Cassazione civile Sezioni Unite 4309/2010 Il giudice cui sia tempestivamente chiesta dal convenuto la chiamata in causa, in manleva o in regresso, del terzo, può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Roma, con sentenza del 3 luglio 2001, condannava in solido le persone fisiche di cui in epigrafe membri del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale dal 1983 al 1993 della S.I.V.A. s.p.a., a pagare a titolo di risarcimento del danno L. 52.940.373.636 e le spese di causa al Ministero dell’economia e delle finanze succeduto al disciolto Ente nazionale cellulosa e carta (E.N.C.C.), assuntore del concordato approvato nella procedura fallimentare relativa alla società con sentenza del 6 ottobre 1998 dello stesso tribunale e subentrato al liquidatore che nella citazione, dedotta la dichiarazione dello stato di insolvenza della società, aveva agito per il recupero delle perdite e dei mancati guadagni subiti dal patrimonio sociale a causa della cattiva gestione degli amministratori e degli omessi controlli dei sindaci. Il tribunale aveva affermato la responsabilità dei convenuti, dopo che il g.i. non aveva fissato la udienza per la chiamata in causa da loro chiesta in rivalsa e/o regresso dei terzi tra cui l’ente sopra indicato, azionista quasi totalitario della società. Nominato un c.t.u. contabile, la causa, interrotta per la morte del convenuto R.L., era riassunta dall’E.N.C.C. in data successiva alla sua soppressione (31 dicembre 1999) con ricorso del 19 febbraio 2000 notificato a marzo 2000 alle altre parti, nei cui confronti l’azione era stata proseguita poi dal Ministero succeduto all’ente assuntore, logicamente difeso dall’Avvocatura erariale.

Avverso la sentenza di primo grado proponevano appelli autonomi principali riuniti dalla Corte di merito i condannati M.M., A.M., C.M., D.C.G., L.L., L.L. H., P.R., P.M., S.P., G.O. e gli eredi R. e gravami incidentali l’ A.E., il M.A., il T.F. e il G.O.; resisteva il Ministero delleconomia e delle finanze, che, in via incidentale, chiedeva l’aumento del risarcimento liquidato in suo favore. Sospesa la provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado, la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 25 settembre 2008, in parziale accoglimento dei gravami, respinta ogni domanda nei confronti dei sindaci, ha condannato gli amministratori della società a pagare in solido al Ministero, a titolo di risarcimento del danno, le seguenti somme:

1) M.M., D.C.G., L.C. e P.M.: Euro 4.840.304,14;

2) T.F. e A.E.: Euro 3.406.844,23;

3) eredità giacente del G.O., chiamata in causa per la rinuncia all’eredità degli eredi, Euro 1.722.967,23, oltre al 2% annuo su tali somme dal 1 gennaio 1994 al saldo con compensazione delle spese di causa tra le parti.

Erano in appello respinte, per quanto rileva, le eccezioni dell A.E. di difetto di giurisdizione dell’A.G.O. a favore della Corte dei conti (punto 3, pagg. 8 – 12) e quella di nullità della riassunzione del processo ad opera dell’E.N.C.C., per difetto di legittimazione processuale del difensore di esso ormai disciolto (punto 5, pagg. 13 – 15) ; ritenuto legittimo il rigetto dal tribunale della richiesta di chiamata in causa di terzi, da parte dei convenuti A.E., L.C., P.M. e G.O., la sentenza ha poi denegato che fossero nulle le operazioni del c.t.u. che aveva depositato la relazione nella fase in cui il processo era interrotto (punto 8, pagg. 17 e 18).

La Corte di merito ha affermato che l’azione era stata proposta ai sensi degli artt. 2393 e 2394 c.c. e riguardava i soli danni arrecati alla società e ai creditori di essa e, individuate le singole condotte degli appellanti amministratori che avevano provocato le perdite e mancati guadagni loro imputati, ha condannato gli stessi al risarcimento come sopra precisato. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso principale di diciassette motivi illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. A.E., e si difendono, con controricorso e ricorso incidentale non contrastante con quello principale, M.M., con unico motivo di più profili, D.C.G. con otto motivi, G.M. e L.L.H., eredi di L.C., con sei motivi, T.F. con sei motivi e P.M., con otto motivi e una memoria illustrativa.

Resiste con controricorso il Ministero dell’economia e delle finanze, Ispettorato Generale degli enti disciolti, in rappresentanza dell’E.N.C.C., mentre gli altri intimati non si difendono in questa sede.

Motivi della decisione
Ai sensi dell’art. 335 c.p.c. il ricorso principale e le altre impugnazioni contro la medesima sentenza devono riunirsi.

1. Le questioni di giurisdizione proposte nei ricorsi riuniti.

1.1. Il primo motivo di ricorso dell’A.E. deduce violazione della L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, artt. 13 e 52 in rapporto all’art. 103 Cost, comma 2, e all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 3, in ordine alla giurisdizione.

La Corte d’appello, sul presupposto che per la giurisdizione contabile vi è la riserva di legge (art. 103 Cost.), ha collegato alla vigenza della L. n. 20 del 1994, art. 1, comma 4 l’estensione alla fattispecie della responsabilità amministrativa per danni "a amministrazioni e enti pubblici diversi da quelli di appartenenza per i fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore" della legge, come sancita dalla norma. Nel concetto di "fatto" di cui alla norma rientra, secondo l’A.E., l’azione o omissione fonte del danno da identificare nello stato di insolvenza della società a dominanza pubblica, emerso ad ottobre 1994, dopo l’entrata in vigore della L. n. 20 del 1994, sussistendo di conseguenza la giurisdizione contabile; si chiede a questa Corte, con quesito ex art. 366 bis c.p.c., "di affermare che nel concetto di fatto commesso, di cui alla L. n. 20 del 1994, art. 1, comma 4 debba comprendersi l’evento lesivo costituito dallo stato di insolvenza della società, dichiarato a ottobre 1994, come momento dirimente della attribuzione della giurisdizione alla Corte dei conti o al giudice ordinario, con conseguente affermazione della prima". Afferma il ricorrente che se per l’art. 103 Cost. vi è giurisdizione contabile "nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge", già prima della legge del 1994 la Cassazione a sezioni unite e la Corte costituzionale avevano chiarito che, nella materia contabile rientra ogni caso in cui si discuta di gestione di danaro pubblico; pertanto alla Corte dei Conti competono tutte le controversie di cui sia oggetto un danno, da qualificare in rapporto alla natura pubblica delle risorse usate e al tipo di attivita in concreto svolta.

Poiché la S.I.V.A. s.p.a. è stata costituita dall’E.N.C.C. nel 1952, per svolgere attività volte al perseguimento delle finalità dell’ente e ad operare con danaro pubblico erogato da esso, certa appare, nella presente causa, la giurisdizione della Corte dei conti, pur in assenza d’espressa previsione normativa. Si è negato dal giudice del merito che la S.I.V.A. possa essere ritenuta ente pubblico economico, perchè la società non tendeva a soddisfare interessi generali o a svolgere servizi pubblici, anche se il capitale sociale era stato conferito dall’E.N.C.C., ente pubblico i cui fini solo indirettamente incidevano nella attività societaria;

infatti la società con capitale pubblico quasi totalitario, custodiva e conservava carta da destinare alla stampa, per garantire i rifornimenti alla editoria giornalistica in caso di emergenza, svolgendo un servizio pubblico o di interesse generale, dovendosi quindi qualificare "organismo di diritto pubblico", con i tre caratteri che lo individuano:

1) influenza dominante d’un ente pubblico;

2) personalità giuridica;

3) requisito teleologico del carattere "generale" e non "industriale o commerciale" della attività svolta. In subordine l’Amato afferma che la società era impresa pubblica, perché il capitale sociale è quasi interamente di un ente pubblico, essendo irrilevanti gli scopi che persegue o il suo oggetto sociale, perché la situazione comportava un controllo tecnico di natura finanziaria ed economica dell’ente finanziatore incompatibile con lo scopo di lucro della società. Per il ricorrente, nessun rilievo ha il fatto che agli amministratori si sono imputati danni arrecati non solo alla società ma anche ai creditori sociali, essendo i pregiudizi derivati dall’esercizio di poteri autoritativi e di pubbliche funzioni nella gestione di danaro pubblico e di conseguenza si chiede ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., di "affermare che, per le fattispecie di responsabilità degli amministratori di società in mano pubblica, con esercizio di poteri autoritativi e/o di pubbliche funzioni o di gestione di danaro pubblico, debba affermarsi la giurisdizione della Corte dei conti pure per i fatti illeciti anteriori all’entrata in vigore della L. n. 20 del 1994 e se nel caso debba denegarsi la giurisdizione ordinaria, a favore di quella contabile".

1.2. I primi due motivi del ricorso incidentale di M.M. prospettano la questione di giurisdizione ai sensi dell’art. 103 Cost., per non avere la sentenza rilevato che la S.I.V.A. s.p.a. nel cui interesse e nell’interesse dei cui creditori si è proposta l’azione risarcitoria, è mero strumento d’attuazione dei fini dell’E.N.C.C., pur se questo non è ente pubblico economico. La presente causa tende ad ottenere un sindacato sulla erogazione di contributi in forma di fornitura di carta a terzi, non perché illegittima ma indebita, per essere avvenuta in danno del patrimonio societario e quindi della stessa E.N.C.C., titolare di questo oltre che assuntore del concordato e comunque anche della massa dei creditori, per i quali si è agito. Pur non trattandosi di un giudizio di contabilità pubblica e di responsabilità connessa a contributi erogati dall’ente pubblico, certamente nel caso si esorbita dal mero esercizio dell’attività d’impresa dalla società, in quanto va valutato lo svolgimento di funzioni pubbliche o di interesse generale degli amministratori del soggetto pubblico in forma societaria, che agiscono in luogo dei funzionari dello Stato o di enti pubblici non economici. Il quesito conclusivo chiede alla Corte di affermare che "competente a giudicare della responsabilità degli amministratori di società controllate da enti pubblici economici (quale non è divenuto peraltro l’E.N.C.C.), per conto dei quali esse svolgono attività istituzionali e con vincolo di subordinazione e sottoposizione a poteri autoritativi, è la Corte dei conti e non, come afferma la decisione impugnata, l’A.G.O.".

Si denuncia pure l’insufficiente motivazione della decisione di merito sulla affermata giurisdizione del giudice ordinario, dopo che la Corte dei conti si era ritenuta dotata di giurisdizione nel giudizio di responsabilità nei confronti del commissario liquidatore dell’E.N.C.C. rimasto inerte nell’assumere decisioni.

