CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE FERIALE PENALE – 16 novembre 2010, n. 40525 – Pres. Squassoni – est. De Crescienzo In materia di appropriazione indebita

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
C.C., tramite il difensore ricorre per Cassazione avverso la sentenza 24.9.2009 con la quale la Corte d’Appello di Reggio Calabria, confermando la decisione 29.4.2008 del Tribunale di Palmi, lo ha dichiarato responsabile della violazione degli artt. 646, 81 cpv., art. 61 c.p., nn. 7 ed art. 11 c.p., e lo ha condannato alla pena di anni due, mesi sei di reclusione, 1.000,00 Euro di multa oltre al pagamento delle spese processuali, di quelle sostenute dalla parte civile costituita e della provvisionale di Euro 20.000,00 in favore di quest’ultima.
La difesa richiede l’annullamento della sentenza impugnata deducendo:
(1) violazione di legge, violazione di norme previste a pena di nullità e vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e) in relazione all’art. 525 c.p.p., comma 2; (2) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 51 e art. 55 c.p.; (3) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 133 e 62 bis c.p.).
Con il primo motivo la difesa lamenta la violazione dell’art. 525 c.p.p., perchè la decisione di primo grado è stata resa da un giudice diverso da quello che aveva raccolto le prove (in particolare la deposizione del testimone R.) poste a base della sentenza di condanna.
La questione è già stata ritualmente sollevata dalla difesa con i motivi di appello e la Corte territoriale sul punto ha rilevato che:
a) all’udienza del 28.9.2005 il testimone R. aveva reso la propria deposizione avanti la Dott.ssa P.; b) all’udienza del 14.3.2006 era subentrata, al precedente magistrato, la Dott.ssa C. la quale aveva parzialmente rinnovato l’istruzione dibattimentale, ammettendo i mezzi di prova richiesti dalle parti, procedendo all’esame del querelante e del testimone R., che, ad esplicita domanda, aveva confermato le dichiarazioni già rese alla precedente udienza del 28.9.2005.
La Corte territoriale, rispondendo quindi all’eccezione formulata dall’appellante ha osservato ancora, che: 1) la difesa aveva prestato il proprio consenso all’utilizzazione del contenuto della deposizione del R. (come veniva desunto dal verbale dell’udienza del 14.3.2006); 2) la difesa, benchè espressamente invitata dal giudice a rivolgere delle domande al testimone, non aveva esercitato tale facoltà.
La Corte territoriale ha pertanto ritenuto pienamente utilizzabile la deposizione resa dal R. ai fini della decisione, così respingendo la doglianza proposta.
Ricorre in questa sede la difesa dell’imputato, sostenendo di non avere mai prestato (nel corso delle udienze 14.3.2006 e 18.4.2007) alcun consenso (espresso o implicito) all’utilizzazione del contenuto della deposizione resa dal teste R. all’udienza del 28.9.2005 con la conseguenza che la deposizione testimoniale in questione doveva essere ritenuta inutilizzabile, perchè il magistrato giudicante avrebbe dovuto basarsi esclusivamente sulle sole acquisizioni istruttorie effettuate sotto la sua esclusiva direzione e non limitarsi ad acquisire una deposizione testimoniale con la quale veniva evocato quanto dichiarato avanti ad un diverso magistrato.
A sostegno della propria tesi la difesa deduce quindi i seguenti argomenti: a) attraverso il semplice richiamo recettizio alla precedente deposizione da parte del testimone si darebbe luogo ad un’ inammissibile lettura di materiale probatorio non regolarmente assunto; b) il suddetto modo di procedere consentirebbe l’illegittima utilizzazione del contenuto di una deposizione resa avanti a diverso magistrato. La doglianza è infondata sotto diversi profili. In primo luogo essa è inammissibile se riguardata sub art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), ove è disciplinata l’ipotesi di violazione di legge penale sostanziale: nel caso in esame viene, per contro, in discussione l’applicazione di norme processuali.
