Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 19-04-2011) 20-06-2011, n. 24562 Riparazione per ingiusta detenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

. Dott. DELEHAYE Enrico che chiede rigettarsi il ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con l’ordinanza resa in data 10.02.2010 la Corte d’Appello di Palermo ha rigettato la richiesta, presentata da M.A.G., di riparazione per ingiusta detenzione (ristretto in carcere dal 2 aprile al 31 ottobre 2008), in riferimento al procedimento penale che l’aveva visto imputato dal reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, dal quale era stato assolto con sentenza del Tribunale di Palermo del 31.10.2008, definitiva il 24.02.2009.

Rifacendosi alle risultanze istruttorie esaminate nella sentenza assolutoria, la Corte di Appello ha evidenziato che l’applicazione della misura cautelare restrittiva era stata disposta, tra l’altro, sulla base di elementi probatori emersi nella fase delle indagini e rimasti provati con certezza. In punto di fatto si evidenzia che il M. venne arrestato in flagranza di reato di spaccio di sostanze stupefacenti. Il GIP nell’applicare all’arrestato – in sede di convalida di arresto – la misura della custodia cautelare in carcere, osservò che militari appartenenti al Nucleo Operativo della Compagnia CC. di Palermo, nel corso di un servizio antidroga, avevano notato all’interno del varco esistente tra i civici 5 e 6 di piazza (OMISSIS), la presenza del ricorrente che, avvicinatosi al conducente di un’autovettura Renault Twuingo, aveva ricevuto da quest’ultimo una banconota, ed aveva consegnato qualcosa in cambio, si era poi recato presso una baracca sita nei pressi dove si era intrattenuto a parlare con altre persone. Fermato immediatamente il conducente dell’autovettura – identificato per tale D.F. – questi aveva consegnato spontaneamente una stecchetta di sostanza stupefacente del tipo hashish, sottoposta poi a sequestro.

Nel corso dell’udienza di convalida l’arrestato si avvaleva della facoltà di non rispondere. Con la sentenza del 31.10.2008 il Tribunale di Palermo, nell’assolvere l’imputato ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2 per non aver commesso il fatto, ha osservato che il D. aveva ammesso di aver acquistato la sostanza stupefacente ma aveva anche dichiarato di non conoscere il venditore e, comunque, non aveva riconosciuto in aula il M..

La Corte territoriale riteneva la condotta processuale del ricorrente, che si era avvalso della facoltà di non rispondere, uno degli elementi che avevano concorso alla sua carcerazione, in quanto tale rifiuto assumeva una rilevanza significativa e quantomeno di concausa nell’emissione della misura a fronte di una contestazione che legittimamente traeva spunto dal gravemente indiziario scambio tra una banconota e un’utilità non meglio precisata con una persona successivamente trovata in possesso di stupefacente, specie ove si tengano presenti i precedenti penali specifici del M..

La Corte, quindi, ha evidenziato che gli elementi che il Tribunale non ha ritenuto sufficienti per raffermare la responsabilità del ricorrente, rivalutati con autonomia di giudizio in sede del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, indicano in maniera evidente la colpa grave del ricorrente ostativa all’accoglimento della domanda.

Con il proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del difensore, l’istante denuncia vizi di motivazione dell’atto, consistenti in una errata valutazione della condotta del ricorrente, apoditticamente ritenuta integrare l’ipotesi di colpa grave, gravità sulla quale manca una convincente ed analitica motivazione, che possa superare la valutazione della sentenza di assoluzione, per la quale gli indicati elementi sono stati ritenuti inconsistenti o insufficienti per una affermazione di penale responsabilità, in particolare si contesta la valenza del comportamento tenuto dal ricorrente in sede di convalida dell’arresto, rilevando che la decisione della Corte d’Appello è totalmente disancorata dai presupposti contenuti nella norma ed assolutamente confliggenti con i principi di diritto contenute nelle massime giurisprudenziali del Supremo Collegio. Si osserva che questa Corte ha affermato che la facoltà dell’indagato di non rispondere, che costituisce legittimo esercizio del diritto di difesa, può rilevare sotto il profilo del dolo o della colpa grave allorchè al soggetto si possano imputare scelte difensive malaccorte in qualunque momento compiute, ossia quelle scelte che non gli hanno consentito di fare cessare la detenzione nonostante che avesse gli strumenti per ottenere tale risultato (Sezione 3^ sentenza del 13.02.2008). Con atto scritto, il Procuratore Generale, nella persona del dott. Enrico Delehaye, ha chiesto rigettarsi il ricorso.

I motivi esposti sono infondati sicchè il ricorso va rigettato.

