Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 25-02-2011) 21-06-2011, n. 24861

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione N.G. avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli in data 21 aprile 2009 con la quale è stata confermata quella di primo grado, affermativa della sua responsabilità in ordine al reato di lesioni personali volontarie, aggravate dall’uso di una mazza di ferro, consumato in danno di P.F. nel (OMISSIS).

Deduce:

1) la nullità del processo di primo grado e degli atti successivi per violazione delle norme sul giusto processo e sul diritto costituzionalmente previsto di difendersi ( artt. 111 e 24 Cost.), oltre che della norma ex art. 498 c.p.p..

Il giudice di primo grado aveva provveduto autonomamente alla formulazione delle domande al teste P., senza raccogliere il consenso della difesa a tal modo di procedere e soprattutto ignorando che il giudice, anche quando è facoltizzato dal codice a porre in via diretta le domande al teste, deve farlo sulla base delle sollecitazioni e delle contestazioni delle parti;

2) la violazione degli artt. 125, 192 e 546 c.p.p. e il vizio di motivazione.

Era mancata la penetrante analisi che deve essere compiuta sulle dichiarazioni della persona offesa quando queste costituiscano l’asse portante del costrutto accusatorio.

In particolare i giudici si erano affidati alle parole del P. sul colpo subito ad opera del ricorrente ma non avevano approfondito il movente della azione ed in particolare le ragioni di rancore che animavano le parti, contrapposte da una divergenza sulla linea di confine delle rispettive proprietà contigue, linea che, appunto, il N. si era accinto a tracciare con la apposizione di un manufatto. Ebbene tale: divergenza la persona offesa aveva negato così denunciando la propria scarsa credibilità.

In secondo luogo era stata travisata la relazione dei Carabinieri chiamati dal querelante, non ricavandosi da essa nè che la chiamata fu immediata, nè che la persona offesa fu accompagnata all’ospedale dai militari. Nella relazione, viceversa era indicata la ragione della contrapposizione ed era anche registrato l’invito rivolto al P. ad accertarsi con un tecnico delle proprie ragioni, invito sfociato in una consulenza che aveva concluso per la regolarità della iniziativa del N.. Infine la difesa segnalava come la certificazione medica fornita dalla persona offesa non recasse traccia dell’uso di un’arma.

Il ricorrente lamenta anche la assoluta illogicità della affermazione del giudice secondo cui i testi della difesa – che avevano negato di avere assistito ad una aggressione – sarebbero stati falsi.

In realtà la falsità dei testi era stata desunta dal contrasto delle loro dichiarazioni con le affermazioni della persona offesa, muovendosi dunque dall’indimostrato presupposto che queste ultime fossero veridiche, laddove la presentazione di testi doveva servire proprio a saggiare la tenuta del querelante.

Il ricorso è inammissibile perchè in parte manifestamente infondato e in parte basato su ragioni diverse da quelle che possono essere dedotte dinanzi al giudice della legittimità.

Il primo motivo di doglianza trova soluzione, sfavorevole al ricorrente, nei principi consolidati della giurisprudenza di legittimità.

Ha osservato questa Corte che l’assunzione della prova testimoniale direttamente a cura del giudice, pur non essendo conforme alle regole che disciplinano la prova stessa, non da luogo ad alcuna nullità, non essendo riconducibile alle previsioni di cui all’art. 178 cod. proc. pen., nè ad inutilizzabilità, trattandosi di prova assunta non in violazione di divieti posti dalla legge bensì con modalità diverse da quelle prescritte (Rv. 242025; massime precedenti Conformi: N. 6922 del 1992 Rv. 190574, N. 33718 del 1992 Rv. 219824, N. 33445 del 2002 Rv. 227360, N. 7922 del 2008 Rv. 239547, N. 32851 del 2008 Rv. 241227).

In punto di fatto va poi evidenziato che il difensore dell’imputato, avv. Varrillo, ha effettuato il controesame della persona offesa ponendo domande (pag. 7 trasc.).