La censura è altresì inammissibile se riguardata sotto il profilo di vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), perchè la difesa ha completamente omesso l’indicazione di qualsivoglia vizio della decisione impugnata che possa essere riconsiderata riconducibile alla fattispecie processuale invocata.
La censura può essere presa in considerazione, quindi nell’esclusivo ambito di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), applicando i consolidati principi in materia, ripetutamente affermati in sede di legittimità.
Così circoscritti i termini dell’impugnazione , si deve osservare che la giurisprudenza di legittimità ha affermato i seguenti principi: a) "Le prove dichiarative assunte prima del mutamento della composizione del collegio, in presenza di opposizione della difesa alla loro lettura, non sono utilizzabili, ex art. 526 c.p.p., comma 1, qualora non vengano reiterate o ribadite in dibattimento mediante nuovo rituale esame incrociato delle fonti". Cass. pen., sez. 1^, 7.7.2004 in Ced Cass., rv. 229791; b) "Nel caso di rinnovazione del dibattimento per mutamento della composizione del giudice collegiale, le dichiarazioni acquisite nella precedente fase dibattimentale possono essere utilizzate per la decisione, mediante la semplice lettura, a condizione che vi sia il consenso delle parti, consenso che non deve essere espresso necessariamente in modo formale, ma che può risultare anche da comportamenti concreti (nella specie, le parti, dopo aver richiesto la rinnovazione del dibattimento, non avevano eccepito nulla quando il collegio aveva disposto la riassunzione delle prove per mezzo della lettura delle dichiarazioni rese in precedenza)". Cass. pen., sez. 1^, 7.12.2001 Graviano.
Dall’esame degli atti emerge che: a) il testimone R. è stato chiamato a deporre avanti ad un giudice diverso da quello cui aveva reso una prima volta le proprie dichiarazioni; b) la deposizione del testimone nel corso della sua seconda audizione, si è concretata in un richiamo alle dichiarazioni precedentemente rese al diverso giudice; c) dalla lettura del verbale non risulta che nel corso della audizione del testimone R., sia stata palesata opposizione sulle modalità di acquisizione delle dichiarazioni testimoniali; d) il giudice ha richiesto alle parti se avessero l’intenzione di procedere ad un ulteriore esame del testimone. Con tale ultimo adempimento del giudice, ha dato la piena facoltà delle parti all’esercizio del diritto alla prova, rimettendo alle stesse il potere di ulteriormente esaminare il testimone esplorando aspetti probatori nuovi o approfondendo quelli già acquisiti; nel caso in esame nessuna delle parti si è avvalsa della facoltà loro accordata dal giudice.
Dallo svolgimento dell’attività del giudice nell’acquisizione della prova testimoniale del R. attraverso il richiamo a quanto dichiarato in dibattimento avanti a diverso magistrato non si evince pertanto alcuna violazione di legge. Infatti: 1) il testimone è stato riconvocato avanti al nuovo magistrato, comparendo personalmente; 2) il testimone è stato sottoposto ad esame sui fatti; 3) non emerge alcuna opposizione esplicita delle parti alla rievocazione fatta dal testimone per relationem del contenuto della deposizione precedentemente resa v. in tal senso Cass. Sez. 5^ 16.5.2008 n. 35975;
4) le parti, pur sollecitate dal giudicante, non hanno formulato nuove domande o contestazioni al testimone presente; 5) il modus procedendi non costituisce una violazione del principio della oralità, posto che i verbali contenenti le dichiarazioni rese in precedenza fanno regolarmente parte del fascicolo del dibattimento v. in tal senso Cass. Sez. 5^ 26.3.2009 n. 21710 in Ced Cass Rv 243894.
Pertanto la doglianza va rigettata.
