Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 25-02-2011) 21-06-2011, n. 24856

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione C.P. avverso la sentenza del Tribunale di Udine in data 30 aprile 2009 con la quale è stata confermata quella di primo grado, di condanna in ordine ai reati di ingiuria e percosse in danno di S.G., commessi nel (OMISSIS).

Deduce:

la violazione di legge e il vizio di motivazione.

Premette che la intera vicenda aveva tratto origine da rapporti conflittuali tra le rispettive famiglie, dovuti a controversie su una servitù di passaggio e già sfociate in un comportamento dello S. sanzionato nel processo a suo carico per le lesioni provocate al marito di essa ricorrente, B.G..

Inoltre la condotta della ricorrente era stata causata, in maniera diretta, da un comportamento dello S. idoneo ad essere inquadrato come violenza privata, per avere impedito ad essa il passaggio con la vettura, ostruendolo col camion lasciato con le portiere aperte.

Un simile atteggiamento valeva ad integrare i presupposti della provocazione mediante fatto ingiusto ex art. 599 c.p..

Prosegue poi la ricorrente osservando che sia il giudizio di primo grado che quello di appello sarebbero affetti da nullità insanabile per la contraddittorietà del capo di imputazione e per la mancanza di accertamento degli elementi costitutivi del reato di percosse.

Il capo di imputazione faceva riferimento infatti a percosse che avevano causato un attacco di angina ed il giudice di primo grado si era pronunciato su tale accusa motivando come se si fosse trattato del reato di lesioni.

Il giudice dell’appello aveva poi emendato tale errore, motivando sulla sussistenza del reato di percosse che però, pur differendo da quello di lesioni anche sotto il profilo del dolo, era rimasto non accertato.

Il giudice aveva infatti ritenuto probanti le dichiarazioni della persona offesa S.G. e quelle della teste B. G..

L’attendibilità del primo era però smentita dal fatto che egli aveva affermato di essersi sentito male a causa delle parole della ricorrente, svenendo, mentre dalla documentazione medica era emerso che il malore era stato curato con un farmaco, e che solo dopo un certo tempo era stato ricoverato in ospedale.

Addirittura non era stata valorizzata la deposizione del B. il quale aveva raccontato di avere visto lo S., il giorno seguente, lavorare regolarmente.

Anche la deposizione della teste d’accusa Bi. era piena di incongruenze nella ricostruzione dei comportamenti delle parti ai quali aveva assistito, aveva poi detto della necessità della assunzione di una badante, in realtà assunta molto tempo dopo ed aveva sostenuto di avere notato la scena da una postazione che non lo consentiva.

In ordine alla applicazione degli artt. 599 e 581 c.p., poi, il giudice di primo grado aveva riconosciuto che non vi erano state conseguenze lesive per la persona offesa, tuttavia affermando, in maniera contraddittoria, che vi era un nesso causale tra le percosse e il malore dello S.: confondendo cioè il reato di percosse e quello di lesioni, tra loro profondamente diversi. Inoltre, se alle percosse segue una conseguenza lesiva, questa deve essere analizzata alla luce della colpa dell’agente e cioè ai sensi dell’art. 590 c.p., come reato concorrente con quello di percosse.

Del tutto errata era dunque l’affermazione del giudice dell’appello secondo cui la sentenza di primo grado poteva essere convalidata.

Deduce poi la violazione dei diritti difensivi.

La sentenza si era basata sulle affermazioni del consulente di parte che aveva espresso valutazioni cardiologiche senza essere egli stesso un cardiologo e soprattutto sopravvalutando le affermazioni della persona offesa riguardo al predetto nesso di causalità tra le percosse e il malore. Era stato invece impedito alla difesa della imputata di indoro durre le contro-osservazioni del proprio consulente.

Il giudice di pace non aveva neppure ritenuto di disporre una perizia – prova decisiva – avvalendosi dei poteri officiosi.

Il ricorso è inammissibile perchè con esso vengono dedotte questioni diverse da quelle che possono essere sottoposte al giudice della legittimità o comunque manifestamente infondate.

In ordine alla confusione che il capo di imputazione avrebbe ingenerato anche nel giudice di primo grado perchè formulato in maniera contraddittoria, con riferimento ad una patologia susseguente alla condotta di percosse ed a questa legata da nesso di causalità, v’è da rilevare che il costante insegnamento della giurisprudenza, sul tema, è nel senso che, la insufficiente determinazione del fatto descritto nella imputazione non integra una nullità di ordine generale a norma dell’art. 178 cod. proc. pen., ma rientra tra quelle relative di cui all’art. 181 c.p.p., con la conseguenza che essa non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine previsto dall’art. 491 cod. proc. pen. (fra le molte, v. Rv. 217123).

Nel caso di specie non risulta che una simile eccezione sia stata formulata nei tempi detti, con la conseguenza che essa è preclusa.

