Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-04-2011) 21-06-2011, n. 24811 Accertamento Violazioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) La Corte di Appello di Trieste, con sentenza del 20.7.2010, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trieste del 27 aprile 2009, con la quale R.U. era stato condannato alla pena (interamente condonata) di anni 1 e mesi 8 di reclusione per i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 5, 8 e 10, ascritti, dichiarava non doversi procedere nei confronti del predetto R. in ordine ai reati di cui ai capi a), c), d), g) ed h) perchè estinti per prescrizione, rideterminando la pena per i residui reati di cui ai capi b) ed e) in anni 1 di reclusione.

Premetteva la Corte che della fattispecie omissiva di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, fosse responsabile, oltre che l’amministratore di diritto, anche l’amministratore di fatto, in quanto quest’ultimo, reale detentore dei poteri all’interno dell’impresa, risponde anche dell’adempimento degli obblighi fiscali.

Tanto premesso, riteneva la Corte di merito che risultasse provato il ruolo di amministratore di fatto rivestito dal R. nell’impresa individuale Cellnet e Vodatel (di cui amministratore di diritto era R.T.S.E.), sulla base delle dichiarazioni degli imprenditori che trattavano con dette imprese (affermavano infatti di avere avuto contatti solo con l’imputato) e della deposizione del teste S., vicino di casa, il quale aveva avuto modo di ascoltare anche delle conversazioni telefoniche aventi ad oggetto la gestione di attività legata al commercio di telefonia mobile. Assumeva, poi, la Corte che il R. operava, come emergeva dagli accertamenti della G.d.F., emettendo decine di false dichiarazioni di intenti (con le quali si manifestava l’intenzione di vendere la merce ad un acquirente estero intracomunitario esentato dai pagamento IVA; il che consentiva di non pagare a propria volta l’IVA). Tale "trucco" consentiva al R. di rivendere i prodotti ad acquirenti nazionali con un ribasso medio del 12%.

Riteneva, infine, la Corte in relazione ai reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, ascritti ai capi d) ed e), che la tesi difensiva (secondo cui l’ammontare dell’IVA evasa andava determinata solo sulla base delle fatture) fosse improponibile, dal momento che la distruzione delle stesse consentirebbe di eliminare la prova del reato. Era possibile quindi ricorrere anche ad accertamenti indiziari ex art. 192 c.p.p., comma 1, e, nel caso di specie, essendo le dichiarazioni di intenti completamente false (era emerso che mai le imprese del R. ed in particolare la Vodatel avevano venduto beni all’estero), era lecito ritenere che la merce fosse stata ceduta ad operatori nazionali con l’evasione dell’IVA corrispondente. Il che consentiva di ritenere superata la soglia di legge. Peraltro in relazione al capo e) la difesa non era neppure entrata nel merito del superamento della soglia.

2) Ricorre per cassazione R.U., a mezzo del difensore, denunciando la omessa, insufficiente, contraddittorìa motivazione in relazione alla ritenuta qualifica di amministratore di fatto. Le circostanze da cui è stata desunta la prova di tale qualifica sono equivoche: le dichiarazioni degli imprenditori al più dimostrano che il R. veniva considerato un rappresentante della società.

Quanto alla testimonianza del Serafini, le telefonate di cui parla il teste potevano riferirsi anche all’attività svolta per la ditta individuale " R.U." che aveva ad oggetto anche il commercio di telefonia mobile.

Con il secondo motivo denuncia la erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, nonchè la contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta solidarietà tra amministratore di diritto ed amministratore di fatto. Tale solidarietà non trova fondamento nel dettato normativo che ha come destinatario solo colui che riveste la qualifica di contribuente, obbligato quindi agli adempimenti fiscali. Delle società Celnet e vodatel di cui ai capi b) ed e) era amministratore di diritto la Rodriguez, la quale era quindi unica obbligata alla presentazione della dichiarazione annuale dei redditi. Il R., pertanto, non può essere ritenuto responsabile della mancata presentazione della dichiarazione per l’anno 2002.

Con il terzo motivo denuncia la contraddittorietà ed illogicità della motivazione, nonchè la violazione dell’art. 2 c.p., e art. 192 c.p.p..

La Corte territoriale, sommando, ai fini del superamento della soglia di punibilità, l’IVA non versata in base alle dichiarazioni di intenti falsa, ha disatteso il D.Lgs. n. 74 del 2000, art.25, che ha abrogato la L. n. 746 del 1983, art. 2 comma 4. Il D.L. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 7, comma 4, prevede esclusivamente una sanzione amministrativa. Ai fini del superamento della soglia si dovevano quindi sommare solo gli importi IVA relativi alle fatture di vendita e solo delle fatture di cui era stata provata l’effettiva emissione.

