Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 12-05-2011) 20-06-2011, n. 24601 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

glimento.
Svolgimento del processo

D.L.V. risulta, dal provvedimento impugnato, sottoposto a indagine con riferimento ai delitti di cui all’art. 416 bis c.p. (capo A), L. n. 203 del 1991, art. 12 quinquies (capo C), art. 416 c.p. (capo D).

A carico del predetto fu emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere.

Il TdR di Napoli, con il provvedimento di cui in epigrafe, ha annullato l’ordinanza restrittiva, limitatamente al delitto del capo A) e la ha confermata con riferimento alle residue contestazioni.

Secondo la ipotesi di accusa, reimpiegando fondi provenienti dalle casse del clan camorristico Di Lauro, era stata costituita una associazione per delinquere, finalizzata alla commissione di truffe in danno di compagnie telefoniche, dalle quali veniva acquistato "traffico telefonico". Le società acquirenti erano società sull’orlo del fallimento; esse, tuttavia, prima di "scomparire" dal mercato (portando con sè i loro debiti insoluti), rivendevano quanto acquistato dalla Telecom e dalla Vodafon alla Project Communication spa e alla Project Telecomunicazioni srl, che immettevano sul mercato il credito telefonico acquistato dalle società "moribonde".

Quanto al delitto sub C), si addebita al D.L. di avere fittiziamente intestato a tale F.D. un’auto di lusso.

L’auto fu poi rivenduta e, sempre in ipotesi di accusa, il ricavato fu utilizzato per ripianare le perdite della Project Comunication. Per tutti i reati di cui sopra è contestata l’aggravante ex L. n. 203 del 1991, art. 7.

Ricorrono per cassazione i difensori del D.L..

L’avv. Abet deduce: 1) violazione dell’art. 273 c.p.p., art. 416 c.p., L. n. 203 del 1991, art. 7, travisamento del fatto, carenza e contraddittorietà della motivazione, 2) violazione della L. n. 203 del 1991, artt. 12 quinquies e 7, e contraddittorietà e carenza di motivazione, 3) violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3.

Con riferimento alla prima cesura, il ricorrente osserva che, sulla base di brani di conversazioni intercettate, brani arbitrariamente estrapolati e collegati e malamente interpretati, il TdR ha formato il suo convincimento, trascurando il fatto che, in realtà, D.L. P. è rimasto in libertà per un breve lasso di tempo. Non si vede dunque come egli abbia potuto organizzare una struttura criminosa, dedita alla seriale consumazione di truffe. Singolarmente, poi, il TdR ha annullato il provvedimento di rigore nei confronti di C.D., certamente più gravato del D.L. e lo ha confermato per costui, dovendosi anche considerare che C. è stato operativo per anni e D.L., a tutto voler concedere, qualche mese. Non si comprende, quindi, per qual motivo le esigenze cautelari, ritenute insussistenti per C., siano state ritenute sussistenti per il ricorrente.

L’attività delle predette società commerciali è stata del tutto lecita e, se truffe sono state consumate, ciò è stato reso possibile grazie all’operato di infedeli dipendenti della Telecom e della Vodafon, a carico dei quali, però, nessun provvedimento è stato assunto, come nessun provvedimento è stato assunto nei confronti di coloro che hanno acquistato il traffico telefonico dai due predetti gestori.

D.L. non può certo rispondere del reato ex art. 648 ter c.p., nè può rispondere del reato ex art. 416 c.p., atteso che, se pure egli avesse economicamente contribuito, alla attività delle società, ciò non integra la condotta di reato. Se poi non sono contestati reati-fine di truffa, è da chiedersi come possa essere contestato il reato di associazione per delinquere, allo scopo di commettere truffe. Inoltre, se truffe sono state consumate, ciò è avvenuto quando D.L. era già detenuto. Di certo la truffa non è addebitabile alla Project Communication, nè alla Project Telecomunicazioni, che hanno solo posto in essere lecite operazioni commerciali. Altri sono stati i diretti autori della truffa, che, tuttavia, sono stati lasciati indisturbati. Senza nessun fondamento, si assume che il ricorrente sia stato il finanziatore della intera associazione, quasi che il clan Di Lauro fosse capeggiato da V.. Quanto alla partecipazione al reato associativo, va chiarito che il D.L. parla "per sentito dire" e ciò si evince chiaramente dal tenore delle conversazioni; meno che mai egli può essere ritenuto un "capo" dell’organizzazione. A ben vedere, neanche di concorso ex art. 110 c.p. si può parlare.

