclusione ed Euro 2.300,00 di multa, il M. alla pena di anni tredici di reclusione ed Euro 2.800,00 di multa e il V. (assolto dal secondo reato per non aver commesso il fatto), con le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti previste dall’art. 629 cpv. c.p. e art. 112 c.p.. alla pena di anni sette, mesi quattro di reclusione ed Euro 900,00 di multa, per tutti con le pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena. La Corte di appello riduceva la pena nei confronti del M. ad anni undici, mesi due di reclusione ed Euro 2.800,00 di multa e nei confronti del V. ad anni sei, mesi due. giorni venti di reclusione ed Euro 900,00 di multa, confermando le restanti statuizioni. Nel corso del giudizio di appello sia il M. che il V. avevano rinunciato ai motivi di gravame diversi da quello relativo alla pena.

I fatti venivano ricostruiti dal giudice di primo grado e di appello nei termini che seguono. A.A., socio accomandatario dell’Ente Fiere Europa s.r.l., aveva accettato di organizzare una fiera nel comune di Caturano ed era entrato in contatto con il presidente della Pro loco. D.C.P., che gli aveva preannunciato un incontro con P.F., referente del clan Belforte per la zona di (OMISSIS), il quale gli aveva chiesto un "contributo" di Euro 40.000,00, poi ridotto a Euro 25.000,00 e successivamente a Euro 20.000,00, consigliandogli di servirsi per la stampa del materiale pubblicitario di una determinata tipografia. Al P., uscito di scena, era subentrato tale A. ( M.) che aveva chiesto all’ A. di versare Euro 16.000.00, importo diminuito a Euro 12.000,00 in occasione dell’incontro avvenuto in aperta campagna con dei "latitanti" (uno dei quali identificato nel C.) che, di fronte alle esitazioni dell’ A., avevano minacciato di "far saltare tutto in aria".

La richiesta era in seguito diminuita prima a Euro 8.000, poi a Euro 5.500,00 e, infine, essendo stati nel frattempo informati i Carabinieri, S.P. era stato arrestato in flagranza subito dopo aver ritirato la somma di Euro 1.500,00.

Avverso la sentenza di appello gli imputati P., M. e C. hanno proposto, tramite i rispettivi difensori, ricorso per cassazione.

Con il ricorso presentato nell’interesse del M. si deduce:

1) la violazione di legge -con riferimento all’art. 530 c.p.p., art. 629 c.p., comma 2, art. 628 c.p., comma 3, nn.1 e 3 e L. n. 203 del 1991, art. 7 – e il difetto di motivazione quanto all’affermazione di responsabilità dell’imputato, fondata solo sulle incerte dichiarazioni del teste Pi.;

2) la violazione di legge e il difetto della motivazione per il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e dell’attenuante prevista dall’art. 62 c.p., n. 4 in quanto M., il quale all’epoca dei fatti era tossicodipendente e versava in disagiate condizioni economiche, si sarebbe limitato a minacciare la persona offesa e non le avrebbe recato alcun danno materiale.

Con il ricorso presentato nell’interesse del C. si deduce:

1) la mancanza di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità, fondata essenzialmente sulle dichiarazioni del teste D.C., il quale aveva riconosciuto in fotografia il ricorrente;

2) il difetto di motivazione relativamente alla mancata diminuzione della pena. Con il ricorso presentato nell’interesse del P. si deduce:

1) la violazione dell’art. 110 c.p. e il vizio della motivazione in quanto la semplice partecipazione ad un tentativo di estorsione non avrebbe potuto integrare il concorso nell’estorsione consumata fondata su una nuova trattativa instaurata a distanza di circa sei mesi, con diverse modalità esecutive e diverse richieste; il P., infatti, nei contatti avuti con la persona offesa si era presentato con il suo vero nome e, inoltre, riferendosi agli "amici" intendeva riferirsi al D.C. e non a componenti di un’organizzazione criminale camorristica;

2) la violazione dell’art. 56 c.p., comma 3 e il vizio della motivazione essendo estranea e irrilevante la richiesta del P. (poi trasferitosi all’estero) rispetto all’estorsione in seguito messa in atto autonomamente da altri soggetti;

3) la violazione di legge in relazione alla L. n. 203 del 1991, art. 7, non avendo mai l’imputato prospettato alla persona offesa la propria appartenenza ad un clan camorristico di cui solo il D. C. aveva parlato all’ A., il quale peraltro si era rifiutato di versare alcunchè;

4) la violazione dell’art. 133 c.p. e il vizio della motivazione avendo il giudice di merito preso in considerazione solo i precedenti penali del P., senza tener conto della sua condotta durante e dopo la commissione del reato.

Il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato M. è inammissibile.

Il primo motivo è del tutto generico e, comunque, manifestamente infondato poichè, come rilevato nella sentenza impugnata, l’imputato aveva rinunciato nel corso del giudizio di appello ai motivi di gravame diversi da quello relativo all’entità della pena, ammettendo le proprie responsabilità. Pertanto le censure in punto di responsabilità correttamente non sono state prese in considerazione.