1.3. Il ricorso incidentale del D.C.G. si articola anche in due motivi sulla giurisdizione, analoghi a quelli del ricorso principale e conclusi da tre quesiti di diritto, i primi due dei quali relativi alla individuazione del momento di commissione del fatto dannoso, in rapporto al già richiamato L. n. 20 del 1994, art. 1, comma 4 mentre il terzo estende ai danni anteriori all’entrata in vigore di tale legge, la giurisdizione dei giudici contabili sulla responsabilità di amministratori di società per azioni in mano pubblica o controllata da ente pubblico non economico o da questo partecipata in modo totalitario, la quale eserciti pure funzioni pubbliche e manifesti poteri autoritativi, gestendo danaro pubblico.

1.4. La questione di giurisdizione proposta dalle eredi di L. C., M.G. e L.L.H., è sintetizzata nel quesito di diritto: "Dica la Corte se la giurisdizione della Corte dei conti si estenda pure nei confronti delle società a partecipazione pubblica, che perseguono interessi generali dell’ente che le controlla, anche se ad esse non è affidato un pubblico servizio e se, per la S.I.V.A., che perseguiva interessi generali di fornire provvidenze alla stampa, utilizzava risorse pubbliche ed era interamente partecipata dall’E.N.C.C., la giurisdizione per responsabilità degli amministratori spetta o meno al giudice contabile.

1.5. Il T.F. lamenta anche egli nella sua impugnazione incidentale il difetto di giurisdizione dell’A.G.O. per violazione delle norme di cui sopra, perché l’attività degli amministratori della S.I.V.A. è assimilabile a quella di dipendenti e funzionari pubblici, essendo legati a rapporto di servizio con l’E.N.C.C. e non avendo la società finalità imprenditoriali, dovendo realizzare quelle istituzionali del suo unico azionista, con conseguente controllo della sua contabilità da riservare alla Corte dei conti.

Ad avviso di tale ricorrente incidentale, gli amministratori convenuti nell’azione risarcitoria avevano gestito danaro pubblico proveniente da ente pubblico non economico (lE.N.C.C), eseguendo le direttive di questo, per perseguire interessi di carattere generale e non propri della società.

1.6. Il ricorso del P.M. in ordine alla giurisdizione, contesta la pronuncia di Cass. S.U. 9 ottobre 2008 n. 24883 sul giudicato implicito sulla questione, ai sensi dell’art. 37 c.p.c. e relativamente alle cause con più parti, nelle quali alcune solo abbiano proposto l’eccezione specifica. Ritenuta ampliata la giurisdizione contabile alla responsabilità degli amministratori di società a capitale pubblico in misura totalitaria o comunque rilevante, anche per fatti commessi prima della entrata in vigore della L. n. 20 del 1994, il P.M. chiede di riformare sul punto la decisione di merito. Se la Cassazione esclude la giurisdizione della Corte dei Conti quando vi sia un giudizio di responsabilità verso amministratori di enti o società che svolgono mera attività imprenditoriale, la Corte Costituzionale e i giudici contabili affermano invece la cognizione del giudice speciale anche per tali controversie. A sostegno di "tale giurisdizione si è ritenuto che essa sorge allorché vi sia un rapporto di servizio tra autore dell’illecito e amministrazione ovvero quando si tratti di danno cagionato nell’utilizzo di risorse pubbliche; non è la forma della attività ma la natura pubblica delle risorse impiegate che giustifica la cognizione speciale, essendo irrilevante e formale il mutamento in società degli enti pubblici che prima agivano direttamente e ora a mezzo di enti societari, per perseguire i loro fini. La natura pubblica della s.p.a. S.I.V.A., a capitale quasi totalitario dell’E.N.C.C. e nel resto di altra società da questo controllata, non può negarsi e conferma la giurisdizione del giudice speciale in luogo di quello ordinario, non potendosi denegare la qualifica di organismo di diritto pubblico o dimpresa pubblica alla società.

1.7. Il controricorrente Ministero parifica l’azione proposta dal liquidatore a quella concorsuale della L. Fall., art. 206 che non può negarsi abbia ad oggetto anche la responsabilità verso i creditori e debba quindi, già solo per tale profilo che coinvolge i privati, essere conosciuta dal giudice ordinario, non potendo i giudici contabili valutare una responsabilità verso soggetti di natura non pubblica.

2. L’esame della questione in base alle norme attributive della giurisdizione e del tipo di tutela in concreto domandata nella presente causa (S.U. 23 dicembre 2008 n. 30250). I primi due motivi di ricorso dell’ A.E. per la dichiarazione della giurisdizione della Corte dei conti, devono rigettarsi perché infondati, mentre quelli sulla stessa questione proposti dal M.M., dal D.C. G., dalle eredi di L.C. e dal P.M. sono inammissibili, perché preclusi dal giudicato.

2.1. Sulla questione di giurisdizione, infatti, solo il ricorrente A.E. ha proposto appello contro la sentenza del tribunale di Roma, eccependo la carenza di giurisdizione del giudice ordinario a favore della Corte dei conti; è quindi preclusa la proposizione della predetta questione per la prima volta in cassazione dagli altri ricorrenti, per essersi formato il giudicato implicito su di essa rispetto a costoro, acquiescenti alla pronuncia di primo grado per la parte in cui implicitamente, con la condanna dei convenuti, ha affermato i poteri cognitivi del giudice ordinario sulla controversia in via definitiva per le parti che non hanno impugnato punto pregiudiziale della decisione di primo grado.

Dato il litisconsorzio facoltativo e la scindibilità delle cause nei confronti di ognuno dei vari amministratori, la riconosciuta giurisdizione del giudice ordinario è da ritenere definitivamente dichiarata per le parti che non hanno prospettato già nel gravame di merito la stessa questione, deducendo il difetto di giurisdizione con l’appello (sul giudicato implicito sulla giurisdizione, cfr., tra altre, S.U. 25 giugno 2009 n. 14889, 18 dicembre 2008 n. 19523, 20 novembre 2008 n. 27531 sulla scia della S.U. 9 ottobre 2008 n. 24883 citata dal P.M.). Deve quindi respingersi la deduzione preliminare del ricorso del P.M. il quale, in rapporto all’art. 37 c.p.c., ha chiesto di superare la richiamata giurisprudenza e di ritenere non preclusi il suo e gli altri ricorsi, diversi da quello dell’A.E., dal giudicato implicito sulla giurisdizione per lui e gli altri ricorrenti incidentali già intervenuto, data la esistenza dei poteri officiosi esercitabili nella materia dal giudice, che può sempre e in ogni stato e grado del giudizio rilevare il difetto di giurisdizione dell’A.G.O. La questione dell’opponibilità alle parti di quanto statuito in via definitiva a causa della loro acquiescenza in materia di giurisdizione è diversa da quella dedotta dal P.M. della rilevabilità di ufficio del difetto dei poteri cognitivi del giudice ordinario in ogni stato e grado del giudizio, di cui all’art. 37 c.p.c., norma che, oltre ad essere limitata al solo giudizio ordinario quale è quello oggetto della presente causa, nel sistema, può logicamente produrre effetti sempre e solo in riferimento alle parti non acquiescenti sulla questione stessa, consentendo, esclusivamente in rapporto a costoro, il riesame di essa nel grado successivo, peraltro anche utilizzando argomenti diversi da quelli proposti con i motivi della impugnazione ammissibile e individuati di ufficio dal giudice investito del gravame, il quale, in via officiosa e in base alla norma da ultimo citata, potrà attingere argomenti per decidere sulla giurisdizione in modo diverso da quanto deciso in precedenza con effetto per il solo impugnante, pure dalle altre impugnazioni sulla stessa questione della medesima sentenza, dichiarate precluse dalla formazione del giudicato nei confronti delle parti che le hanno proposte.

E’ in rapporto a tali poteri officiosi, che appare opportuno individuare quale sia il giudice avente giurisdizione sulla presente controversia prima dell’esame dei singoli ricorsi su tale questione per poi valutarne i motivi alla luce delle conclusioni raggiunte, esaminando con quanto prospettato dall’A.E. nel suo ricorso ammissibile, anche le argomentazioni diverse contenute nelle altre censure dichiarate inammissibili.

2.2. Il limite esterno della giurisdizione della Corte dei conti, sul quale le sezioni unite della Corte di cassazione sono chiamate a pronunciarsi, ha rilevanza costituzionale: discende dal disposto dell’art. 103 Cost., comma 2, a tenore del quale, "la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge". Al di fuori delle materie di contabilità pubblica, e quindi anche in tema di responsabilità, occorre dunque che la giurisdizione della Corte dei conti abbia il suo fondamento in una specifica disposizione di legge.

In termini generali, il contenuto e i limiti della giurisdizione della Corte dei conti in tema di responsabilità trovano la loro base normativa nella previsione del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 13, secondo cui essa giudica sulla responsabilità per danni arrecati all’erario da pubblici funzionari nell’esercizio delle loro funzioni.

Tali limiti sono stati successivamente ampliati dalla citata L. n. 20 del 1994, art. 1, comma 4 che estende il giudizio della Corte dei conti alla responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici, anche per danni cagionati ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza. La giurisdizione di detta Corte non è quindi circoscritta alla sola ipotesi di responsabilità contrattuale dell’agente, ma può esplicarsi anche in caso di responsabilità aquiliana.

In passato i limiti della giurisdizione contabile come di quella del giudice amministrativo, erano più agevoli da tracciare: la più netta distinzione tra l’area del pubblico e quella del privato, la normale corrispondenza tra natura pubblica dell’attività svolta dall’agente ed il suo organico inserimento nei ranghi della P.A., la conseguente più agevole demarcazione dei confini tra l’agire dell’amministrazione in forza della potestà pubblica ad essa spettante e per le attività tipicamente a questa connesse ed il suo agire iure privatorum, erano tutti elementi che facilitavano la individuazione dei limiti esterni della giurisdizione in esame.

La più recente evoluzione dell’ordinamento ha reso ora questi confini assai meno chiari, da un lato incanalando sovente le finalità della pubblica amministrazione in ambiti tipicamente privatistici, dall’altro affidando con maggiore frequenza a soggetti privati la realizzazione di finalità una volta ritenute di pertinenza esclusiva degli organi pubblici.

In quest’ottica anche le sezioni unite della Cassazione, per evitare il rischio di un sostanziale svuotamento o di un grave indebolimento della giurisdizione della Corte dei conti in punto di responsabilità, hanno teso a privilegiare un approccio più "sostanzialistico", sostituendo ad un criterio eminentemente soggettivo che identificava l’elemento fondante della giurisdizione della Corte contabile nella condizione giuridica pubblica dell’agente, un criterio oggettivo, che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni esercitate e delle risorse finanziare a tal fine adoperate.

Si è però affermato che, quando si discute del riparto di giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario, occorre avere riguardo al rapporto di servizio tra l’agente e la P.A., ma che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo ad essa, del compito di porre in essere in sua vece un’attività, senza che rilevi né la natura giuridica dell’atto di investitura – provvedimento, convenzione o contratto – né quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica (S.U. 3 luglio 2009 n. 15599, 31 gennaio 2008 n. 2289, 22 febbraio 2007 n. 4112, 20 ottobre 2006 n. 22513, 5 giugno 2000 n. 400, S.U. 30 marzo 1990 n. 2611 ed atre conformi).