Da quali condotte sia poi desumibile il metodo mafioso non è dato intendere; oltretutto il versamento di un contributo economico nelle casse della associazione è incompatibile con la partecipazione all’associazione stessa. Nessuna evidenza investigativa, poi, viene richiamata a proposito dei pretesi flussi di denaro che dalle casse del clan Di Lauro sarebbero stati diretti alle due predette società.

Il ricorrente poi evidenzia: a) che il medesimo soggetto non può essere chiamato a rispondere, nel contempo, del delitto ex art. 648 ter c.p. e di quello ex art. 416 bis c.p., b) che non vi è in atti alcun elemento in base al quale ritenere che il clan abbia tratto vantaggio dalla pretesa attività truffaldino, c) che le conversazioni telefoniche intercettate (e segnatamente quelle nn. 20, 48, 57, 2428 e 3973) sono state male interpretate e il loro contenuto è stato travisato, atteso che il normale "linguaggio aziendale" non è stato inteso nel suo reale significato (da esso volendo desumersi la cointeressenza economica del D.L. nelle attività delle sue società sopra indicate) e atteso che, inoltre, si è trascurato che, quando si è parlato di perdite, si è anche precisato che esse riguardavano il C. (non certo i D.L.), d) che le conversazioni telefoniche non sono state esposte in ordine cronologico e ciò ha determinato errori di interpretazione (es. il passivo di Euro 400.000 era da imputare alla precedente gestione), e) che le maggiori spese le ha sopportate tale T.R., di talchè, quando alcuni soggetti milanesi fanno riferimento a "quelli di (OMISSIS)", non si riferiscono al clan Di Lauro, ma al predetto T. e al C.. Rileva ancora il ricorrente che il TdR non ha tratto le dovute conclusioni da una premessa che esso stesso ha posto, quando ha affermato che il delitto di truffa si è consumato nel momento in cui le società, poi fallite, si sono viste assegnare il "numero verde". Ebbene, i titolari delle predette società, come premesso, non sono stati indagati, mentre il momento consumativo della truffa si pone dopo l’arresto del D.L..

Infine, per quel che riguarda l’aggravante ex L. n. 203 del 1991, art. 7, posto che il danaro proviene dal T. e dal C., non si comprende come possa risultare coinvolto il clan Di Lauro.

Con riferimento alla seconda censura, il ricorrente osserva che l’ordinanza del TdR omette di riferire che l’auto Lamborghini, prima di essere intestata al F., era stata intestata alla Eurorenting srl, che la aveva data in locazione a D.L. V..

Fatta questa premessa, si giustifica ampiamente la frase pronunziata da una dipendente della Touring Auto 2000, nel momento in cui il F. stava per effettuare il passaggio di proprietà proprio a favore della predetta società (l’auto, quella del D.L., giusto?"). Nessun indizio poi vi è in base al quale si possa affermare che il ricavato di questa vendita sia entrato nelle casse della Project Communication. In realtà al F. era stata rilasciata procura a vendere; la vettura poi risulta essere stata intestata al predetto quando il D.L. era, da tempo, detenuto.

A proposito poi della aggravante ex L. n. 203 del 1991, art. 7, il ricorrente rileva che essa è incompatibile con il delitto ex art. 12 quinquies medesima legge.

Quanto alla terza censura, il ricorrente rileva che il TdR, nel riportarsi, puramente e semplicemente, alla motivazione del provvedimento impugnato, non ha preso in considerazione quanto rappresentato con memoria tempestivamente depositata.

Secondo l’insegnamento delle SS.UU., ciò si risolve in una vera e propria omissione della motivazione, che, a maggior ragione, impone l’annullamento del provvedimento impugnato.

L’avv. Giaquinto deduce: 1) violazione dell’art. 178 c.p.p., lett. C) per omessa valutazione di memoria difensiva depositata in udienza.

Con tale memoria, si deduceva che l’indagato aveva intenzione di dimostrare la sua estraneità ai fatti contestati e, per questo, aveva richiesto al PM di essere sottoposto a interrogatorio, così come aveva chiesto che fosse accertato presso la società Eurorenting la circostanza che egli aveva stipulato contratto di leasing relativo alla autovettura Lamborghini. A tali richieste non è stato dato seguito e, pertanto, la Difesa si è rivolta direttamente alla predetta srl, che, al momento, non ha ancora fornito risposta.