Il secondo motivo è inammissibile perchè, sia pure deducendo formalmente un vizio di motivazione, si risolve nella sollecitazione, rivolta al giudice della legittimità, ad effettuare una rinnovata ed autonoma valutazione delle risultanze di prova.

Una prima, evidente dimostrazione di tale assunto sta nel fatto che la difesa prospetta il travisamento della prova, tra l’altro riferendosi a quella che essa sostiene essere stata la omessa valutazione del tenore di una informativa di PG. Ebbene è di tutta evidenza la irricevibilità di una simile doglianza, che rappresenta il vizio della contraddittorietà della motivazione rispetto ad altro atto del processo che, a quel che deve ritenersi, non poteva nemmeno entrare – quantomeno non nel suo contenuto integrale – nel fascicolo del dibattimento e di cui la parte non indica neppure modi e ragioni della ritenuta utilizzabilità.

Infatti, anche secondo le Sezioni unite, non è atto irripetibile, e come tale non può essere acquisita al fascicolo per il dibattimento senza il consenso delle parti, la relazione di servizio che neppure quando contenga soltanto la descrizione delle attività di indagine, esauritesi con la loro esecuzione e suscettibili di essere descritte in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, senza la perdita di alcuna informazione probatoria, per non essere modificabili con il decorso del tempo luoghi, persone o cose rappresentati (Rv. 234906).

In secondo luogo il ragionamento della Corte, che ha accreditato la versione della persona offesa e svalutato quella, contraria, dei testi della difesa non è nel segno della lamentata illogicità.

Infatti i giudici del merito hanno argomentato del tutto razionalmente in ordine alla circostanza che le accuse della persona offesa sono state riscontrate da una foto e da una certificazione medica: documenti questi ultimi che sono stati ritenuti dotati di valenza probatoria certamente non piena, altrimenti sarebbero stati da soli sufficienti a sostenere l’impianto accusatorio. Al contrario, degli stessi i giudici hanno fatto uso come di elementi atti a sostenere la attendibilità del racconto della persona offesa ed è innegabile che una simile considerazione è dotata di una intrinseca plausibilità, al di là del fatto, lamentato dalla difesa, che tanto la foto, quanto la certificazione medica, da soli non sarebbero bastati come prova di responsabilità. In conclusione i giudici hanno reso una motivazione del tutto logica a sostegno del convincimento raggiunto ed una simile situazione preclude l’ulteriore intervento censorio della Cassazione dal momento che in tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (rv 215745).

Non si ravvisa d’altro canto, nessuna delle illogicità lamentate sulla qualificazione delle testimonianze indotte dalla difesa, come false. A prescindere infatti dal rilievo – peraltro solo enunciato e non provato dal ricorrente- che i testimoni in questione, successivamente, possano avere visto esclusa la loro responsabilità penale per il falso (esclusione che può essere stata determinata dalle ragioni più varie , anche del tutto indifferenti rispetto all’accertamento della verità nel presente processo), v’è da rilevare che i giudici hanno motivato razionalmente una simile conclusione: hanno infatti evidenziato la incompatibilità logica delle affermazioni dei detti testi non con le sole affermazioni della persona offesa ma con il coacervo di elementi di cui sopra si è detto, tali da delineare un giudizio complesso di attendibilità della versione del querelante.

Del tutto generica, nella presente sede, risulta infine la conclusiva doglianza sul mancato accertamento del movente della azione dell’imputato, non chiarendo affatto la difesa – in ciò venendo meno ai doveri di specificazione posti dall’art. 581 c.p.p. in quali termini l’accertamento di un movente come quello da essa indicato, e cioè il rancore tra le parti per motivi di confine avrebbe potuto far cadere l’assunto accreditato in sentenza: quello cioè di una aggressione fisica al P., che i giudici hanno desunto anche da altri elementi di riscontro.

Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in Euro 1000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma di Euro 1000.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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