L’affidamento, da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno da esso controllato, della gestione di un servizio pubblico integra una relazione funzionale incentrata sullo inserimento del soggetto stesso nell’organizzazione funzionale dell’ente pubblico e ne implica, conseguentemente lo assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, a prescindere dalla natura privatistica dello stesso soggetto e dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito e attuato il rapporto (S.U. 27 settembre 2006 n. 20886, 1 aprile 2008 n. 8409, 1 marzo 2006 n. 4511, 19 febbraio 2004 n. 3351), anche se l’estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in favore della P..A. (S.U. 9 settembre 2008 n. 22652) e pure se difetti di una gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione proprie della giurisdizione contabile in senso stretto (S.U. 12 ottobre 2004 n. 20132). Lo stesso dicasi per l’accertamento della responsabilità erariale conseguente all’illecito e indebito utilizzo, da parte di una società privata, di finanziamenti pubblici (S.U. 5 giugno 2008 n. 14825 e n. 4511/06 cit.) ovvero per la responsabilità in cui può incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un’opera pubblica, quando la concessione investe il privato dell’esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendogli la qualifica di organo indiretto della amministrazione, onde egli agisce per le finalità proprie di quest’ultima (S.U. n. 4112/07 cit.).

Nella medesima ottica, a partire dal 2003, le sezioni unite di questa Corte hanno ritenuto spettare alla Corte dei conti, dopo l’entrata in vigore della L. n. 20 del 1994, art. 1, comma 4 la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto la responsabilità dei privati funzionari di enti pubblici economici (quali ad esempio i consorzi per la gestione di opere), anche per i danni conseguenti alla svolgimento dell’ordinaria attività imprenditoriale e non soltanto per quelli cagionati nell’espletamento di funzioni pubbliche o comunque di poteri pubblicistici (S.U. 22 dicembre 2003 n. 19667). Si è sottolineato che si esercita attività amministrativa non solo quando si svolgono funzioni pubbliche e si esercitano poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, si perseguono le finalità istituzionali proprie dell’amministrazione pubblica, mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato, con la conseguenza che, nell’attuale assetto normativo, il dato essenziale che radica la giurisdizione della corte contabile e rappresentato dall’evento dannoso verificatosi a carico della P.A. e non più dal quadro di riferimento – pubblico o privato – nel quale si colloca la condotta produttiva del danno (S.U. 25 maggio 2005 n. 10973, 20 giugno 2006 n. 14101, 1 marzo 2006 n. 4511, Cass. 15 febbraio 2007 n. 3367).

2.3. Se quanto osservato vale per gli enti pubblici economici, che restano nell’alveo della P.A. per quanto eventualmente operino imprenditorialmente con strumenti privatistici, e da stabilire entro quali limiti alla medesima conclusione si può giungere pure nel diverso caso della responsabilità di amministratori di società di diritto privato partecipate da un ente pubblico, le quali non perdono la loro natura di enti privati per il fatto che il loro capitale è alimentato anche da conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico. Il codice civile dedica alla società per azioni a partecipazione pubblica solo alcune scarne disposizioni, oggi contenute nell’art. 2449 (come modificato dalla L. 25 febbraio 2008, n. 34, art. 13 a seguito della pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee, 6 dicembre 2007, ric. n. 463/04), essendo stato il successivo art. 2450 ormai abrogato dal D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, art. 3, comma 1 convertito con modificazioni dalla L. 6 aprile 2007 n. 46. Siffatte residue disposizioni del codice non valgono a configurare uno statuto speciale per dette società (spesso, viceversa, interessate da norme speciali, non sempre tra loro ben coordinate), salvo per i profili inerenti alla nomina e revoca degli organi sociali, specificamente ivi contemplati, né comunque investono il tema della responsabilità di detti organi, che resta disciplinato dalle ordinarie norme previste dal codice civile a questo riguardo, com’è confermato dalla immutata indicazione del citato art. 2449 c.c., comma 2 a tenore del quale anche i componenti degli organi amministrativi e di controllo di nomina pubblica "hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea". Né pare dubbio che quest’ultimo principio valga anche per le società a responsabilità limitata eventualmente partecipate da ente pubblico, in difetto di qualsiasi specifica norma del codice che se ne occupi.

Se ne è desunto, anche alla luce di quanto espressamente indicato nella relazione ("E’ lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici") che la scelta della P.A. di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta. Dall’identità dei diritti e degli obblighi facenti capo ai componenti degli organi sociali di una società a partecipazione pubblica, pur quando direttamente designati dal socio pubblico, logicamente discende la responsabilità per detti organi nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei terzi in genere, nei medesimi termini di cui allart. 2392 c.c. e segg., in cui tali possibili proiezioni della responsabilità sono configurabili per gli amministratori e per gli organi di controllo di qualsivoglia altra società privata.

E’ innegabile, nondimeno, che possano determinarsi dei problemi quando il modello giuridico – formale prescelto entra in tensione con il fenomeno economico sottostante, come non di rado accade proprio nel caso in cui lo Stato o altro ente pubblico assume una partecipazione in una società per perseguire in tal modo finalità di rilevanza pubblica.

Ne è testimone, in certa misura, la sentenza di queste S.U. 26 febbraio 2004 n. 3899, che, dopo avere ribadito il principio per cui una società per azioni costituita con capitale maggioritario dal comune in vista dello svolgimento di un servizio pubblico ha una palese relazione funzionale con l’ente che l’ha creata, caratterizzata dall’inserimento di essa nell’iter procedimentale dello stesso ente locale e dal conseguente rapporto di servizio venutosi così a determinare, ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti nelle controversie in materia di responsabilità patrimoniale per danno erariale, riguardanti gli amministratori e i dipendenti di tale società.

La portata di tale affermazione non risulta però del tutto univoca, perché nella sentenza si ha cura di specificare, per un verso, che l’elemento determinante della decisione era costituito in quel caso dal rapporto di servizio intercorrente tra la società privata e il comune (piuttosto che dal rapporto partecipativo e dal conseguente investimento di risorse finanziarie pubbliche nel patrimonio della società privata) e, per un altro verso, che la questione se il danno subito dal comune partecipante alla società fosse diretto, o meramente riflesso, rispetto a quello arrecato al patrimonio sociale, costituiva un profilo estraneo al giudizio sui limiti della giurisdizione. Proprio quest’ultimo profilo sembra invece meritare un ulteriore approfondimento, potendo assumere un rilievo decisivo ai fini che qui interessano.

2.4. In primo luogo, non sembra si possa prescindere dalla distinzione tra la posizione della società partecipata, cui eventualmente fa capo il rapporto di servizio instaurato con la P.A. e quella personale degli amministratori (nonché dei sindaci e degli organi di controllo della stessa società), i quali, ovviamente, non si identificano con la società stessa, sicché nulla consente di riferire loro, sic et simplicter, il rapporto di servizio di cui la società sia parte.

Quanto appena osservato non vale a chiudere ogni possibile spazio alla giurisdizione della Corte dei conti in ordine a eventuali comportamenti illegittimi imputabili agli organi delle società a partecipazione pubblica, da cui scaturisca un danno per il socio pubblico.

Si è già accennato vuoi alla possibilità che tale giurisdizione sia riferita anche ad ipotesi di responsabilità aquiliana, vuoi alla possibilità che essa si configuri pure in difetto di una formale investitura pubblica dell’agente. Entra allora in gioco un ulteriore importante elemento normativo, cui finora non si è fatto riferimento ma che occorre considerare.

Si allude alla disposizione della L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 16 bis che ha convertito il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248 e che statuisce: "Per le società con azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici, inferiore al 50%, nonché per le loro controllate, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del giudice ordinario". Tale norma, benché la sua applicazione ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione sia espressamente esclusa, assume significato retrospettivo, nella misura in cui lascia intendere che, in ordine alla responsabilità di amministratori e dipendenti di società a partecipazione pubblica, vi sia una naturale area di competenza giurisdizionale diversa da quella ordinaria.

Non si capirebbe, altrimenti, la ragione per la quale il legislatore ha inteso stabilire che, per l’avvenire, limitatamente alle società quotate o loro controllate, con partecipazione pubblica al 50%, la giurisdizione spetta invece in via esclusiva proprio al giudice ordinario.

Resta però da verificare entro quali limiti, al di fuori del ristretto campo dapplicazione della disposizione citata da ultimo, sia davvero configurabile la giurisdizione del giudice contabile, che il legislatore ha in tal modo presupposto, in rapporti ad atti di mala qestio degli organi di società a partecipazione pubblica.

In difetto di norme esplicite in tal senso (e fatta salva la specificità di singole società a partecipazione pubblica il cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, come nel caso della RAI), è ai principi generali e alle linee portanti del sistema che occorre aver riguardo ed è in quest’ottica che assume rilievo decisivo la accennata distinzione tra la responsabilità in cui gli organi sociali possono incorrere nei confronti della società (prevista e disciplinata, per le società azionarie, dall’art. 2393 c.c. e segg. e, per le società a responsabilità limitata, dall’art. 2476 c.c., commi 1, 3 e 4) e la responsabilità che essi possono assumere direttamente nei confronti di singoli soci o terzi, disciplinata, per le società per azioni, dall’art. 2395 c.c. e, per quelle a responsabilità limitata, dall’art. 2476 c.c.. In tale ultimo caso di azione per danni al socio pubblico, la configurabilità dell’azione del procuratore presso la Corte dei conti, tesa a far valere la responsabilità dell’amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente pubblico quando questo sia stato direttamente danneggiato dall’azione illegittima, non incontra particolari ostacoli (né si incontrano difficoltà derivanti dalla possibile concorrenza di siffatta azione con quella ipotizzata in sede civile dai citati art. 2395 c.c. e art. 2476 c.c., comma 6, perché l’una e l’altra mirerebbero in definitiva al medesimo risultato). Non importa indagare sulla natura dell’indicata responsabilità, se essa abbia carattere extracontrattuale (come la giurisprudenza è per lo più incline a ritenere: si vedano, tra le altre, Cass. 5 agosto 2008 n. 21130, 21 luglio 2007 n. 16416 e 3 aprile 2007 n. 8359) o se presupponga la violazione di un preesistente obbligo di corretto comportamento dell’amministratore e del componente dell’organo di controllo anche nei diretti confronti di ciascun singolo socio (onde alcune autorevoli voci di dottrina ravvisano, pure in tal caso, un’ipotesi di responsabilità almeno lato sensu contrattuale).