La stessa questione, in quanto foriera, a dire della difesa, anche di un vizio di motivazione, poi, è del tutto destituita di fondamento ma, prima ancora, risulta comunque inammissibile perchè ripetitiva di identici motivi di appello, dal Tribunale già disattesi in maniera argomentata e plausibile e quindi non ulteriormente censurabile in questa sede.

Va ricordato in proposito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Rv. 243838 ;massime precedenti conformi: N. 8443 del 1986 Rv. 173594, N. 12023 del 1988 Rv. 179874, N. 84 del 1991 Rv.

186143, N. 1561 del 1993 Rv. 193046, N. 12 del 1997 Rv. 206507, N. 11933 del 2005 Rv. 231708). Orbene il giudice ha compiuto una regolare e logica valutazione della attendibilità dei testi della accusa, ossia la persona offesa e la teste Bi.Gi., motivando in ordine alle ragioni per le quali la tesi della difesa della imputata relativa alla impossibilità, per la Bi., di avere effettivamente visto ciò che poi aveva riferito agli inquirenti, non poteva trovare accoglimento.

Infatti tale tesi era basata su una documentazione fotografica che il giudice ha ritenuto solo parziale e quindi incapace di dimostrare, in assenza per giunta di richiesta di esperimento giudiziale, che la Bi. avesse deposto il falso. In ordine poi alla configurazione del reato di percosse, il Tribunale ha del tutto congruamente posto in evidenza che non vi è stato, in sentenza, alcun utile e/o rilevante accertamento della esistenza di un nesso di causalità tra le percosse ed una patologia riportata dalla persona offesa: e ciò, in quanto, in primo luogo il capo di imputazione prevedeva espressamente che non era derivata alla persona offesa alcuna malattia nel corpo e nella mente; in secondo luogo in quanto, se fossero emersi elementi rilevanti nel senso denunciato dalla ricorrente, il Giudice di pace avrebbe dovuto rimettere gli atti al titolare della azione penale perchè il fatto era diverso, senza pronunciarsi su di esso; in terzo luogo in quanto comunque, anche alla stregua degli accertamenti contenuti nella decisione di primo grado, il paventato nesso causale, pur attestato nella consulenza di parte, era stato escluso da altre emergenze di causa, "quali le pregresse patologie del soggetto passivo e la assoluta tenuità della condotta violenta realizzata da C.P. (v. pag. 9).

Ne consegue che tutte le rinnovate censure dalla ricorrente, oltre a ripercorrere integralmente quelle già disattese dal giudice dell’appello, ineriscono a eventi che non formano oggetto di accertamento giudizialmente rilevante, essendo stata, la affermazione di responsabilità, limitata alle ingiurie (ammesse anche dalla imputata) e allo strattonamento della persona offesa, senza causazione di alcuna lesione positivamente riferibile alla azione della C..

Oltretutto, in tema di mancata disposizione di perizia, è appena il caso di ricordare il costante insegnamento giurisprudenziale secondo cui la perizia, per il suo carattere "neutro" sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva: ne consegue che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto giudizio di fatto che se sorretto da adeguata motivazione è insindacabile in cassazione (Rv. 236191; Massime precedenti Conformi: N. 6861 del 1993 Rv. 195139, N. 9788 del 1994 Rv. 199279, N. 275 del 1997 Rv. 206894, N. 6074 del 1997 Rv. 208090, N. 13086 del 1998 Rv. 212187, N. 12027 del 1999 Rv. 214873, N. 4981 del 2003 Rv. 229665, N. 9279 del 2003 Rv. 225345, N. 17629 del 2003 Rv. 226809, N. 37033 del 2003 Rv.

228406, N. 4981 del 2004 Rv. 229665).

Anche il tema della causa di non punibilità è stato motivatamente trattato dal giudice del merito con argomentazioni che la ricorrente si limita a non accettare senza motivi di censure pertinenti, richiedendo piuttosto a questo giudice di valutare in maniera autonoma e favorevole all’imputata, le emergenze di causa, invece demandate all’esclusivo apprezzamento del giudice del merito. Il Tribunale, è appena il caso di ricordarlo, ha escluso che potesse ritenersi operativa la causa di non punibilità della provocazione ovvero la corrispondente circostanza attenuante dal momento che il comportamento tenuto dalla persona offesa non poteva avere integrato nella specie il requisito del fatto ingiusto previsto dall’art. 599 c.p..

Il giudice ha infatti ben evidenziato la breve durata della disputa e dell’atteggiamento – semmai – dilatorio della persona offesa, dando applicazione al principio secondo cui per l’applicabilità dell’esimente della provocazione occorre che la reazione sia conseguenza di un fatto che per intrinseca illegittimità o per contrarietà alla norma del vivere civile, abbia in se la potenzialità di suscitare un ingiustificato turbamento nell’animo dell’agente (Rv. 141001; conf mass n 116456). Oltretutto si è ritenuto che non possa considerarsi ingiusto il mancato riconoscimento di un diritto ad una prestazione contrattuale, quando siano sorte contestazioni su di esso.

Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in Euro 1000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma di Euro 1000.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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