Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 11-02-2011) 21-06-2011, n. 24855 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 28 ottobre 2009 la Corte d’Appello de L’Aquila, confermando simultaneamente tre pronunce del Tribunale di Chieti ed una del Tribunale di Pescara, ha riconosciuto Z.M. e C.S. responsabili di più reati di bancarotta fraudolenta e frode fiscale.

Hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione i due imputati, deducendo una serie di censure suddivise, nell’illustrazione, in base alle vicende prese in osservazione nei quattro procedimenti riuniti in grado di appello.

Nel primo di essi la responsabilità della Z. era stata affermata per essersi accertato, attraverso le risultanze istruttorie, che essa aveva mantenuto l’amministrazione della società Nicol s.r.l. per brevi periodi, uscendo sapientemente di scena e cedendo a terzi il ruolo formale di amministratore allo scopo di defilarsi nei momenti di maggior crisi, così da confondere spesso la propria posizione con quella del marito Sergio C., col quale comunque aveva operato di comune accordo nella distrazione di beni appartenuti al patrimonio sociale.

La ricorrente deduce vizio di motivazione, assumendo non essersi dimostrato quale fosse la sua reale veste all’interno della ditta e non essersi considerato che essa aveva agito non in modo autonomo, ma come mera esecutrice.

Il secondo procedimento, instauratosi per il fallimento della società Krismi di Ceschi Sergio & C. s.a.s., aveva riguardato l’accusa mossa al C. di avere occultato al fallimento un insieme di beni, ricoverati all’interno di una stanza segreta, e di aver detenuto abusivamente armi e munizioni. Il ricorrente impugna la condanna per il reato fallimentare, sostenendo che i beni rinvenuti dalla Guardia di Finanza appartenevano alla moglie ed erano estranei al patrimonio aziendale.

In esito al terzo procedimento ambedue i coniugi erano stati condannati per bancarotta patrimoniale in relazione al fallimento della società Gifrac s.r.l., avuto particolare riguardo alla cessione di rami di azienda. I ricorrenti lamentano la mancanza di una valutazione concreta della posizione della Z. e l’omessa motivazione in merito alle asserite sottrazioni di beni e somme dal patrimonio aziendale.

Nel quatto procedimento, infine, i due coniugi erano stati condannati per frode fiscale perchè ritenuti inseriti nel quadro organico della Inter Com s.r.l., sebbene non investiti formalmente della carica di amministratori; erano stati essi, infatti, a consegnare al commercialista la documentazione contabile e a dimostrarsi pienamente coinvolti nella gestione della società. Anche per tale riguardo i ricorrenti contestano la logica motivazionale della sentenza impugnata.

Motivi della decisione

I ricorsi dei due imputati, confluiti nell’atto d’impugnazione congiunto, sono privi di fondamento e vanno disattesi.

Attenendosi al medesimo criterio adottato dai ricorrenti nell’illustrazione delle loro censure, viene prioritariamente in osservazione il complesso delle imputazioni connesse alla dichiarazione di fallimento della società Nicol s.r.l..

Nel valutare la posizione assunta dalla Z. rispetto all’amministrazione della società, la Corte territoriale ha valorizzato le dichiarazioni rese dal curatore del fallimento, a detta del quale le posizioni del marito ( C.S.) e della moglie spesso si confondevano; nonchè dallo stesso C., il quale aveva riferito di aver affidato alla moglie il ruolo di amministratrice, non potendo egli operare a livello bancario a causa di precedenti protesti. Infine, altri elementi di giudizio ha tratto quel collegio dagli accertamenti svolti dal consulente tecnico S.M., donde era emerso che la vendita del negozio era stata stipulata dalla Z. sebbene in quel periodo risultasse amministratore altra persona, a nome P.. Dal complesso di tali risultanze il giudice di merito ha tratto il convincimento che la Z. fosse stata pienamente coinvolta in tutte le operazioni riguardanti la gestione della società, in pieno accordo col marito, pur non avendo rivestito in forma continuativa la veste formale di amministratrice, ma avendo invece svolto talora quelle mansioni in via di fatto.

La descritta linea argomentativa, siccome basata su precisi riferimenti alle risultanze istruttorie e logicamente ineccepibile, resiste al vaglio di legittimità e per nulla è scalfita dalle contestazioni mosse nel ricorso per cassazione, ove si deduce genericamente una carenza motivazionale in realtà insussistente e si sostiene – senza neppure il riferimento a concrete emergenze in tal senso – il ruolo di mera esecutrice che la Z. avrebbe assunto nella vicenda, in non consentito contrasto con la ricostruzione fattuale posta a base del giudizio di merito.

In relazione al fallimento della società Krismi di Ceschi Sergio & C. s.a.s., la conferma della condanna del C. per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale (la contravvenzione in materia di armi si era frattanto estinta per prescrizione) è stata motivata dalla Corte d’Appello in base al rilievo per cui i beni sottratti all’attivo fallimentare erano custoditi in una stanza segreta, della quale il C. deteneva la chiave. Secondo il ricorrente ciò non varrebbe a dimostrare la riconducibilità di quei beni al patrimonio della società, stante la loro estraneità al compendio aziendale:

mentre nulla varrebbe a smentire l’affermazione dell’imputato, secondo cui la proprietaria sarebbe la moglie.