Quel che appare certo è che la presenza dell’ente pubblico all’interno della compagine sociale ed il fatto che la sua partecipazione sia strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed abbia implicato l’impiego di pubbliche risorse non può sfuggire agli organi della società e non può non comportare, per loro, una peculiare cura nell’evitare comportamenti tali da compromettere la ragione stessa di detta partecipazione sociale dell’ente pubblico o che possano comunque direttamente cagionare un pregiudizio al patrimonio di quest’ultimo.

Tipico esempio di questa situazione è il danno all’immagine dell’ente pubblico (su cui: S.U. 20 giugno 2007 n. 14297) che derivi da atti illegittimi posti in essere dagli organi della società partecipata: danno che può eventualmente prodursi immediatamente in capo a detto ente pubblico, per il fatto stesso di essere partecipe ad una società in cui quei comportamenti illegittimi si siano manifestati e che non s’identifica con il mero riflesso di un pregiudizio arrecato al patrimonio sociale (indipendentemente dall’essere o meno configurabile e risarcibile un autonomo e distinto danno all’immagine della società). Nessun dubbio quindi sulla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti in un’ipotesi siffatta e se ne trae conferma dal disposto della L. 3 agosto 2009, n. 102, art. 17, comma 30 ter (quale risulta dopo le modifiche apportate dal D.L. in pari data, n. 103, convertito con ulteriori modificazioni nella L. 3 ottobre 2009, n. 141), che disciplina e limita le modalità dell’azione della magistratura contabile appunto in caso di danno all’immagine, nelle ipotesi previste dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 7, ossia in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nel precedente art. 3 della stessa legge, compresi quelli "di enti a prevalente partecipazione pubblica". Non si vede come la medesima regola stabilita per i dipendenti non debba valere anche per gli amministratori e gli organi di controllo della società a partecipazione pubblica.

Ad opposta soluzione deve invece pervenirsi allorché, come nella concreta fattispecie oggetto di causa, l’azione sia proposta per reagire ad un danno cagionato al solo patrimonio della società. Non solo, come detto, non è configurabile un rapporto di servizio tra l’ente pubblico partecipante e l’amministratore o componente dell’organo di controllo della società partecipata, il cui patrimonio sia stato leso dall’atto di mala qestio, ma neppure sussiste un danno qualificabile come danno erariale, inteso come pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della indicata società sia socio. La ben nota distinzione tra personalità giuridica della società di capitali e soggettività dei singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell’una rispetto agli altri non consentono di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno che l’illegittimo comportamento degli organi sociali abbia arrecato al patrimonio dell’ente societario, cheè e resta privato. E’ certo vero che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro quota di partecipazione, ma, fatte salve le limitate eccezioni oggi introdotte dall’art. 2497 c.c. come modificato dal D.Lgs. n. 6 del 2003, in tema di responsabilità dell’ente posto a capo di un gruppo di imprese societarie, che qui non rileva ai fini della presente causa, il sistema del diritto societario impone di tenere ben distinti i danni direttamente arrecati al patrimonio del socio o del terzo, da quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società.

Dei danni diretti, cioé di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico – patrimoniale del socio e che non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il socio stesso è legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il risarcimento, di modo che, per il socio, anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui si è prodotto il suo pregiudizio (principio pacifico: si vedano, tra altre, Cass. 5 agosto 2008 n. 21130, 3 aprile 2007 n. 8359, 27 giugno 1998 n. 6364 e 28 febbraio 1998 n. 2251).

Si capisce allora come il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale, quale è quello oggetto della presente controversia, nel sistema del codice civile, può dar vita all’azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, ma è inidoneo a configurare anche un’azione soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti, perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo a singoli soci – pubblici o privati – i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originari conferimenti restano confusi ed assorbiti nell’unico patrimonio sociale.

L’esattezza di tale conclusione è confermata anche dalla impossibilità di realizzare, altrimenti, un soddisfacente coordinamento sistematico tra l’ipotizzata azione di responsabilità dinanzi al giudice contabile e l’esercizio delle surriferite azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice civile.

L’azione del procuratore contabile ha presupposti e caratteri completamente diversi dalle azioni di responsabilità sociale e dei creditori sociali, previste dal codice civile; basta dire che l’una è obbligatoria, le altre discrezionali, l’una ha finalità essenzialmente sanzionatoria, onde non implica necessariamente il ristoro completo del pregiudizio subito dal patrimonio danneggiato dalla cattiva gestione dell’amministratore e dallo omesso controllo dell’organo di vigilanza, le altre hanno scopo ripristinatorio, l’una richiede il dolo o la colpa grave e solo in determinati casi può esercitarsi anche contro gli eredi del soggetto responsabile del danno e per le altre è sufficiente anche la colpa lieve e il debito risarcitorio è trasmissibile comunque agli eredi del responsabile.

D’altronde, almeno nei casi in cui vi siano anche soci privati, la cui partecipazione è suscettibile di subire danno per effetto del comportamento illegittimo degli organi sociali, sarebbe impossibile escludere la esperibilità degli ordinari strumenti di tutela approntati dal codice civile a beneficio della società e dei detti soci nonché eventualmente dei creditori e, ove si ipotizzasse il possibile concorso tra l’azione del procuratore contabile e quella sociale di responsabilità contemplata dal codice civile, occorrerebbe poter individuare il modo di disciplinare tale concorso, per la descritta diversità delle rispettive caratteristiche delle differenti azioni. L’assenza del benché minimo abbozzo di coordinamento normativo in proposito rende palese la non configurabilità, in simili situazioni, di un’azione diversa da quelle previste dal codice civile, che sia destinata a ricadere nella giurisdizione del giudice speciale.

2.4. Giova ancora aggiungere che l’esclusione dell’ipotizzata giurisdizione del giudice contabile per l’azione di risarcimento di danni cagionati al patrimonio della società partecipata da un ente pubblico neppure provoca, a ben vedere, il rischio di una lacuna nella tutela dell’interesse pubblico coinvolto nella descritta situazione.

Nell’attuale disciplina della società azionaria (ed in misura ancora maggiore in quella in tale sede irrilevante della società a responsabilità limitata), l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, in caso di mala qestio imputabile agli organi della società, nonè più monopolio dell’assemblea e non è rimessa unicamente alla discrezionalità della maggioranza dei soci. Una minoranza qualificata dei partecipanti alla società azionaria (art. 2393 bis c.c.) e addirittura ciascun singolo socio della società a responsabilità limitata (art. 2476 c.c., comma 3) sono infatti legittimati ad esercitare tale azione, anche nel proprio interesse ma a beneficio della società, eventualmente sopperendo all’inerzia della maggioranza. Ne consegue che, trattandosi di società a partecipazione pubblica, il socio pubblico è di regola in grado di tutelare egli stesso i propri interessi sociali mediante l’esercizio delle suindicate azioni civili.

Se ciò non faccia e se, in conseguenza di tale omissione, l’ente pubblico abbia a subire un pregiudizio derivante dalla perdita di valore della partecipazione, è sicuramente prospettabile l’azione del procuratore contabile nei confronti, non già dell’amministratore della società partecipata per il danno al patrimonio sociale, bensì degli organi dell’ente partecipante o dei titolari del potere di decidere per esso, che abbiano colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio ed abbiano pregiudicato il valore della partecipazione, azione che, nel caso, come meglio verrà precisato, è stata già esercitata dinanzi alla Corte dei conti a carico degli amministratori dell’E.N.C.C., in ordine alla cui responsabilità è incontestata la giurisdizione del giudice speciale.

2.5. Nella concreta fattispecie nessuno ha mai affermato che l’azione oggetto di causa, iniziata dal liquidatore della società a partecipazione pubblica cui è subentrato, dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza, l’assuntore del concordato, è stata proposta ai sensi dell’art. 2395 c.c. per danni al socio ente pubblico, essendosi in questa causa domandati incontestatamente i danni ai sensi degli artt. 2392 e 2393 c.c. cui fa espresso riferimento l’atto introduttivo di essa, che richiama pure l’art. 2394 c.c. con azione in favore dei creditori sociali, che gli amministratori convenuti hanno in appello negato essere stata prospettata; la regola di riparto sopra richiamata impone quindi di dichiarare la giurisdizione sulla domanda del giudice ordinario, mancando una norma che, per l’art. 103 Cost., consenta di affermare la giurisdizione del giudice speciale. Ciò è confermato dal fatto che lo stesso ricorrente principale mai ha affermato nel merito che quella in concreto esercitata è stata un’azione ai sensi dell’art. 2395 c.c. del socio pubblico che ha conferito quasi l’intero capitale sociale, per danno da esso subito, circostanza che da sola esclude la fondatezza dei primi due motivi di ricorso dell’A.E..

E’ ininfluente infatti la questione di cui al primo motivo della applicabilità della L. n. 20 del 1994, art. 1 e il primo motivo di ricorso dell’A.E. è quindi infondato; invero la sentenza di merito ha negato detta applicabilità della norma non solo perché oggetto di causa è una responsabilità derivata da fatti anteriori all’entrata in vigore di essa (comma 4), ma anche in quanto la società azionaria il cui liquidatore ha agito per i danni subiti al patrimonio sociale, pur se in liquidazione coatta amministrativa, è soggetta alle regole del diritto privato proprie di ogni società in tale stato.

Pure il secondo motivo del ricorso principale va respinto perché la S.I.V.A. s.p.a., a partecipazione totalitaria dell’E.N.C.C. (ente pubblico non economico), non doveva soddisfare bisogni di carattere generale o espletare servizi pubblici ma svolgeva "attività industriale e commerciale inerente al settore della cellulosa, delle paste per carte e delle carte", come chiarito testualmente dallo statuto riportato dalla sentenza d’appello. Non poteva quindi qualificarsi la S.I.V.A. s.p.a., per le finalità di lucro che la caratterizzavano di natura commerciale, organismo di diritto pubblico, né era un’impresa pubblica perché la sua attività non era diretta ad espletare un servizio pubblico (su tali soggetti pubblici, anche in forma societaria cfr. S.U. ord. 16 aprile 2009 n. 8996, 7 ottobre 2008 n. 24722, 23 aprile 2008 n. 10443 e 8 giugno 2007 n. 13398.

In rapporto agli altri ricorsi da dichiarare inaminissibili per il rilevato giudicato implicito, nessuno degli argomenti diversi da quelli proposti dall’A.E., valutabili da questa Corte, può dar luogo ad una soluzione diversa della questione. Il M.M. nel primo motivo del suo ricorso, contraddittoriamente, estende la giurisdizione della Corte dei conti alle ipotesi in cui l’azionista abbia natura di ente pubblico economico, come a suo avviso non è però l’E.N.C.C., nessun rilievo avendo la dedotta insufficiente motivazione sul collegamento tra la presente causa e lazione iniziata dal procuratore presso la Corte dei conti, dinanzi a quest’ultima.