Deduce ancora 2) violazione di legge e carenze dell’apparato motivazionale. Il GIP presso il Tribunale di Terni, città nella quale era stato operato il fermo del D.L., non convalidò la misura precautelare e trasmise gli atti al giudice competente per la eventuale emissione dell’occ, che, infatti, fu emessa dal GIP di Napoli.

Al proposito, il TdR non ha motivato circa la incompatibilità tra il delitto ex art. 416 bis c.p. e il delitto ex art. 416 c.p., incompatibilità che, viceversa sussiste, essendo comune l’elemento psicologico (il dolo specifico, avente ad oggetto la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile a operare per l’attuazione del comune programma).

Anche in ordine all’aggravante ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, il TdR ha motivato in maniera meramente apparente. Invero, essa non ricorre certamente nè sotto l’aspetto dell’adozione del metodo mafioso (non essendo emersa alcuna condotta che possa qualificarsi in tal modo connotata), nè sotto il profilo del vantaggio arrecalo a un’organizzazione mafioso. Peraltro, la predetta aggravante presuppone il dolo specifico, che non è stato evidenziato.

La motivazione, poi, è stata omessa anche per quel che riguarda le esigenze cautelari. I fatti addebitati a D.L. risalgono al (OMISSIS) e il tempo trascorso è tale da rendere insussistenti le esigenze cautelari. Il ricorrente è detenuto ininterrottamente dal giorno 1.4.2004, salvo il periodo dal 6.6.2006 al 27.3.2007.

Attualmente è detenuto per esecuzione pena, in quanto condannato per il delitto ex art. 416 bis c.p., con riferimento al quale egli non è indagato nel presente procedimento (di talchè l’annullamento che in merito ha disposto il TdR, con l’ordinanza oggi impugnata, è del tutto inconferente).

Ciò rende evidente la insussistenza del pericolo di fuga, tanto che, anche per tale ragione, il GIP Terni non aveva convalidato il fermo.
Motivi della decisione

I ricorsi sono da accogliere per quanto attiene la imputazione del capo C) e le esigenze cautelari.

Sono da rigettare nel resto.

Per quanto attiene al delitto di truffa (evidentemente non contestato con la misura cautelare, ma logicamente "collegato" a quello ex art. 416 c.p.), è da osservare le considerazioni svolte appaiono, in parte, generiche, in parte, manifestamente infondate, in parte, articolate fatto.

Il profilo di genericità consiste nel fatto che, non avendo – a quanto pare – rilevato un passaggio del provvedimento impugnato, ci si duole del fatto che i titolari della Project Communication e della Project Telecomunicazioni e i loro complici non avendo posto in essere alcuna attività truffaldino, siano stati, ciò nonostante, ritenuti responsabili del delitto ex art. 640 c.p. e – quindi – del delitto associativo, finalizzato, appunto, alla consumazione di truffe in danno della Telecom e della Vodafon. Il passaggio pretermesso è quello in cui il TdR chiarisce che le due predette società risultano acquirenti del "traffico telefonico", non però direttamente dai due gestori sopra indicati (Telecom e Vodafon). Il "traffico" fu ceduto loro da altre società, che lo avevano precedentemente acquistato e che – programmaticamente – non lo pagarono. E tali società "intermediarie" vengono definite in stato di decozione, società destinate al fallimento (cfr. conversazione telefonica n. 57, tra il ricorrente e la sua fidanzata:

"noi lo facciamo con aziende che devono morire e si portano anche i debiti"). Se dunque è vero che i titolari delle due società Project non hanno compiuto la azione tipica (artifici, raggiri, induzione in errore, aggressione del patrimonio della vittima), l’ipotesi che il TdR – non illogicamente – sposa è quella in base alla quale le azioni dei due gruppi di società fossero coordinate al raggiungimento del medesimo scopo. Dunque, le società "fallende" avrebbero operato come longa manus delle due società Project.

Conseguentemente, i titolari delle Project e il reale dominus dell’operazione (che il TdR individua nel D.L.) rispondono – come chiunque dovrebbe essere in grado di comprendere – ai sensi dell’art. 110 c.p., in concorso con i titolari e i gestori delle società in stato di decozione. Che poi costoro non siano stati (ancora?) perseguiti penalmente non è doglianza che possa essere rappresentata a questo Giudice di legittimità, non potendo certamente l’indagato, attraverso una critica delle scelte strategiche dell’Ufficio di Procura, richiedere il ripristino di una pretesa par condicio tra soggetti sottoposti a indagini e soggetti che dovrebbero esserlo.