Come ribadito più volte dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, non possono applicarsi le presunzioni legali o i criteri validi in sede tributaria. Si, chiede, infine la concessione delle circostanze attenuanti generi che; gli asseriti precedenti, non essendo stata contestata la recidiva, non potevano essere presi in considerazione; nè è stato dimostrato l’asserito ruolo preminente del R..

3) Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.

3.1) La Corte territoriale, attraverso un esame approfondito delle risultanze processuali e con motivazione puntuale ed immune da vizi logici, ha accertato che il R. fosse, senza ombra di dubbio, l’amministratore di fatto. Ha infatti evidenziato che dalle testimonianze degli imprenditori che trattavano con le imprese di cui alle imputazioni (e quindi anche di quelle di cui era formalmente titolare la R.T.) emergeva che era il predetto a trattare gli acquisti di materiale. Significativa era anche la deposizione del teste Serafini in ordine alle conversazioni telefoniche da lui ascoltate, che confermavano che il R. gestiva in prima persona le attività legate al commercio di telefonia mobile.

Le censure, sollevate dal ricorrente sul punto, non tengono conto che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo. E necessario cioè accertare se nell’interpretazione delle prove siano state applicate le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve quindi essere evidente e tale da inficiare lo stesso percorso seguito dal giudice di merito per giungere alla decisione adottata.

Anche a seguito della modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), con la L. n. 46 del 2006, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell’iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all’annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 752 del 18.12.2006). Anche di fronte alla previsione di un allargamento dell’area entro la quale deve operare, non cambia la natura del sindacato di legittimità; è solo il controllo della motivazione che, dal testo del provvedimento, si estende anche ad altri atti del processo specificamente indicati.

Tale controllo, però, non può "mai comportare una rivisitazione dell’iter ricostruttivo del fatto, attraverso una nuova operazione di valutazione complessiva delle emergenze processuali, finalizzata ad individuare percorsi logici alternativi ed idonei ad inficiare il convincimento espresso dal giudice di merito11 (così condivisibilmente Cass. pen. sez. 2 n. 23419/2007 – Vignaroli).

Il ricorrente, attraverso una formale censura di contraddittorietà ed illogicità della motivazione, ripropone sostanzialmente una diversa e per lui più favorevole lettura delle risultanze processuali.

3.1.1) Sulla base del suddetto accertamento fattuale, correttamente ha ritenuto la Corte territoriale che sull’amministratore di fatto, reale detentore dei poteri all’interno dell’impresa, gravino i doveri inerenti tali carica e quindi anche gli obblighi fiscali; della loro violazione, pertanto deve rispondere, eventualmente in concorso con l’amministratore di diritto.

La tesi difensiva, secondo cui del reato omissivo proprio (nella specie omessa presentazione della dichiarazione dei redditi) potrebbe rispondere soltanto il soggetto sul quale incombe l’obbligo relativo, non può trovare accoglimento. Da un lato, perchè si porrebbero a carico dell’amministratore di diritto (anche se solo un prestanome) tutte le omissioni civilmente e penalmente rilevanti, mentre verrebbe esclusa ogni responsabilità di chi effettivamente gestisce la società, dall’altro perchè, come ha già ricordato la Corte di merito, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, specie in tema di reati fallimentari, l’amministratore di fatto è equiparato all’amministratore di diritto, tanto che risponde dei delitti di cui alla L. Fall., art. 216 e ss., anche a prescindere, dalla responsabilità, quale correo, dell’amministratore di diritto.

L’equiparazione degli amministratori di fatto a quelli di diritto è stata affermata da questa Corte sia in materia civile, che penale e tributaria (cfr. Cass. civ. 5.12.2008 n. 28819; Cass. civ. 12.3.2008 n. 6719; Cass. sez. un. civ. 18.10.2005 n. 2013; Cass. civ. Sez. 5 n. 21757 del 2005; Cass. pen. n. 7203 del 2008; Cass. pen. n. 9097 del 1993; Cass. pen. n. 2485 del 1995). Tale equiparazione trova del resto precisi riferimenti normativi. Il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 11, parifica il legale rappresentante all’amministratore di fatto, prevedendo formalmente la diretta responsabilità anche degli amministratori di fatto. E, secondo la giurisprudenza di questa Corte, "Anche nel vigore della L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 12 – abrogato dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 29, comma 1, lett. a), il cui art. 11 ha formalmente sancito la responsabilità degli amministratori, anche di fatto, delle società per le sanzioni pecuniarie connesse a violazioni tributarie riferibili all’ente quale soggetto passivo del rapporto tributario – detta responsabilità poteva comunque profilarsi, tenuto conto che la citata L. n. 4 del 1929, art. 11, prevedeva che se la violazione della norma delle leggi finanziarie, per la quale sia stabilita la pena pecuniaria o la sopratassa sia imputabile a più persone, queste sono tenute in solido al pagamento della pena pecuniaria o della sopratassa" (cfr.