Così argomentando la difesa mostra di non tener conto di due principi giuridici che hanno trovato implicita applicazione nell’impianto argomentativo del giudice di merito. Per il primo di tali principi il fallimento della società in accomandita semplice si estende al socio accomandatario, i cui beni vengono perciò acquisiti al fallimento (con la sola eccezione, estranea alla fattispecie, di quelli strettamente personali) anche se estranei al patrimonio aziendale; per il secondo principio il possesso di beni mobili non iscritti nei pubblici registri ne fa presumere la proprietà in capo al possessore: di talchè il dominio di fatto esercitato dal C. sui beni custoditi nella stanza segreta, dimostrato dal possesso della chiave, è stato giustamente inteso dalla Corte di merito come dimostrativo della proprietà su quei beni, indebitamente celati al curatore pur dopo acquisita la conoscenza della dichiarazione di fallimento.

In ordine al fallimento della Gifrac s.r.l., il giudizio di colpevolezza espresso dalla Corte d’Appello si è fondato sui seguenti capisaldi argomentativi: 1) essere emerso dal testimoniale – e in particolare dalle deposizioni dei commercialisti della società – che ambedue i coniugi ebbero a svolgere, con autonomia decisionale, le funzioni gestorie riservate dalla legge all’amministratore di diritto; che, in particolare, la Z. aveva posto in essere atti di disposizione a favore del figlio Ch. e del fidanzato della figlia, Ca.Se.; 2) essersi concretata la distrazione di beni dal patrimonio della società nella cessione di rami d’azienda non registrati nelle scritture contabili, per corrispettivi non accreditati nelle casse sociali.

A fronte di tale assetto motivazionale, esente da vizi logici e giuridici, non giova ai ricorrenti protestare la brevità del periodo di formale assunzione, da parte della Z., della qualità di amministratore di diritto: la sentenza è assai esplicita nell’indicare con ineludibile chiarezza le fonti di prova dell’avvenuto esercizio della gestione di fatto, anche al di fuori dei periodi di formale investitura, e la natura degli atti di disposizione da essa compiuti. Quanto alle condotte distrattive consistite nella cessione di rami d’azienda, è del tutto fuori centro l’argomento difensivo basato sulla esperibilità delle azioni revocatorie, le quali sono finalizzate al recupero dei beni indebitamente estromessi dal patrimonio sodale, ma nulla tolgono alla penale illiceità degli atti di distrazione così compiuti. Circa la rilevanza della mancata acquisizione dei corrispettivi alle casse sociali, non vi è che da richiamarsi al principio giurisprudenziale secondo cui il mancato rinvenimento, all’atto della dichiarazione di fallimento, di beni o valori societari che siano stati a disposizione degli amministratori costituisce valida presunzione della loro dolosa distrazione, quando non ne sia dimostrata la destinazione agli scopi della società (Cass. 27 novembre 2008 n. 7048; Cass. 15 dicembre 2004 n. 3400; Cass. 18 febbraio 1999 n. 854).

Quanto al fallimento della società Inter Com s.r.l., l’avere i coniugi C. e Z. svolto funzioni di amministratori di fatto – contemporaneamente, ed anzi in contrasto col ruolo formalmente svolto da altro soggetto – è apparso alla Corte territoriale ampiamente dimostrato dai rapporti intrattenuti da essi col commercialista della società, il quale ebbe a ricevere e consegnare documenti operando personalmente con gli imputati, nel riconosciuto loro esercizio dei poteri gestori; nonchè dalla deposizione della teste R., secondo la quale in seno alla società "tutto era gestito dai coniugi C.- Z.". D’altra parte la riconducibilità a costoro della condotta costitutiva del reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 8, è stata coerentemente ravvisata nell’avere essi stessi consegnato al commercialista, per la registrazione nei libri contabili, le fatture poi stornate dal P. perchè riconosciute relative ad operazioni inesistenti.

Anche nella parte or ora considerata la motivazione addotta dal giudice di merito è pienamente conforme ai canoni della consequenzialità logica: onde si sottrae all’addebito di lacunosità, genericamente mossole dai ricorrenti.

Con ultima notazione va rilevata l’infondatezza della censura riferita alla determinazione della pena. In proposito va rimarcato che la modulazione della pena è statuizione che l’ordinamento rimette alla discrezionalità del giudice di merito, per cui non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge e ai canoni della logica. Nel caso di specie la Corte d’Appello non ha mancato di motivare la propria decisione sul punto in questione, esprimendo adesione ai criteri adottati dal giudice di primo grado in ciascuna delle sentenze sottoposte al suo giudizio in sede di gravame; e, benchè nella motivazione non si sia espressamente citato l’art. 133 c.p., nondimeno il riferimento ai parametri di valutazione in esso indicati è implicito nella valutazione di congruità delle pene inflitte in base ad "equi criteri di adeguamento al caso concreto". A ciò deve aggiungersi che il giudice di merito ha riscontrato, con giudizio conclusivo, un rapporto di continuazione fra tutti i reati contemplati dalle diverse sentenze di condanna, ed è perciò pervenuto all’unificazione di essi ex art. 31 c.p., comma 2: così sottoponendo il trattamento sanzionatorio a una rinnovata valutazione di congruità.

Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna di ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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