Come già detto sopra, per l’inerzia degli organi dell’E.N.C.C. azionista della società, si è svolto un giudizio dinanzi alla Corte dei conti, chiuso da sentenza assolutoria, non passata ancora in giudicato perché appellata (C. Conti 1 marzo 2001 n. 41), così confermandosi la possibile concorrenza delle due azioni contabile e civile sopra evidenziata, in rapporto rispettivamente al danno erariale e a quello al patrimonio sociale oggetto dei due distinti giudizi.

In ordine al ricorso del D.C.G., nessuno degli argomenti di cui ai motivi dello stesso si distacca da quelli che precedono della infondata impugnazione principale, potendosi solo rilevare che non vi sono dati normativi che consentano di individuare poteri autoritativi esercitati dalla s.p.a. S.I.V.A. come deduce tale parte, essendosi già data risposta negativa circa la natura di organismo di diritto pubblico o di impresa pubblica della societa danneggiata dalla mala gestio dei ricorrenti, natura su cui nel loro ricorso insistono le eredi di L.C.. Altrettanto deve dirsi delle affermazioni di cui al ricorso del T.F., che presuppone un inesistente rapporto di servizio degli amministratori con l’ente pubblico che li ha nominati; il P.M. prospetta di nuovo erroneamente la denegata natura di impresa pubblica della società S.I.V.A..

La domanda del liquidatore della società fonda il dissesto di questa su "singoli comportamenti di indotta o derivata leggerezza nel perseguire il rispetto dei corretti criteri che comunque devono soprassedere allo esercizio di attività imprenditoriali"; non è quindi erariale il "danno complessivo cagionato alla società" dai suoi amministratori che, con la loro condotta, hanno determinato la dichiarazione dello "stato d’insolvenza con sentenza del 12 ottobre 1994 n. 1196, pronunciata dal Tribunale fallimentare di Roma" (le parole virgolettate sono in citazione). In quanto poi la tutela domandata consiste nel risarcimento delle perdite e dei mancati guadagni subiti dalla società, che ne hanno determinato lo stato di insolvenza per lo scopo di lucro che la caratterizzava, (la Corte d’appello rileva che per statuto gli utili andavano distribuiti ai soci), la presente è un’azione tipica delle procedure concorsuali (L. Fall., art. 206 e art. 2394 bis c.c.), esercitata pure in favore della massa dei creditori e su essa di certo non può pronunciarsi la Corte dei conti. Pertanto la domanda rilevante ai sensi dell’art. 386 c.p.c. per accertare la giurisdizione consiste in una azione concorsuale regolata dalla legge fallimentare e dal codice civile, con norme per le quali le azioni di responsabilità del liquidatore di società in l.c.a. e in stato di insolvenza nei confronti degli amministratori di società in detto stato, sono, per il rinvio operato dalla l. Fall., art. 206, quelle di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., a base della presente azione nell’atto introduttivo, notificato quando ancora non era in vigore l’art. 2394 bis c.c.. Deve quindi applicarsi il seguente principio di diritto: "In caso di azione risarcitoria per danni arrecati al patrimonio sociale dalla cattiva gestione degli amministratori di società a dominanza pubblica, che non siano organismi di diritto pubblico o imprese pubbliche in forma societaria, la giurisdizione compete di regola al giudice ordinario, potendo quello speciale pronunciarsi sul solo danno erariale, cioé quello subito dal socio pubblico al suo patrimonio, risarcibile in sede civile ai sensi dell’art. 2395 c.c., potendosi esclusivamente tali pregiudizi direttamente incidenti sul patrimonio del socio, qualificarsi erariali e fonte della responsabilità da accertare con lo speciale procedimento, su iniziativa del procuratore presso la Corte dei conti, dinanzi a quest’ultima". 3. La questione preliminare di merito della legittimazione sostanziale attiva dell’E.N.C.C, prospettata in piu ricorsi.

Superata la pregiudiziale sulla giurisdizione, va esaminata la questione della legittimazione ad agire dell’ente che nel presente giudizio è interviene quale assuntore del concordato.

3.1. L’undicesimo motivo del ricorso principale di A.E. deduce infatti il difetto di legittimazione attiva dell’E.N.C.C. nella presente azione di responsabilità contro amministratori e sindaci della società, perché esso, pur essendo assuntore del concordato, è anche socio totalitario della S.I.V.A. s.p.a. e non può qualificarsi "terzo" che acquisisce il patrimonio societario, subentrando nei debiti della società di cui è in sostanza comunque creditore.

Per quesito di diritto a conclusione del motivo occorre quindi accertare "se il socio totalitario di una s.p.a., ammessa a concordato preventivo, il quale diventi assuntore del concordato, sia legittimato ad agire verso gli amministratori e, in caso di risposta positiva alla prima domanda, se a lui siano opponibili le eccezioni che si sarebbero potute proporre contro i soci, ritenute nel merito inammissibili, dovendosi negare la stessa legittimazione ad agire per danni alla società, in quanto l’ente avrebbe dovuto domandare tale risarcimento solo come creditore". Con il dodicesimo motivo del ricorso principale si lamenta pure la motivazione contraddittoria in ordine alla qualità in cui agisce nella fattispecie l’E.N.C.C., considerato successore a titolo particolare della società in liquidazione e in stato di insolvenza, quale assuntore del concordato, pur potendo gli amministratori della società agire in regresso contro di lui, per avere eseguito solo e sempre le sue direttive, con la conseguenza che l’ente viene sgravato di responsabilità, anche se in altro giudizio può poi rispondere degli stessi danni già posti a carico dei condannati in questa sede.

3.2. Analoga questione è posta dai ricorrenti incidentali D.C. G., dagli eredi di L.C., e dal T.F., per i rapporti dell’E.N.C.C., unico azionista della s.p.a. S.I.V.A., con tale società, in ogni fase della vita di questa.

Il D.C.G. denuncia insufficiente motivazione sulla terzietà dell’E.N.C.C., titolare del 99,99% delle azioni della società, e soggetto che può rispondere in proprio e quale amministratore di fatto dei comportamenti addebitati in via esclusiva ai condannati in questa sede; le eredi di L.C. deducono carenze motivazionali della sentenza, sul punto dei vantaggi compensativi derivati dalle condotte degli amministratori all’E.N.C.C., da ritenere capo gruppo delle varie socieà strumentali alla sua azione pubblica, tra cui è quella amministrata dal de cuius.

Contesta la legittimazione sostanziale ad agire dell’E.N.C.C. il T.F., denunciando violazione degli artt. 81, 100, 111 e 303 c.p.c., per avere l’ente esdebitato la S.I.V.A. con il concordato assunto, senza consenso dei creditori, ponendo alla Corte il seguente quesito: "se l’assuntore di concordato fallimentare, in mancanza di liberazione del fallito, sia legittimato ad agire e/o a intervenire nel processo promosso dal curatore del fallito, fondato sulla domanda di risarcimento contro amministratori e sindaci della società già in bonis ex art. 2392 c.c.". 4. La legittimazione ad agire è fondata sulle azioni acquisite con il concordato dall’assuntore di esso (L. Fall., art. 146). In rapporto alla legittimazione attiva, la eventuale risposta positiva al quesito di diritto posto dall’A., secondo il quale l’E.N.C.C., socio totalitario della s.p.a. S.I.V.A. sarebbe legittimato ad agire come creditore e non come terzo assuntore del concordato, non può che avere risposta negativa, date le considerazioni svolte più sopra per le quali va rilevato che l’azione oggetto di causa, è svolta pure nell’interesse dei creditori ai sensi dell’art. 2394 c.c. e rientra nelle azioni "concorsuali" di cui all’art. 2394 bis c.c., non essendo volta a reintegrare perdite e mancati guadagni del socio, ai sensi dell’art. 2395 c.c., ed avendo ad oggetto il danno diretto subito dal patrimonio della società insolvente e alla massa dei creditori e non quello ai beni dell’ente pubblico azionista. Nessuna identità vi è, come detto, tra il socio e la persona giuridica costituita da una società di capitali soggetta a procedura concorsuale (Cass. 4 febbraio 2009 n. 2706) né alcuna esdebitazione si è verificata per la società in danno dell’unico pubblico azionista, in quanto l’E.N.C.C., nella qualità di assuntore del concordato e non di socio, è intervenuto nella causa di recupero danni alla società (Cass. 4 febbraio 2009 n. 2711, 2 novembre 2008 n. 27013 e 8 febbraio 2005 n. 2532). La qualifica dall’ente pubblico di assuntore del concordato preventivo della società in stato di insolvenza, comporta la successione a titolo particolare di esso all’originario attore, cioé al liquidatore in rappresentanza della massa dei creditori, come chiarito esattamente già dalla sentenza di merito (pagg. 22 e 23 sentenza impugnata), essendo esso intervenuto in giudizio in tale qualità, che lo legittima a pretendere i danni richiesti, garantendo con fondi ad esso attribuiti all’uopo dalla legge il pagamento degli altri creditori.

Non sono ammissibili, in questa sede, perché irrilevanti le questioni proposte dalle eredi di L.C. sulla esistenza di un gruppo di società collegate controllato dall’E.N.C.C., tra le quali sarebbe la S.I.V.A. e quella dell’accettazione dai terzi creditori della detta assunzione del concordato.

Sulla prima questione, la sentenza di merito ha chiarito che la peculiare posizione di assuntore del concordato dell’E.N.C.C, esclude ogni rilievo dell’incidenza dell’azione di questo quale socio che non vi è stata, considerato che esso non è in giudizio in tale veste e la questione della sua incidenza sulle scelte gestionali antieconomiche non può essere oggetto di esame, potendo logicamente essere invece valutata e decisa in una futura azione di regresso o rivalsa degli amministratori condannati nei confronti dell’avente causa del socio pubblico dominante. Tale azione è liberamente esercitabile senza preclusioni di sorta, in quanto non vi è un giudicato tra il socio pubblico e gli amministratori, in ragione della speciale qualità in cui ha agito nella fattispecie l’ente cellulosa; in ordine alla mancata approvazione dai creditori dell’assunzione del concordato della stessa, non vi è cenno alla questione in sentenza e il motivo di ricorso ad essa relativo non è quindi autosufficiente nell’indicare gli "atti processuali" relativi al problema ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 ed è pertanto inammissibile. La eventuale azione di regresso o rivalsa dei gestori della società, impedita espressamente in questa sede dalla non consentita chiamata in causa dell’ente pubblico come responsabile anche in concorso dei danni alla società, per i suoi rilevanti poteri sui gestori di essa da tale ente nominati e revocati con probabile incidenza delle sue disposizioni sulle scelte gestionali e di concorso nella responsabilità per i danni arrecati dalla esecuzione delle stesse, potrà essere oggetto di accertamento in un futuro separato giudizio, non precluso perché in quest’ultimo il rapporto controverso sarà solo quello tra gestori e socio pubblico o suoi aventi causa, che in questa sede non ha avuto rilievo alcuno per le indicate ragioni. L’E.N.C.C., come esattamente affermato nel merito, in questa sede non agisce in veste di socio quasi totalitario della S.I.V.A.. ma come successore del commissario liquidatore e della società in stato d’insolvenza, sostituendosi legittimamente alla massa dei creditori, unica legittimata alle azioni in concreto esercitate, avendo esso, come assuntore del concordato, fruito di appositi stanziamenti pubblici previsti per legge per detta assunzione, che hanno consentito ad esso di sostituirsi al commissario attore e di agire nell’interesse della massa.