Con il secondo motivo la difesa lamenta che la Corte territoriale non ha riconosciuto nella condotta dell’imputato la scriminante dell’art. 51 c.p.: la difesa sostiene che l’imputato trattenendo la somma di Euro 500.000,00 (somma che, a seguito della risoluzione di un rapporto contrattuale di agenzia, doveva essere consegnata dall’imputato alla Compagnia di assicurazione mandante) ha ritenuto di esercitare un proprio legittimo diritto di "ritenzione" della suddetta somma e ciò al fine di estinguere per "compensazione" i crediti vantati nei confronti della P. ASSICURAZIONI spa. La Corte territoriale ha escluso la scriminante richiesta con l’atto di appello, non ravvisando la esistenza di un diritto di "ritenzione" della somma controversa, e, attraverso un’articolata descrizione ed analisi del rapporto giuridico intercorso tra l’imputato e la società P. ASSICURAZIONI spa ha escluso che la condotta dell’imputato potesse ascriversi nell’ambito della disciplina dell’art. 47 c.p. (errore sul fatto), posto che, nel caso di specie, l’imputato avrebbe errato sulla disciplina inerente alle modalità di estinzione delle obbligazioni per "compensazione", così incorrendo in un "errore di diritto", come tale non riconducibile alla disciplina del citato art. 47 c.p..
Sul punto la Corte d’Appello rileva, in particolare, che l’esercizio del preteso diritto di ritenzione da parte dell’imputato (esercitato nell’esecuzione di un rapporto contrattuale) per la tutela della garanzia di un credito derivante dagli asseriti inadempimenti della società P. Assicurazioni spa, appare frutto di mero arbitrio per due ordini di ragioni: a) da un lato i rapporti giuridici pendenti fra la società P. Assicurazioni spa e l’imputato risultano essere stati definiti mediante un "accordo di liberalizzazione" che sostituiva ogni eventuale diversa precedente pattuizione intercorrente fra le parti; b) gli inadempimenti che l’imputato lamenta come riferibili alla P. Assicurazioni spa, risultano essere stati compiuti in epoca antecedente alla sottoscrizione dell’"accordo di liberalizzazione", con la conseguenza che tali fatti giuridici erano da ritenersi compresi nel detto accordo; c) i crediti vantati in compensazione dall’imputato non presentando i caratteri della "certezza", "liquidità" ed "esigibilità"(ex art. 1243 c.c.) tenuto conto delle obbligazioni intercorrenti fra le parti, non potevano essere estinti per "compensazione", essendo "certa" (liquida ed esigibile) la sola pretesa creditoria vantata dalla P. Assicurazioni spa verso l’imputato (perchè determinata negozialmente fra le parti), a fronte di una pretesa risarcitoria di quest’ultimo verso la prima connotata dalla mancanza della "certezza" giuridica, perchè fondata su asserite (e non giudizialmente dimostrate) "scorrettezze" della Società. Pertanto, attesa la mancanza della prova di un danno subito dall’imputato per fatto riferibile alla sua controparte negoziale, la Corte territoriale ha concluso che non risultava provato un inadempimento della società P. ASSICURAZIONI spa, da porre a fondamento o giustificazione della pretesa risarcitoria dell’imputato. La Corte territoriale, inoltre ha aggiunto, con valutazione di merito, non sindacabile in questa sede (perchè immune da vizi – non denunciati – riconducibili all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)), che l’accordo raggiunto fra le parti (cd. "accordo di liberalizzazione") aveva comunque determinato la perenzione di qualsiasi eventuale pretesa dell’imputato verso la società, perchè, l’imputato e la società, definendo le proprie posizioni con V’accordo di liberalizzazione", in sede di risoluzione della vicenda contrattuale che li legava (cd. contratto di agenzia), avevano definitivamente regolato i rapporti giuridici fra loro pendenti; in particolare il Giudice dell’Appello afferma che l’imputato, in veste di agente della Compagnia di Assicurazione ha rinunciato a qualsiasi pretesa a titolo di indennità di risoluzione e/o indennità di fine rapporto nei confronti della P. Assicurazioni spa, ottenendo in cambio, il consenso della P. Assicurazioni Spa al trasferimento senza disdetta dei contratti assicurativi già stipulati per i tredici mesi successivi alla data di cessazione del rapporto.