Cass. Sez. 5^ n. 21757 del 9.1.2005). Anche sulla base del novellato art.2639 c.c. "L’amministratore di fatto è da ritenere gravato dall’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitatali, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall’art. 40 c.p., comma 2", (Cass. pen. sez. 5^ n. 7203 dell’11.11.2008). La norma di cui all’art. 2639 c.p., anche se relativa ai reati societari, contiene la codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori penali dell’ordinamento e per la sua natura interpretativa è applicabile anche ai fatti pregressi (cfr.

Cass. n. 7203/2008). Tale principio rende configurabile il concorso dell’amministratore di fatto sia nei reati commissivi che in quelli omissivi propri. Per quanto riguarda più specificamente il reato in contestazione, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 1, prevede che sono obbligati alla presentazione della dichiarazione tutti i soggetti che possiedono redditi anche se non consegue alcun debito di imposta e coloro che sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili; e il D.P.R. n. 322 del 1998, art. 1, comma 4, stabilisce che la dichiarazione di soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta dal rappresentante legale e, in mancanza, da chi ne ha l’amministrazione anche di fatto.

3.2) Quanto alle doglianze in ordine alla determinazione dell’imposta evasa ed al superamento della soglia di punibilità, è pacifico che, ai fini della integrazione del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, punito solo ove abbia determinato una evasione di imposta pari a Euro 77,468,53, per imposta evasa deve intendersi l’intera imposta dovuta, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraiteli, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario" (cfr.

Cass. pen. sez. 3^ n. 21213 del 26.2.2008). Ed è altrettanto indubitabile che "ai fini del superamento della soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario" (cfr. Cass. pen. sez. 3^ n. 21213/2008 cit.).

Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, però, "in tema di reati tributari il giudice può legittimante basarsi, per accertare la penale responsabilità dell’imputato per le omesse annotazioni obbligatorie ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, sull’informativa della Guardia di Finanza che abbia fatto ricorso ad una verifica delle percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati di mercato e ricorrere anche all’accertamento induttivo dell’imponibile quando la contabilità imposta dalla legge sia stata tenuta irregolarmente (cfr. ex multis Cass. sez. 3 del 18.12.2007- D’Amico) Anche l’accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari può, invero, rappresentare, "un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge, a condizione che il Giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in essi evidenziati, ma proceda a specifica autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti "aliunde" (cfr. Cass. sez. 3^ n. 1904 del 21.12.1999, Zarbo; conf. Cass. sez. 3^, 20.10.1995 Perillo).

I giudici di merito, con motivazione corretta ed immune da vizi logici, hanno, innanzitutto, rilevato che assolutamente improponibile era la tesi difensiva secondo cui l’importo dell’IVA evasa andasse determinato solo sulla base delle fatture (essendo evidente che, in tal modo, con la mera distruzione della documentazione, verrebbe ad essere eliminata la prova del reato) e poi hanno ricordato che è ben possibile ricorrere ad accertamenti indiziari purchè nel rispetto di quanto previsto dall’art. 192 c.p.p.. Sulla base di queste premesse hanno ritenuto che fosse sufficiente la constatazione (per come accertato dalla Guardia di Finanza) che non erano stati mai venduti beni all’estero e che la mercè acquistata con la tecnica delle dichiarazioni di intenti non era stata rinvenuta, per affermare che essa era stata ceduta ad operatori nazionali senza il pagamento dell’IVA. Risultava quindi, attraverso tale ricostruzione indiziaria, accertato il superamento della soglia di punibilità. 3.3) Infine la Corte territoriale ha ritenuto che il R. non fosse meritevole della concessione delle circostanze attenuanti generiche, sia per il ruolo di vertice avuto nella vicenda, sia per i precedenti penali (di cui uno specifico) dai quali risultava gravato, sia infine per il comportamento processuale (il R. aveva cercato di condizionare l’operato del tecnico incaricato di estrapolare i dati dai computer sequestrati). I giudici di merito hanno, quindi, motivato adeguatamente in ordine all’esercizio del potere discrezionale loro riconosciuto nella determinazione del trattamento sanzionatorio.

E’ pacifico, invero, che, ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, il giudice di merito deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., ma non è necessario, a tal fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso far riferimento. La concessione delle circostanze attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, che deve motivare nei soli limiti atti a far emergere, in misura sufficiente, la sua valutazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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