Il secondo motivo è anch’esso generico e, comunque, manifestamente infondato poichè l’imputato rinunciando ai motivi di appello diversi da quello relativo all’entità della pena (sensibilmente ridotta, anche in considerazione del comportamento processuale) non poteva dolersi della carenza di motivazione in ordine al riconoscimento delle attenuanti generiche e di quella prevista dall’art. 62 c.p., n. 4.

E’ inammissibile anche il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato C..

Con il primo motivo si tende, in maniera peraltro del tutto generica, a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito. Nel caso in esame legittimamente il giudice di appello ha richiamato per relationem la ricostruzione e la qualificazione dei fatti contenuti nella motivazione della sentenza di primo grado, ponendo in evidenza quanto alla posizione del C. – identificato nel "latitante" con il quale l’ A. e il D.C. "furono condotti ad incontrarsi in aperta campagna e che trattò la conclusione dell’estorsione in una posizione di evidente superiorità rispetto al M., pure presente all’incontro"- che l’ammissione di responsabilità del M., intervenuta nel corso del giudizio di appello, costituiva un significativo elemento di riscontro alla lineare deposizione del teste D.C. il quale, presa visione dell’album fotografico utilizzato per le individuazioni, aveva reiterato in termini di certezza l’individuazione del ricorrente come uno dei due "latitanti" protagonisti dell’incontro in aperta campagna. La Corte territoriale, ad ulteriore conferma dell’attendibilità del teste, ha posto altresì in rilievo la circostanza, già sottolineata dal giudice di primo grado, che il D. C. aveva fornito una precisa descrizione del "latitante", riferendo il particolare (non risultante dalla fotografia) che l’uomo indossava occhiali (il C. in dibattimento aveva gli occhiali) e dimostrando così di ricordare, indipendentemente dalla fotografia, la percezione immediata che aveva avuto nell’incontrare la persona individuata. Le conclusioni circa la responsabilità del ricorrente risultano quindi adeguatamente giustificate dal giudice di merito attraverso una puntuale valutazione delle prove, che ha consentito una ricostruzione del fatto esente da incongruenze logiche e da contraddizioni. Tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede non essendo il controllo di legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito, ma solo a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel complesso esauriente e plausibile.

Anche il secondo motivo è generico e, comunque, manifestamente infondato in quanto nella sentenza impugnata la Corte territoriale ha fatto riferimento, relativamente alle doglianze difensive sull’entità della pena, alla condivisibile motivazione del giudice di primo grado il quale, richiamando la negativa personalità dell’imputato, aveva fatto evidente riferimento ai precedenti penali dell’imputato, prendendo quindi in considerazione i criteri previsti dall’art. 133 c.p. e ponendone in adeguato rilievo quello ritenuto più significativo.

Il primo motivo del ricorso presentato nell’interesse del P. è, invece, fondato.

La Corte rileva, infatti, che la motivazione in ordine al ritenuto concorso del P. nel reato di estorsione consumata è carente nella parte in cui non viene data un’adeguata spiegazione delle ragioni per le quali è stata ritenuta l’esistenza di un rapporto di continuità tra la condotta del ricorrente e quella dei coimputati i quali – secondo la ricostruzione della vicenda della Corte territoriale – erano intervenuti dopo che era trascorso "un po’ di tempo" da quando il P. era uscito "di scena" (f.7 sentenza impugnata) e il D.C. aveva avvisato l’ A. che il P. "non c’era più". In particolare risulta priva di adeguata giustificazione la ritenuta "partecipazione concorsuale del prevenuto a tutta l’attività estorsiva" in quanto, se appare logicamente coerente e giuridicamente corretto escludere l’ipotesi della desistenza volontaria non avendo il P. "posto in essere alcuna condotta per vanificare gli effetti del suo iniziale intervento", non si evince dalla motivazione della sentenza impugnata in base a quali concreti elementi – pur essendo trascorso, un apprezzabile periodo di tempo dalle esose richieste iniziali del P. e risultando sensibilmente inferiore l’ammontare della somma effettivamente versata, in mancanza di una situazione tale da far ritenere l’esistenza tra il P. (il quale, secondo il difensore, si era addirittura trasferito all’estero) e i coimputati di un iniziale e perdurante accordo criminoso in cui la condotta del ricorrente si inserisse quale contributo alla realizzazione collettiva dell’azione estorsiva portata a compimento – sia stato possibile ravvisare un "normale mercanteggiamento, privo di soluzione di continuità, tipico di tali fattispecie criminose" e non il susseguirsi di condotte criminose analoghe ma distinte, una rimasta alla fase del tentativo e l’altra consumata.

Si impone pertanto, per consentire di colmare le lacune della motivazione sul punto della "continuità" tra la condotta del P. e quella dei coimputati (il cui accertamento è preliminare rispetto all’esame delle ulteriori doglianze del ricorrente), l’annullamento della sentenza impugnata nei confronti del P., con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio.

Alla inammissibilità dei ricorsi di C. e M. consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di P.F. con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli, per nuovo giudizio. Dichiara inammissibili i ricorsi di C. e M. che condanna al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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