La difesa censura, con toni talora aspri, la decisione della Corte territoriale, ma le critiche formulate si fondano su considerazioni di fatto attinenti lo stato psicologico dell’imputato al momento della sottoscrizione dell’accordo transattivo e alle aspettative (squisitamente soggettive) in esso riposte.
Tali argomentazioni non sono infatti suscettibili di considerazione nella presente sede, perchè la loro valutazione (in fatto) è estranea al giudizio di legittimità; nè la difesa ha formulato specifiche e puntuali censure in diritto sull’applicazione delle regole codicistiche che disciplinano l"interpretazione" (artt. 1362 – 1371 c.c.) del contratto intercorso fra le parti e preso in considerazione della Corte territoriale ai fini della valutazione della legittimità della condotta dello imputato, con la conseguenza che la valutazione formulata dalla Corte territoriale sugli effetti dell’applicazione dell’"accordo di liberalizzazione" appare insindacabile.
Nell’ambito del motivo in esame la difesa lamenta che la Corte territoriale non abbia preso in considerazione il fatto che la condotta dell’imputato doveva essere riguardata alternativamente nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 55 c.p. o dell’art. 59 c.p..
Anche sotto questo profilo la censura è infondata.
L’art. 55 c.p., prevede la punibilità (a titolo di colpa, se prevista dalla legge) dell’atto che sia stato compiuto ai sensi dell’art. 51 c.p., da chi abbia ecceduto ecceduto colposamente i limiti previsti dalla legge nell’esercizio di un diritto. La fattispecie disciplina quelle situazioni particolari nelle quali, per colpa, determinata da imprudenza, imperizia o negligenza, si superano i limiti oggettivi di scriminanti effettivamente esistenti, nel senso che la condotta dell’agente, fino ad un certo punto si esplica all’interno di una fattispecie scriminante (nel caso in esame nell’ambito dell’esercizio di un diritto), ben individuata, mentre in una fase successiva, la condotta è accompagnata dalla mera putatività di un elemento scriminante della quale in realtà vengono ecceduti i limiti. Nel caso in esame, proprio per quanto detto prima, l’azione dell’imputato si è svolta in modo certo, completamente al di fuori del perimetro dell’art. 51 c.p., con la conseguenza che l’intera condotta, ascritta, è di per sè illegittima non sussistendo, ab origine alcuna causa di non punibilità. Pertanto se una scriminate non esiste ab origine, non è ipotizzabile alcun superamento dei limiti della stessa per eccesso colposo ex art. 55 c.p.. Peraltro neppure può essere presa in considerazione la diversa configurazione della condotta dell’imputato come ipotesi disciplinata dall’art. 59 c.p. (tesi quest’ultima adombrata dalla difesa, anche se non compiutamente sviluppata nelle sue argomentazioni giuridiche).
L’art. 59 c.p., disciplina la particolare fattispecie per la quale la azione illecita si innesta su di una situazione scriminante erroneamente supposta. In tale caso infatti, l’autore del reato ritiene, per errore incolpevole, che ricorra una "scriminante", che in realtà non esiste. Perchè possa invocarsi l’esimente putativa (come fa il ricorrente), di cui all’art. 59 c.p., occorre che: a) sussista un’obiettiva situazione, non creata dall’autore del reato, che possa averlo ragionevolmente indotto a ritenere, erroneamente, l’esistenza delle condizioni fattuali corrispondenti alla configurazione della scriminante Cass. pen., 20.4.1990 Colantonio; b) l’errore scusabile trovi un’ adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di esercitare (nel caso di specie) un proprio diritto Cass. pen., sez. 1^, 24.11.2009 Narcisio; c) l’errore non sia attinente a valutazioni normative quali quelle riguardanti la portata e la interpretazione delle clausole di un contratto che fra le parti ha valore di legge ex art. 1372 c.c.; d) l’imputato abbia fornito la prova del fatto inducente l’errore non essendo bastevole la semplice asserzione dell’imputato, sfornita di qualsiasi sussidio probatorio.