A ben vedere, poi, ulteriore profilo di genericità è costituito dalla negazione dell’utilizzo del metodo mafioso, atteso che l’ordinanza contesta, in realtà, come più avanti si dirà, l’agevolazione della struttura mafioso e non l’adozione della sua metodica.

La manifesta infondatezza di una parte del ricorso dell’avv. Abet viene in evidenza, poi, sotto altro aspetto.

Innanzitutto, è da rilevare che il ricorrente spende ben 36 righe del suo scritto (tra la decima e l’undicesimo pagina) per contestare la compatibilità tra le imputazioni di cui agli artt. 648 ter e 416 bis c.p., in presenza della precisazione del TdR (cfr. sestultima pagina del provvedimento impugnato) che ha inteso chiarire che al D. L. non è contestato il primo delitto e, oltretutto, in presenza della decisione del Collegio cautelare, che ha annullato la ordinanza custodiale con riferimento al delitto di associazione camorristica (delitto che, oltretutto, come affermato dall’altro difensore non risulta nemmeno contestato al D.L. nel presente procedimento, di tal che il predetto annullamento disposto dal Collegio cautelare va considerato tamquam non esset).

In secondo luogo, va – ad abundantiam – chiarito che può rispondere di truffa anche chi materialmente non ha posto in essere artifici e/o raggiri. Ancora una volta, il meccanismo incriminatorio ex art. 110 c.p. consente di accomunare a chi commette l’azione tipica la figura dell’istigatore, del determinatore ecc. di talchè, anche chi si trovi detenuto al momento in cui la truffa (o il reato in genere) è consumato, può essere chiamato a risponderne, se – ad es. – lo ha ideato, programmato, agevolato ecc. E, a tal proposito, è appena il caso di rilevare che non vi è alcuna incompatibilità tra la figura del finanziatore e quella del partecipe a una societas sceleris.

E’ di tutta evidenza che tra i costituenti, i promotori e gli organizzatori della struttura malavitosa, un posto certamente non secondario è da riconoscere a chi mette a disposizione capitali e mezzi. Il finanziamento, invero, è una attività che certamente può determinare la costituzione, può facilitare la promozione, può caratterizzare l’organizzazione.

Infondati poi sono i ricorsi nella parte in cui contestano che il clan non risulta beneficiario della attività truffaldino.

Invero, se si parte dal presupposto che i mezzi finanziari impiegati fossero dei D.L. (e dunque anche di V., che, secondo il TdR, risulta direttamente coinvolto, come desunto dalle conversazioni intercettate), il vantaggio e in re, atteso che, evidentemente, il capitale doveva poi essere remunerato, specie se esso faceva capo a soggetti ("napoletani"), cui altri protagonisti della vicenda alludono con timore.

Ulteriore profilo di infondatezza è quello con il quale si sostiene che non possa essere contestato il reato associativo, se non sono contestati anche i reati-fine.

Come è noto, trattasi di fattispecie criminose aventi diverso oggetto giuridico.

Per altro, nel caso in esame, è chiarito, a prescindere dalla formale contestazione, che la associazione per delinquere – secondo la ipotesi di accusa – fu finalizzata alla commissione di truffe e che di tali truffe è traccia, secondo il TdR, nelle conversazioni intercettate.

Nel resto, la prima censura è articolata in fatto, quando pretende che questa Corte dia una lettura alternativa degli esiti delle intercettazioni.

Come è noto, anche dopo la entrata in vigore della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ad opera della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori rimane estraneo al giudizio di legittimità, atteso che non vi è alcuna prova che abbia un significato isolato, disancorato dal contesto nel quale è inserita;

ne consegue che, per potere stabilire se una prova non considerata (o non correttamente considerata) dal giudice del merito abbia effettivamente un significato pregnante, occorre una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile, non effettuabile da parte del giudice di legittimità, sulla base della lettura necessariamente parziale suggeritagli dal ricorso per cassazione (ASN 200618119-RV 233680).

E ciò è tanto più vero con riferimento al contenuto di conversazioni intercettate, che, evidentemente, non possono essere conosciute in maniera atomistica (e secondo i criteri di scelta prospettati dal ricorrente).