Gli amministratori, cui – come poi si vedrà – si è legittimamente negata la chiamata in causa del socio pubblico a titolo di regresso o rivalsa, potranno in seguito eventualmente esercitare tali azioni in ragione delle condanne subite in questa sede, che costituiranno la causa petendi a base delle loro domande, non avendo rilievo di giudicato le statuizioni emesse in questa causa, nella quale non era parte il destinatario della richiesta di cui alla mancata chiamata in causa.

L’eccezione come proposta del difetto di legittimazione dell’E.N.C.C. e del Ministero suo avente causa attiene ai rapporti tra amministratori della società e socio pubblico, che non sono stati oggetto, per le ragioni esposte, di questa causa, in cui rilevano i soli rapporti dei danneggianti con la società e l’assuntore del concordato, legittimato ad agire quale terzo avente causa dell’originario attore e dei soggetti allo stesso subentrati, cioé alla massa dei creditori. Devono quindi rigettarsi i ricorsi sulla legittimazione dellente pubblico di cui sopra, proposti dall’ A. E. e dai ricorrenti incidentali D.C.G., eredi di L. C. e T.F., confermando sul punto la sentenza impugnata.

4. Motivi dei ricorsi relativi a violazioni di norme processuali.

4.1. Il secondo motivo del ricorso principale e l’impugnazione del D.C.G. denunciano il difetto di legittimazione processuale del difensore dell’E.N.C.C. nella riassunzione, ad opera di questo ente, del giudizio di merito, successiva alla data in cui il commissario che aveva conferito la procura era decaduto dai suoi poteri per il decorso del termine, entro cui l’ente doveva essere liquidato, in violazione del D.L. 17 giugno 1996, n. 321, art. 6 convertito in L. 8 agosto 1996, n. 421, della L. n. 448 del 1998, art. 45, comma 26, della L. n. 112 del 2002, art. 9, comma 1 bis e dell’art. 75 c.p.c., con nullità conseguente del processo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

La procura rilasciata dal commissario dell’E.N.C.C. allavv. Brancadoro, mentre era in corso la liquidazione, per i ricorrenti era divenuta inefficace alla data in cui la causa è stata riassunta, perché il conferente di essa aveva già perso ogni potere di stare in giudizio, per essere cessate tutte le attività dell’E.N.C.C, al 31 dicembre 1999, termine di chiusura della gestione liquidatoria.

La Corte d’appello afferma la ultrattività dei poteri del commissario traferiti al Ministro solo in data 4 maggio 2000, per cui a febbraio 2000, il difensore era legittimato a riassumere il processo, in base ai sussistenti poteri conferitigli. Poiché il termine di un anno era perentorio, per il citato D.L. n. 321 del 1996, art. 6 e non era fissato per il mero deposito del rendiconto, come sembra ritenere la Corte di merito, la procura del commissario non poteva essere sanata dalla tardiva avocazione dei poteri da parte del Ministero, a maggio 2000, e quest’ultimo, di conseguenza, poteva essere difeso solo dalla Avvocatura erariale per la ripresa del processo e la necessaria comparsa di riassunzione della causa.

Il quesito chiede alla Corte di affermare se, "scaduto il termine di legge per presentare il rendiconto, di cui alle norme indicate, il commissario liquidatore perda tutti i suoi poteri e diventino quindi inefficaci le procure da lui rilasciate in precedenza al difensore, con conseguente nullità di ogni atto di questo e, nella fattispecie concreta, dell’atto di riassunzione posto in essere successivamente a detto termine". Su tale punto, afferma il controricorrente Ministero, che la Corte d’appello ha rilevato la tardività in primo grado dell’eccezione di estinzione del processo per mancata tempestiva riassunzione, da proporre nella prima difesa successiva alla ripresa della causa, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 307 c.p.c., nella versione anteriore alla L. 18 giugno 2009, n. 69. 4.2. In terzo luogo, l’Amato deduce falsa applicazione degli artt. 106 e 269 c.p.c., anche per motivazione perplessa, illogica e contraddittoria, con nullità del procedimento, contrastante con le norme citate e violativo del diritto di difesa, in rapporto allart. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5.

La novella della L. n. 353 del 1990 esclude ogni discrezionalità dell’istruttore, tenuto a fissare con decreto l’udienza di rinvio chiesta dai convenuti per chiamare in causa i terzi, cioé nel caso i precedenti amministratori e l’E.N.C.C., per essere manlevati dagli eventuali effetti negativi della causa, con nullità del processo proseguito senza tale evocazione. Si chiede quindi alla Corte di "rilevare la illegittimità del rigetto della richiesta dell’Amato di chiamata in causa del terzo e le carenze motivazionali di tale statuizione, non sussistendo discrezionalità del giudice sull’estensione del contraddittorio ai sensi dell’art. 269 c.p.c. novellato, con conseguente nullità della sentenza impugnata per effetto della invalidità della decisione di primo grado violativa del principio di unicità e economicità del giudizio".

Identica censura è posta nei ricorsi incidentali del D.C.G. (quinto motivo), delle eredi di L.C. (terzo motivo) e del P.M. (secondo motivo); solo per la eventuale chiamata in causa dell’attore, dopo la riconvenzionale del convenuto, è prevista l’autorizzazione dell’istruttore, che invece non ha alcuna discrezionalità sulla stessa richiesta del convenuto. Replica il controricorrente Ministero che il potere di separare le cause in caso di litisconsorzio facoltativo, consente comunque al giudice istruttore di denegare la fissazione di un’udienza per consentire la chiamata.

4.3. Il quarto motivo di ricorso principale censura la sentenza anche per violazione degli artt. 304 e 298 c.p.c., con conseguente nullità dell’attività del c.t.u..

Il prof. T.O., nominato c.t.u. in primo grado, ha depositato la sua relazione il 17 agosto 2000, nella fase del processo in cui ancora durava l’interruzione dichiarata il 12 ottobre 1999 e prima che il processo fosse riassunto; la Corte di merito distingue l’attività del suo ausiliare nella fase cognitiva o di indagine sui fatti oggetto di causa e nell’altra invece rielaborativa o intellettuale, ascrivendo a quest’ultima la attività dell’ausiliare per il deposito della relazione. Anche in tale fase, secondo l’A.E., le parti hanno interesse a depositare memorie e scritti difensivi, con attività impedita nel caso dall’interruzione, per cui deve ritenersi illegittima la prosecuzione dell’attività dell’ausiliare nel caso. Il quesito conclusivo chiede di accertare "se le operazioni peritali possono proseguire durante l’interruzione del processo, chiarendo il momento discretivo tra fase di cognizione o di indagine cui partecipano le parti e fase elaborativa della relazione, riservata al solo consulente, per escludere la lesione del diritto di difesa in quest’ultima parte del suo lavoro". Identiche censure sono proposte nel quinto motivo di ricorso del D.C.G. e nel terzo di quello delle eredi L.; a tali impugnazioni, il Ministero replica deducendo che nessuna prova si è data dai ricorrenti di attività del c.t.u. nella fase d’interruzione, lesiva dei loro diritti di difesa, tale non potendo ritenersi il mero atto del deposito della relazione.

4.4. Esclusivamente nell’interesse dell’ A.E. è il quinto motivo del ricorso principale, di natura anche esso processuale, che lamenta il rigetto, dalla Corte di appello, dell’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per avere deciso la causa, affermando in motivazione che non si era rinvenuta in atti la comparsa di risposta di tale parte, rifacendosi quindi a quella depositata dopo la riassunzione, che richiamava l’atto iniziale, in violazione degli artt. 165, 166 e 169 c.p.c., degli artt. 74 e 75 disp. att. c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Invece di disporre le ricerche e l’eventuale ricostruzione dei documenti smarriti, il giudice ha deciso la causa, presumendo l’identità della originaria comparsa di costituzione con quella di ripresa del processo dopo la riassunzione, in violazione delle norme di cui sopra e degli artt. 24 e 111 Cost..

Il quesito chiede di affermare che "in caso di mancato rinvenimento di un atto di parte, il giudice ha l’obbligo, prima di decidere, di disporre le ricerche di tale atto o la sua ricostruzione in contraddittorio e, in mancanza di tali attività, la sentenza pronunciata senza l’atto smarrito deve essere dichiarata nulla".

Rileva il Ministero che il motivo è inammissibile non precisando quali eccezioni e difese, della mancante comparsa di risposta dell’A.E., non sono state esaminate dai giudici del merito.

5. Non c’è lesione del diritto di difesa o dei principi del giusto processo nelle violazioni denunciate e in qualche caso non sussiste l’interesse alla denuncia.

5.1. In rapporto ai vizi processuali connessi alla riassunzione del processo dal difensore dell’E.N.C.C., dopo la perdita della legittimazione processuale del commissario e per essere venuti meno i poteri conferiti con la procura dall’ente ormai estinto, dedotti dall’A.E. in via principale (secondo motivo) e dal D.C. G. incidentalmente, i relativi motivi sono inammissibili, perché censurano una sola delle due rationes decidendi sulla questione adottate dalla Corte d’appello.

Quest’ultima, se ha rilevato che nel caso non era venuto meno il potere del difensore al momento della notifica del ricorso in riassunzione, come deducono i ricorrenti, ha preliminarmente osservato che l’eventuale mancata tempestiva riassunzione della causa dedotta come effetto della carente legittimazione processuale, doveva essere eccepita come prima difesa all’atto della ripresa del processo per determinarne l’estinzione ai sensi dell’art. 307 c.p.c., per cui il relativo motivo d’appello era inammissibile perché tardivo.

Per tale profilo nessuna censura e stata prospettata in questa sede e quindi la statuizione di cui sopra resta ferma, con preclusione di ogni altra impugnazione relativa ad essa per difetto di interesse, nessun effetto potendosi produrre diverso o maggiore dell’estinzione per la eventuale riassunzione nulla (S.U. 20 febbraio 2007 n. 3840, Cass. 19 novembre 2007 n. 23931, 11 gennaio 2007 n. 13070, 18 settembre 2006 n. 20118, tra altre).

5.2. In rapporto alla mancata concessione dell’udienza chiesta dai convenuti, per chiamare in causa i terzi corresponsabili dei danni verso i quali intendevano agire in regresso, le censure dell’A. E., del D.C.G., delle eredi di L.C. e del P.M. sono infondate e da rigettare, senza violazione dei principi del giusto processo, potendo tali parti, per le ragioni indicate al punto 3, agire successivamente a tutela delle loro posizioni soggettive direttamente nei confronti degli aventi causa dell’E.N.C.C. per l’accertamento della responsabilità di questo nelle condotte loro imputate.