L’iter argomentativo, seguito dalla Corte d’Appello resiste alle censure del ricorrente, atteso che i ravvisati indici rilevatori della sussistenza del preciso nesso eziologico tra la condotta processuale tenuta dall’istante – che lo ha posto nella obiettiva situazione di gravità indiziaria per come descritta – e la misura cautelare emessa, afferiscono ad una condotta che appare essere manifestamente e verosimilmente riconducibile ad una situazione che esteriormente potrebbe configurasi come di cessione a terzi di sostanze stupefacenti.

Invero, quanto al comportamento, oggettivamente analizzato addebitabile al ricorrente, è quello di aver posto in essere una condotta che agli occhi dei carabinieri, sicuramente esperti in tale tipo di indagini, non poteva non essere inquadrata come quella punita dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Ciò posto, è stato ritenuto altresì rilevante dal giudice della riparazione il comportamento processuale del ricorrente che ha ritenuto di non dover rispondere all’interrogatorio di garanzia.

Nel giudizio di cui all’art. 314 cod. proc. pen., il giudice, ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, può valutare il comportamento silenzioso o mendace, legittimamente tenuto nel procedimento penale dall’imputato, per escludere il suo diritto all’equo indennizzo.

Il difensore del ricorrente ritiene, invece, che il silenzio da solo non assume rilievo ai fini della determinazione della colpa grave, poichè resta fermo l’insindacabile diritto al silenzio o alla reticenza o alla menzogna da parte della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato.

Va osservato che, nell’ipotesi in cui solo l’indagato e/o imputato sia in grado di fornire una logica spiegazione, al fine di eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti nel corso delle indagini, non il silenzio o la reticenza, in quanto tali, rilevano, ma il mancato esercizio di una facoltà difensiva, quanto meno sul piano dell’allegazione di fatti favorevoli. Tale condotta processuale può valere a far ritenere l’esistenza di un comportamento omissivo causalmente efficiente nel permanere della misura cautelare.

Tuttavia, come esattamente rilevato dall’opposto indirizzo (Cass. sez. 3A, n. 13714 del 2005), una cosa è il diritto di difendersi con qualsiasi mezzo per preservare la propria libertà personale da un’imputazione penale, altra cosa è il diritto a una riparazione giudiziaria quando la detenzione patita si rivela ingiusta perchè la strategia difensiva ha avuto successo o ha comunque ottenuto l’assoluzione dall’imputazione. Il legislatore infatti non ha riconosciuto incondizionatamente siffatto diritto alla riparazione, ma l’ha esplicitamente escluso quando il comportamento dell’indagato, da solo o con altre circostanze, ha indotto in errore il giudice cautelare circa l’esistenza di indizi di colpevolezza a carico dello stesso indagato. E ciò in forza del principio generale stabilito dall’art. 1227 c.c., comma 2, secondo cui il risarcimento del danno non è dovuto quando il creditore avrebbe potuto evitarlo usando l’ordinaria diligenza. Anche su questo punto, insomma, opera l’autonomia dei due giudizi: a) nel giudizio penale, l’imputato ha diritto di difendersi anche col silenzio e il mendacio; b) nel giudizio di natura civilistica per la riparazione, il giudice può valutare il comportamento silenzioso o mendace dell’imputato per escludere il suo diritto all’equo indennizzo.

Spetterà poi allo stesso giudice della riparazione decidere se il silenzio o il mendacio bastino da soli, o necessitino del concorso di altri elementi di colpa, per escludere il diritto all’indennizzo. In questo ambito potrà per esempio valutare se il silenzio ha svolto colposamente un ruolo sinergico nel giustificare la misura detentiva in quanto ha ritardato l’acquisizione di elementi a discarico.

Orbene, per il caso di specie, l’ordinanza pone in rilievo che si è giunti alla assoluzione del ricorrente, perchè non è stato riconosciuto dal cessionario della sostanza stupefacente e perchè i Carabinieri non avevano precisato se la "cosa" ceduta dal ricorrente al D. si trattasse di una busta, di un pezzo di carta, di una sigaretta ecc… Con riferimento a quanto esposto, nell’economia del giudizio di riparazione, assume significativo rilievo il comportamento dell’istante il quale ben avrebbe potuto spiegare cosa avesse consegnato al D..

Se tale è la situazione processuale, ancorchè la valutazione del comportamento doloso o gravemente colposo – come insegna la giurisprudenza di questa corte – deve essere formulata ex ante, cioè al momento in cui la misura custodiale è stata emessa o confermata, essendo indubbia la individuazione fisica del M., egli aveva senz’altro la possibilità di giustificare un comportamento a sè sfavorevole.

Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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