Alla Corte di cassazione, invero, non è certo consentita una diversa "lettura" dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perchè è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali, dovendo detto controllo essere esercitato sulla logicità della interpretazione di tali dati (ASN 200616956-RV 233822).

Il Collegio cautelare ha fornito una "spiegazione" compiuta e congrua della interpretazione data al contenuto delle conversazioni intercettate, ipotizzando, certo non in maniera illogica, tanto il diretto coinvolgimento dell’indagato ("noi lo facciamo con aziende che devono morire e si portano anche i debiti"), tanto l’interesse del clan alla buona conclusione delle operazioni truffatine (altrimenti non si capirebbe la partecipazione emotiva al pericolo che C. possa subire un danno economico), quanto il fatto che proprio al clan gli operanti – diversi dal D.L., naturalmente – dovessero, in ultima analisi, rispondere (atteso che alcuni di essi appaiono terrorizzati dalle possibili reazioni violente dei "napoletani").

L’aggravante ex L. n. 203 del 1991, art. 7, pertanto, è stata ritenuta, come emerge chiaramente dalla lettura del provvedimento contestato, in quanto (anche) nell’interesse del clan Di Lauro le truffe venivano consumate. Il che non impedisce, come giustamente osserva il TdR, un concorrente interesse delle persone esterne alla consorteria camorristica, persone che concretamente operavano.

Le censure relative al capo C), si articolano, a ben vedere, in due motivi.

Il primo sostiene non essere emerso elemento alcuno in base al quale si possa sostenete che il denaro ricavato dalla vendita della Lamborghini sia stato utilizzato per finanziare la attività illecita.

Il secondo sostiene che non vi è prova che la detta autovettura sia stata solo fittiziamente intestata al F..

Quanto al reimpiego della somma ricavata dalla vendita della Lamborghini nelle attività delle due Project, il TdR desume ciò, come si legge nella terzultima pagina del provvedimento impugnato, certamente dalla telefonata n. 909 e, poi, da altre conversazioni, genericamente indicate, ma, a proposito delle quali, il ricorrente nulla osserva.

Quanto alla pretesa fitti zia intestazione, è da dire che, se pure il TdR chiarisce da quali conversazioni telefoniche ha dedotto l’esatto contrario di quanto sostenuto dal ricorrente (tra le quali, le più significative sono ritenute quella nella quale V. afferma che Dario si deve intestare l’auto, e quella nella quale si può ascoltare il commento di una impiegata della società che doveva acquistare la vettura, che la indica come "l’auto di D.L."). Il Collegio cautelare non sembra, tuttavia, tener conto del fatto che l’auto in questione era effettivamente, in precedenza, stata nella disponibilità dell’indagato, che la aveva ottenuta in leasing, di talchè la frase della segretaria potrebbe anche avere valenza neutra e stare semplicemente a indicare una "scorciatoia" per la individuazione in concreto del veicolo.

Certamente, il fatto che, poi, si ipotizzi che il ricavato della vendita dell’auto, pur intestata al F., sia confluito nelle casse della Project, è circostanza non priva di significato; ma, ancora una volta, non del tutto univoca, in quanto, se anche il F. era coinvolto nella attività truffaldino, ben potrebbe essere che il "conferimento" fosse da imputare a lui quale socio, piuttosto che quale "uomo di paglia" del D.L..

In merito, dunque, come premesso, l’ordinanza deve essere annullata.

La decisione rende inattuale la censura, con la quale si assume che l’aggravante ex L. n. 203 del 1991, art. 7 non possa trovare ingresso con riferimento al delitto di cui all’art. 12 quinquies della medesima legge.

Incidenter tantum va detto che così non è.

Invero, tale ultimo articolo, come è noto, punisce chi -per eludere disposizione di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando, ovvero, per agevolare la commissione dei delitti ex artt. 648, 648 bis e 648 ter c.p. – attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di beni o denaro.

Dalla lettera della legge, si ricava che detto delitto è stato introdotto per contrastare manovre di "occultamento" di beni e capitali, rendendoli non più riferibili al reale proprietario. E non si vede perchè tali condotte non potrebbero essere funzionali agli interessi di una societas sceleris di stampo mafioso-camorristico.

La terza censura del ricorso dell’avv. Abet, in base al principio di autosufficienza del ricorso, è inammissibile per la sua genericità.

Il ricorrente si duole del fatto che il TdR non ha dato risposta a quanto evidenziato con una memoria a suo tempo depositata presso il predetto organo giudicante.