Da quest’ultima considerazione si desume il principio per il quale l’allegazione da parte dell’imputato dell’erronea supposizione della sussistenza di una circostanza esimente non può basarsi su un mero stato d’animo dell’agente, ma deve essere ancorata ad un fatto concreto il quale sia idoneo a giustificare l’erroneo convincimento dell’imputato. Sulla base delle predette regole, esaminando la fattispecie sottoposta all’esame di questo collegio, si rileva quanto segue.
La difesa non ha espresso, secondo il dettato dell’art. 581 c.p.p., una doglianza specifica e puntuale in ordine alla decisione della Corte territoriale, ma si è limitata a formulare una mera petizione di principio per la quale il fatto ascritto al prevenuto doveva essere valutato alla luce dell’art. 55 c.p., sia nel caso in cui fosse da ritenersi eccedente la condotta scaturente dall’esercizio di un diritto, sia nel caso in cui fosse da ritenersi come erroneamente supposta la esistenza della esimente di cui all’art. 51 c.p.. Sul punto la difesa non ha indicato, nè provato l’esistenza della situazione di fatto (disattesa dalla Corte territoriale nella sua decisione) in base alla quale l’imputato avrebbe ritenuto di versare nelle condizioni previste dall’art. 51 c.p., nè tantomeno ha fornito indicazione delle concrete ragioni, in fatto ed oggettivamente apprezzabili, per le quali l’imputato ha ritenuto di non esorbitare dai limiti di cui all’art. 51 c.p., posto che detta "situazione di fatto" non può essere ricondotta ad una asserita erronea interpretazione del contratto con il quale le parti ha inteso definire le reciproche obbligazioni derivanti dalla risoluzione del contratto di agenzia o a generiche doglianze inerenti la condotta della controparte. Di qui discende che, stante la carente prospettazione, da parte della difesa, in modo chiaro, degli elementi specifici in forza dei quali la Corte territoriale avrebbe dovuto riconoscere che l’imputato fosse incorso in un "errore di fatto" e non in un "errore di diritto", il motivo proposto si appalesa manifestamente infondato. Infatti la doglianza non si esplica in una corretta e fondata censura riconducibile alla fattispecie dell’erronea applicazione di una norma penale, ma si limita a prospettare una diversa soluzione giuridica alla luce della valutazione e della esaltazione di indimostrati aspetti soggettivi propri del prevenuto. Per tali ragioni il motivo deve essere ritenuto inammissibile.
Con un terzo motivo la difesa dell’imputato lamenta la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla entità della pena irrogata (non essendo stata specificata la incidenza di ciascuna aggravante rispetto alla entità della pena statuita per il reato base) e alla mancata concessione delle attenuanti generiche.
La doglianza sotto il profilo della censura ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) quale erronea applicazione dell’art. 133 c.p., appare del tutto generico. La Corte territoriale, dopo avere verificato e motivato le ragioni della effettiva sussistenza delle circostanze aggravanti ha ritenuto corretta la decisione del giudice di primo grado di non concedere le circostanze attenuanti generiche facendo riferimento, con motivazione propria, ad uno dei parametri (gravità del fatto correlate alle modalità dell’azione e pregiudizio all’immagine della parte offesa) previsti dall’art. 133 c.p.. In tale modo la Corte territoriale ha esattamente adempiuto nell’applicazione della norma citata. La motivazione (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)) sul punto della determinazione della pena (peraltro non sindacabile in sede di legittimità) appare altresì adeguata tenuto conto che la sanzione in concreto irrogata è comunque inferiore al massimo edittale previsto per il reato base nella sua forma semplice, con la conseguenza che non può neppure essere messo in che la pena sia da ritenersi illegale.
Per le suddette ragioni il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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