Se la prevalente dottrina afferma che, allorché la chiamata in causa sia chiesta con la comparsa di risposta dal convenuto prima dell’udienza di trattazione ai sensi dell’art. 269 c.p.c., il giudice e tenuto a fissare una nuova udienza, la norma che sostituisce la precedente disciplina per la quale il convenuto poteva direttamente evocare in causa il terzo alla prima udienza, non può non inserirsi nel sistema introduttivo del processo, per il quale, al di fuori del litisconsorzio necessario di cui all’art. 102 c.p.c., resta discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova prima udienza per la chiamata, come questa Corte ha già affermato in rapporto all’art. 420 c.p.c., comma 9, richiamato anche nella sentenza di merito (Cass. 25 agosto 2006 n. 18508, 28 agosto 2004 n. 17218). Il novellato art. 269 c.p.c. è stato introdotto per porre un termine perentorio di ammissibilità alla richiesta di chiamata del terzo da parte del convenuto (Cass. 24 aprile 2008 n. 10682 e 11 gennaio 2008 n. 393), restando ferma la natura di regola facoltativa del litisconsorzio nelle obbligazioni solidali e mancando l’esigenza di trattare unitariamente le domande di condanna introduttive della causa con quelle di manleva dei convenuti (Cass. 21 novembre 2008 n. 27856 e 10 marzo 2006 n. 5444), con conseguente separabilità dei due processi, non diversa da quella consentita anche prima della novella del 1990, ex art. 103 c.p.c., che comporta la scindibilità delle cause pure ai fini delle impugnazioni delle parti (art. 332 c.p.c.) Il giudice cui sia tempestivamente chiesta dal convenuto la chiamata in causa, in manleva o in regresso, del terzo, può quindi rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo, come accaduto nel caso, motivando la trattazione separata delle cause per ragioni di economia processuale e per motivi di ragionevole durata del processo intrinseci ad ogni sua scelta, dopo la novella dell’art. 111 Cost. del 1999; pertanto il motivo di ricorso che denuncia la violazione dell’art. 269 c.p.c. novellato dalla L. n. 353 del 1990, deve rigettarsi perché infondato.

5.3. Inammissibili sono poi le censure, relative alla pretesa nullità della relazione del c.t.u., dell’ A.E., del D.C. G. e delle eredi L., per difetto di interesse, mancante anche nel quinto motivo del ricorso principale che, come si è detto, riguarda il solo A.E., perché relativo alla mancanza in atti di una delle due comparse di risposta andata smarrita, al momento della decisione.

Per entrambe tali impugnazioni non risulta quale utilità pratica deriverebbe ai ricorrenti dall’eventuale riconoscimento del vizio processuale, non indicandosi, nei motivi di ricorso, quali danni al contraddittorio e al loro diritto di difesa siano derivati dalle dette carenze processuali e, in particolare, quali deduzioni tecniche non si siano potute proporre all’esame del c.t.u. per il deposito della relazione conclusiva di questo nella fase di interruzione del processo, e quali difese contenute nella prima comparsa di risposta andata smarrita, non siano state esaurientemente esaminate dal tribunale, in violazione dei diritti del ricorrente.

L’eventuale accoglimento delle censure, nel detto contesto, in nessun caso potrebbe dar luogo a nuove indagini del c.t.u. o ad una decisione diversa da quella di primo grado, comunque riguardante tutte le difese proposte dal ‘A.E. (sull’interesse al ricorso, pure nella denuncia di violazioni di legge, cfr. Cass. 10 novembre 2008 n. 2692 e 23 maggio 2008 n. 13373).

6. Le questioni di merito.

I ricorsi sulle questioni di merito sono proposti per dedurre che la Corte d’appello ha valutato domande mai proposte, con errata lettura degli atti del processo e in ordine alla decisione sul riconoscimento della responsabilità degli amministratori, indimostrata, e sulla liquidazione dei danni, eccessiva.

6.1. Con i motivi dal sesto al decimo del ricorso principale, sono poste varie questioni sulla natura dell’azione di responsabilità esercitata, che la Corte di merito ha affermato non essere solo nell’interesse della società ma anche dei creditori, in applicazione degli artt. 2393 e 2394 c.c. e dei due diversi regimi di tali norme sulle azioni contro gli amministratori, in quanto mai si sarebbe esercitata l’azione di responsabilità di costoro in favore dei creditori.

Il settimo motivo di ricorso lamenta violazione degli artt. 99, 101 e 112 c.p.c., del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di quello del contraddittorio basato sulla domanda: pur richiamando la domanda i soli artt. 2392, 2393 e 2407 c.c. (quest’ultimo relativo ai sindaci), i giudici di merito hanno affermato che l’azione sarebbe stata proposta pure ai sensi dell’art. 2394 c.c. citato nell’atto introduttivo con la indicazione d’una sentenza di merito che ad esso aveva fatto riferimento, in assenza d’ogni altro cenno alla domanda di cui a tale ultima norma, con extrapetizione della pronuncia, denunciata con il quesito ex art. 366 bis c.p.c. che chiede di dichiarare: "la nullitàa della sentenza che pronuncia sulla responsabilità degli amministratori della società ai sensi dell’art. 2394 c.c. pur essendo la domanda limitata alle responsabilità di cui agli artt. 2392 e 2393 c.c. con conseguente violazione dei principi che precedono". L’ A.E. lamenta pure violazione dell’art. 183 c.p.c. con riferimento agli artt. 2393 e 2394 c.c. e inammissibilità della domanda ai sensi di quest’ultima norma sostanziale, perché nuova, integrando l’azione di danno verso i creditori sociali una mutatio libelli rispetto a quella per i danni alla società. Il quesito conclusivo chiede a questa Corte se "l’ampliamento della domanda oltre la responsabilità di cui allart. 2393 c.c. fino a quella oggetto dell’art. 2394 c.c. costituisca una modificazione dell’oggetto della domanda stessa da qualificare come nuova e inammissibile".

Denuncia extrapetizione della sentenza di merito nel senso che precede anche il ricorso del D.C.G., mentre riprende le ragioni della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e della extrapetizione della Corte di merito, l’impugnazione incidentale del P.F., secondo il quale la decisione di merito ha statuito su una responsabilità per la quale non vi era alcuna domanda, con allargamento del thema decidendi nella pronuncia impugnata.

6.2. Il nono e decimo motivo del ricorso di A.E. attengono ancora alla domanda di cui all’art. 2394 c.c. sia per il difetto di motivazione in ordine al rigetto dell’eccezione del ricorrente che denegava l’estensione della originaria domanda anche alla responsabilità verso i creditori sociali che in rapporto alla esistenza dei presupposti di applicabilità della norma. Il difetto di motivazione della sentenza della Corte d’appello, per la parte in cui ritiene che l’azione originaria riguardi pure la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali e dedotto, dopo avere riprodotto interamente il contenuto dell’atto di citazione.

Nell’appello si e affermato che nessuna domanda vi era stata ai sensi dell’art. 2394 c.c. e che la stessa non era proponibile neppure dagli interventori, perché la modifica soggettiva delle parti non incide sull’oggetto del processo, che erroneamente i giudici del merito hanno ritenuto sin dall’origine esteso alla responsabilità degli amministratori verso i creditori. In effetti, in citazione, vi e solo un elenco di danni arrecati alla società e non ai creditori, non avendo il liquidatore neppure accennato ad una insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare i creditori stessi, presupposto necessario per applicare l’art, 2394 c.c.; la sentenza d’appello quindi non e sufficientemente motivata nell’estendere l’azione anche alla responsabilità di cui a tale ultimo articolo.

Nel caso, anche se per finanziamenti pubblici erogati con leggi dello Stato, l’assuntore del concordato E.N.C.C, ha sempre coperto le perdite di bilancio e consentito la soddisfazione di tutti i creditori sociali, evitando il sopravvenire degli stessi presupposti di fatto dell’azione nell’interesse dei creditori, la cui prospettazione era quindi inammissibile.

Riprendono tale motivo di ricorso le eredi di L.C., rilevando l’assenza del presupposto di fatto per l’azione in favore dei creditori, essendo stato il patrimonio sociale sempre capiente a garanzia degli stessi, con mancanza della situazione di cui al secondo comma dell’art. 2394 c.c. e inammissibilità della domanda con il titolo indicato. Infine il P.F. collega ad un censura relativa all’art. 2394 c.c., in rapporto all’art. 2949 c.c., il sesto motivo del suo ricorso, per ribadire la sua eccezione di prescrizione, che la Corte d’appello ha erroneamente negato fosse stata proposta dinanzi al tribunale, anche se egli, nelle sue conclusioni, aveva rilevato che per i tempi in cui sera svolto il suo incarico alla S.I.V.A., l’azione era da ritenere per lui decaduta o prescritta. La Corte di merito fa risalire il dies a quo della prescrizione al momento in cui il patrimonio sociale e risultato incapiente a soddisfare i debiti che, a suo avviso, coincide con quello delle procedure concorsuali e che certamente e assai precedente ad esse, per cui, ad avviso del P.M., il risarcimento a lui addebitato in parte dovrebbe ritenersi prescritto e per altra parte, in ragione dell’interruzione della sua attività nella società, non gli dovrebbe essere attribuito.

In ordine alle azioni ai sensi degli artt. 2393 e 2394 c.c., il controricorrente Ministero, come già detto, afferma che il liquidatore della S.I.V.A. in l.c.a., ha in sostanza agito L. Fall., ex artt. 146 e 206; dalla citazione emergeva il presupposto dell’azione ex art 2394 c.c., cioé lo stato di insolvenza già dichiarato della società le cui passività furono estinte dall’assuntore del concordato per complessive L. 2.470.855.000.

6.4. Il tredicesimo motivo di ricorso dell’A.E. denega la responsabilità a lui attribuita per non avere recuperato crediti sociali, in quanto egli, come presidente della società, aveva dato mandato gli avvocati di agire e nessuna diversa condotta poteva tenere, non essendoci in diritto alcun reale suo potere di vigilanza sulla corretta gestione delle azioni che precedono. Si chiede con quesito ex art. 366 bis c.p.c., "se sia configurabile l’azione ai sensi dell’art. 2392 c.c. contro amministratori senza deleghe espresse per i danni conseguenti al mancato recupero crediti, quando vi siano soggetti all’uopo delegati e si siano affidate le pratiche di recupero a legali esterni alla società".

I ricorsi incidentali del M.M. (terzo e quarto motivo), del D.C.G. (ottavo motivo), del P.M. (motivo cinque) e del T.F. (motivi da tre a cinque), deducono analoghe censure.

Il M.M. richiama i rapporti tra E.N.C.C, e S.I.V.A. e denuncia insufficiente motivazione sulla sua condanna, in quanto egli eseguiva ordini e disposizioni del socio totalitario, non operando scelte gestionali, perché in condizioni di dipendenza sostanziale dall’Ente azionista, i cui comportamenti avevano determinato le perdite per le quali si era chiesta la condanna di lui, che aveva sempre agito in conformità a quanto disposto dal socio titolare quasi totalitario del patrimonio.

Il D.C.G. deduce che nessuna perdita e derivata da scelte del consiglio di amministrazione e che la sentenza e carente di sufficiente motivazione sulla responsabilità dei membri di esso. Il P.M., con il quinto motivo del suo ricorso, censura la insufficienza motivazionale della sentenza oggetto di ricorso, che gli attribuisce responsabilità per il generale andamento economico della società e non in rapporto a singole perdite o mancati guadagni attribuibili a condotte del ricorrente, con palese contraddittorietà della motivazione, che aveva in precedenza escluso la stessa configurabilità di una colpa generale per una condotta aspecifica degli amministratori. Infine il T.F. domanda a questa Corte di rilevare se un consigliere privo di delega, quale egli era, potesse essere responsabile di omessa vigilanza, in caso di decisione gestionale assunta da un consigliere delegato, non deliberata collegialmente dal consiglio di amministrazione, denunciando, per tale profilo, la medesima contradittorietà della sentenza di merito che, negati poteri generali di controllo, ha poi in sostanza condannato gli amministratori, per omesso esercizio di detti poteri.

6.5. Si lamenta ancora dall’ A.E., nel quattordicesimo motivo, la insufficiente motivazione della sentenza nell’avere imputato a lui condotte omissive e commissive, per avere continuato forniture a clienti già inadempienti verso la società e per la mancata esazione di crediti cambiari, senza rilevare che tali crediti, pur essendo in sofferenza, non erano insoluti quando egli lascio l”incarico di gestore della S.I.V.A., con la conseguenza che, del mancato recupero di essi, avrebbero dovuto rispondere solo gli organi subentrati nella gestione sociale, mentre nulla risulta rilevato nella sentenza impugnata su tale punto decisivo.

Si censura la sentenza impugnata pure per violazione dell’art. 2392 c.c. per avere sancito la responsabilità degli amministratori della S.I.V.A., sindacando in effetti loro scelte gestionali, senza valutare invece che, se i giudici potevano accertare le modalità con cui a tali scelte sera giunti, essi non potevano sostituirsi agli amministratori e sindaci nelle loro autonome scelte di gestione e controllo.

Il quesito conclusivo domanda alla Corte di affermare che "il giudice non può in alcun caso sindacare le scelte gestionali degli amministratori sotto il profilo della opportunità potendo vagliare solo eventuali violazioni di legge nelle modalità in cui, si e pervenuti a tali scelte, dovendo quindi, nel caso di specie in cui si sono invece valutate le scelte gestionali degli amministratori, annullare la sentenza affetta per tale valutazione da palese error iuris".

Anche i ricorrenti incidentali contestano l’attribuzione della responsabilità a loro carico, nella sostanziale carenza di poteri che caratterizzava le loro funzioni.

6.6. Gli ultimi due motivi del ricorso principale censurano la decisione di merito per difetti motivazionali in ordine alla mancata esclusione della responsabilità dell’ A.E., che era amministratore privo di deleghe (sedicesimo motivo) e per la parte in cui se liquidato il danno a lui attribuito, computandolo in misura maggiore del dovuto (ultimo motivo). La Corte d’appello afferma l’esistenza di un generico dovere di vigilanza di tutti i componenti il consiglio di amministrazione sulle scelte gestionali in base al previgente art. 2392 c.c. escludendo la responsabilità per i sindaci e negando un dovere generale di vigilanza per questi e imputando all’ A.E. la mancata azione contro un fideiussore per il credito garantito. Peraltro, in quanto privo di deleghe specifiche, l’ A. E. non poteva neppure rilevare il mancato inizio dell’azione esecutiva nei confronti del debitore inadempiente e nessuna responsabilità poteva imputarsi a lui per tale omessa vigilanza.

Nello stesso senso sono prospettati, in ordine all’attribuzione di responsabilità, i motivi di ricorso di cui al punto 6.4 e con l’ultimo motivo, l’ A.E. censura la sentenza che imputa agli amministratori di aver continuato a fornire carta e cellulosa a soggetti già inadempienti, con negligenza nello svolgimento del loro mandato, per la quale si sono addebitate le perdite conseguenti al ricorrente principale (cfr. pagg. 27 e 28 sentenza d’appello) in misura eccessiva.

Infatti, anche calcolando tutti i crediti non riscossi per condotte imputate all’ A.E., ad avviso di questo, si perviene ad una somma inferiore a quella liquidata nel merito per la quale ve stata condanna, da ridurre comunque perché erroneamente gli sono attribuite perdite a lui ritenute non ascrivibili in altre parti dalla stessa sentenza oggetto di ricorso.

Sulla liquidazione e quantificazione dei danni hanno proposto censure per carenze motivazionali della sentenza il M.M., che deduce di non avere potuto recuperare crediti per l’azione ostativa a tali cause dell’azionista di controllo E.N.C.C.; le eredi L. denunciano le carenze motivazionali in ordine alla liquidazione dei danni, che hanno comportato una condanna molto superiore a quella che, dalla analisi della motivazione, vi sarebbe dovuta essere per il loro dante causa.

Il P.M. nel suo ricorso punta sul fatto di essere stato amministratore in due fasi distinte; contraddittoriamente quindi egli e stato condannato nella stessa misura degli altri gestori del patrimonio sociale che hanno operato per l’intero periodo in cui è maturato il danno alla società.

7. Infondatezza e inammissibilità dei motivi di merito proposti.

7.1. Restano assorbiti nella risoluzione data della questione della giurisdizione in rapporto alla tutela richiesta, tutti i motivi proposti in ordine alla pretesa extrapetizione per la mancata originaria azione di responsabilità ex art. 2394 c.c., che deve ritenersi invece essersi avuta con la domanda del liquidatore che, sul presupposto dello stato di insolvenza della s.p.a. S.I.V.A., non poteva non agire anche nell’interesse della massa dei creditori ai sensi dell’attuale art. 2394 bis c.c. e della L. Fall., art. 206, norma quest’ultima che espressamente richiama l’art. 2394 c.c. non essendo ancora in vigore alla data della sua emanazione l’art. 2394 bis c.c..

Affermare che in citazione non vi era cenno alla incapienza del patrimonio sociale presupposto dell’azione nell’interesse dei creditori e in fatto errato, in quanto nell’atto introduttivo il liquidatore espressamente afferma che la società in liquidazione e stata già dichiarata in stato di insolvenza con conseguente esigenza di tutelare la massa dei creditori e che tale situazione di danno per gli stessi, e derivata dalle condotte lesive del patrimonio sociale tenute nella gestione della società. Va esclusa la dedotta carenza motivazionale nell’ampliamento della domanda, una volta negato che questo vi e stato, potendosi ritenere dedotta in citazione la insufficienza del patrimonio societario per soddisfare i creditori, intrinseca alla dichiarazione dello stato di insolvenza e presupposto di fatto necessario all’azione nell’interesse dei creditori, per i quali anche si è chiesto pertanto il risarcimento.

Deve comunque negarsi l’ammissibilita del nono motivo di ricorso principale sui vizi motivazionali della sentenza di merito in ordine all’affermazione dalla Corte d’appello della esistenza di un’azione di responsabilità anche ai sensi dell’art. 2394 c.c. con una riproduzione della fotocopia della citazione che invita in sostanza a ripetere in questa sede la valutazione di merito dell’atto per limitarne la portata nei sensi indicati dall’ A.E..

Con il ricorso principale sul punto che precede, vanno respinte pure le impugnazioni incidentali del D.C.G., sulla pretesa extrapetizione, e delle eredi di L.C., in ordine alla mancanza dei presupposti di fatto dell’azione di responsabilità dei creditori, restando assorbito ogni problema di prescrizione, che, in rapporto alla mancanza dell’azione ex 2394 c.c. il P.M. ha proposto tardivamente, cioé come egli stesso afferma solo con la conclusionale del giudizio di primo grado, in rapporto all’art. 2949 c.c. e alla prescrizione dei diritti azionati contro di lui ai sensi degli artt. 2392 e 2393 c.c..

7.2. I ricorsi di A.E. sull’attribuzione della responsabilità e sulla misura del danno liquidato, come le analoghe impugnazioni incidentali sui medesimi punti, in rapporto alle loro rispettive posizioni personali come accertate in appello, del M.M., del D.C.G., del P.M. e del T.F., chiedono tutti in sostanza una nuova valutazione del merito della causa da questa Corte in sede di legittimità, per giungere a conclusioni diverse da quelle della Corte d’appello, senza evidenziare punti decisivi della sentenza impugnata erroneamente o insufficientemente motivati, che possano giustificarne la cassazione, per cui sono da dichiarare inammissibili.

In rapporto alla individuazione delle cause di imputazione dei danni a specifiche condotte o omissioni dei ricorrenti in questa sede, i ricorsi sono inammissibili o perché non autosufficienti nello specificare le ragioni che dovrebbero comportare una diversa valutazione della loro gestione del patrimonio sociale ovvero in quanto chiedono una rivisitazione nel merito delle decisione impugnata, non prospettabile in sede di legittimità.

8. In conclusione, riuniti i ricorsi, principale e incidentali, contro la medesima sentenza, i primi due motivi del ricorso principale sulla giurisdizione devono rigettarsi, dichiarandosi la inammissibilità di tutte le altre impugnazioni sulla questione e confermandosi la giurisdizione del giudice ordinario; gli altri motivi del ricorso principale e i ricorsi incidentali vanno complessivamente rigettati.

In deroga alla soccombenza, specie in ordine alla questione pregiudiziale di giurisdizione e alle incertezze su di essa in giurisprudenza oltre al fatto che allo stato risulta rinviata ogni decisione in ordine all’incidenza sulle condotte di cattiva gestione degli amministratori del socio azionista dotato del potere di nominarli e revocarli, appare equa la totale compensazione delle spese della presente fase di legittimità tra le parti che hanno agito e resistito in questa sede, nulla disponendo nei rapporti con gli intimati che non si sono difesi.

P.Q.M.
LA CORTE Riunisce i ricorsi, rigetta il primo e secondo motivo di quello principale e dichiara inammissibili gli altri motivi dei ricorsi incidentali relativi alla giurisdizione, che spetta, nella presente causa, al giudice ordinario.

Rigetta gli altri motivi di ricorso principale e i ricorsi incidentali e compensa interamente le spese del giudizio di cassazione tra le parti in causa.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite della Corte suprema di Cassazione, il 27 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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