Il contenuto della predetta memoria (della quale non si indica nemmeno la data di deposito), però, non viene illustrato, nè sintetizzato, nè la memoria risulta allegata al ricorso.

Così stando le cose, non si vede come questa Corte possa esprimere il suo giudizio sulla doglianza come sopra formulata.

Diversamente deve dirsi per la memoria della quale si fa cenno nel ricorso dell’avv. Giaquinto. Detta memoria è compiutamente indicata ed è presente in atti.

Non di meno, la censura con la quale ci si duole della mancata "risposta" del TdR alla memoria (e si invoca la nullità ex art. 178 c.p.) è destituita di fondamento.

Dall’esame della memoria predetta, si evince che la stessa è articolata in due parti.

In una, si assume la incompatibilità tra art. 416 bis c.p. e art. 416 c.p., la insussistenza delle esigenze cautelari, la non sussistenza del delitti di cui al capo C); nell’altra si rappresenta la intenzione del D.L. di chiarire la sua posizione, anche mediante sottoposizione a interrogatorio.

Ebbene, in ordine alla "prima parte" (poi riprodotta nel ricorso oggi in esame), è da dire che il TdR ha "risposto", esplicitamente o implicitamente; quanto alla seconda, non si vede che cosa avrebbe dovuto scrivere in merito il Collegio cautelare, atteso che essa contiene una dichiarazione di intenti, priva di rilevanza giuridica.

Tanto premesso, quanto alla pretesa incompatibilità tra gli artt. 416 bis e 416 c.p., la censura è infondata. La identità dell’elemento psicologico tra le due figure associative è, evidentemente, di natura categoriale, non relazionale. Vale a dire che, in astratto, lo stesso soggetto non può rispondere di entrambi i reati, perchè essi appartengono alla medesima categoria giuridica, ma, in concreto, ciò è possibile, in quanto essi possono sussistere in relazione a sodali diversi. In altre parole, è evidente che Tizio può stringere un patto associativo di stampo mafioso con Caio e Sempronio e un patto associativo "semplice" con M. e Fi..

Ed è proprio ciò che si ipotizza nel presente procedimento: D. L.V., organico all’omonimo clan, si è associato con C. e altri per consumare truffe in danno della Telecom e della Vodafon. Infine, quanto alle esigenze cautelari, va premesso che, in merito a tale capo del provvedimento, la critica non può essere portata con criteri "comparativistici", non avendo alcun rilievo, per quel che riguarda la valutazione della posizione del D.L., la sorte riservata al coindagato C..

Hanno però rilievo le considerazioni in base alle quali ai due coindagati sono state riservate sorti diverse.

Invero, per C., si è ritenuta superata la presunzione di pericolosità in base ai seguenti argomenti: a) i fatti sono del 2004, b) da quella data il predetto non risulta aver commesso altri reati, c) lo stesso si è trasferito in altro comune, d) C. è incensurato.

Ebbene le circostanze sub a) e b) sono comuni al D.L..

Quanto all’allontanamento dal focus delicti, esso, evidentemente, è avvenuto, sia pure coattivamente, anche per il ricorrente.

Resta la circostanza sub d), che certamente segna la differenza tra una persona incensurata e un soggetto condannato per associazione camorristica.

Al proposito, tuttavia, il TdR avrebbe dovuto svolgere considerazioni sul ruolo attribuito al D.L. nell’ambito della predetta associazione, alla condotta tenuta in carcere, all’eventuale rescissione dei legami con l’ambiente criminogeno di provenienza.

Al proposito, viceversa, il Collegio cautelare si è limitato a scrivere che "non è emerso alcun dato idoneo a consentire il superamento della presunzione posta dall’art. 275 c.p., comma 2", senza nulla specificare e quasi tracciando i contorni di un allarmante "tipo d’autore", incompatibile con le direttrici del vigente ordinamento.

Conclusivamente, il provvedimento impugnato va annullato con rinvio al Tribunale di Napoli in relazione al delitto ex L. n. 203 del 1991, art. 12 quinquies e in ordine alle esigenze cautelari.

I ricorsi vanno, nel resto rigettati.

Deve farsi luogo alle comunicazioni di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p..
P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente al delitto di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 12 quinquies (capo C) e alle esigenze cautelari, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Napoli; rigetta nel resto il ricorso; manda alla cancelleria per le comunicazioni di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *