T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, Sent., 24-06-2011, n. 938 Servizi pubblici

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Successivamente al ricovero presso una RSA della madre, sig.ra M.A., la sig.ra O.F. si attivava per ottenere l’integrazione comunale in relazione alle rette dovute.

Il Comune – sulla scorta della certificazione del direttore sanitario della RSA che ospita la suddetta utente, che attestava la non ravvisabilità delle condizioni di indispensabilità del ricovero – riteneva che la sig.ra M. non necessitasse di assistenza continua, nonostante nel contempo le fosse stata confermata l’invalidità del 100 %: in ragione di ciò esso negava, con nota 9 luglio 2010, n. 10575, la sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’integrazione della retta da parte del Comune. Quest’ultimo, con nota del 23 luglio 2010 comunicava ai figli della sig.ra M. l’avvenuta approvazione di un progetto di sostegno a favore della madre, consistente nell’erogazione di un contributo mensile ad integrazione del reddito, al fine di garantirle l’accesso ad un percorso assistenziale adeguato alle sue esigenze, possibilmente alternativo al ricovero in RSA (CDI, casa albergo o badante).

Ritenendo illegittime le determinazioni così assunte dal Comune, le ricorrenti hanno, quindi, censurato le comunicazioni inviate dal Comune e gli atti regolamentari di cui esse risultano essere applicazione, deducendo:

1. violazione dell’art. 10 della L.R. 33/2009, degli artt. 6 comma 4 e 7, comma 1, lett. a), dell’art. 24 della L.R. 3/2008, dell’art. 1 della legge 18/1980, degli art. 3 e 4 della legge 104/1992, dell’art. 3 della legge n. 241/90, dell’art. 1 della legge 118/1971. Il Comune avrebbe eluso i propri obblighi, negando la indispensabilità del ricovero, con ciò travalicando le proprie funzioni. La normativa invocata prevede che gli oneri relativi al servizio di Residenza sanitaria assistenziale (RSA), in quanto servizio sociosanitario integrato, siano ripartiti al 50 % tra Servizio Sanitario Nazionale e Comune, fatta salva la compartecipazione dell’utente. Ciò comporta che competa alle ASL l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria, mentre al Comune spetta di disciplinare (attraverso il Piano socioassistenziale comunale) il procedimento di ammissione al servizio, ferma restando la possibilità per l’utente di scegliere liberamente "le unità d’offerta", compatibilmente con il requisito dell’appropriatezza. Il Comune, quindi, sulla base di un certificato del medico curante rilasciato ad altri fini ed il verbale della Commissione invalidi, ha strumentalizzato gli stessi appropriandosi di una valutazione di appropriatezza dell’inserimento in RSA che non gli sarebbe spettata; ciò sarebbe comprovato dalla contraddittorietà del certificato richiamato dal Comune rispetto agli altri rilasciati dallo stesso medico e comunque, se l’inserimento fosse realmente inappropriato, ciò starebbe a significare che la RSA avrebbe illegittimamente richiesto il contributo al SSN in relazione all’utente in questione (in violazione del d. lgs. 231/2001);

2. violazione degli artt. 2, 3, 10, 23, 32, 38 e 53 della Costituzione, degli artt. 3 e 12, comma 1, della Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità, degli artt. 1, 2 e 3, tab. 1 e 2 del d. lgs. 109/98, dell’art.1 bis del DPCM 221/1999, degli artt. 1 bis, 2, 3, 4 e 5 del DPCM 221/1999, degli artt. 4 e 5 del DPR 223/1989, degli artt. 433 e 438 del cod. civ., dell’art. 24 del d. l. 112/2008, degli artt. 4 e 6 e tab. 1 del DPCM 14.2.2001. Tale normativa sarebbe stata violata laddove il Comune ha previsto il coinvolgimento, nel sostenere le rette del servizio erogato, di tutti i parenti tenuti agli alimenti, violando il principio di proporzionalità, in assenza di un’approfondita istruttoria, operando una contraddittoria commistione tra la disciplina della rivalsa e la normativa ISEE (che imporrebbe la valutazione della situazione reddituale dei soli richiedenti le prestazioni).

Si è costituito in giudizio il Comune, sottolineando come, in linea di principio, sia la normativa statale, che quella regionale (recepite nel piano socioassistenziale del Comune) imporrebbero di garantire la necessaria assistenza, favorendo la permanenza del disabile o dell’anziano presso il proprio domicilio e il proprio ambiente di vita. Inoltre, il coinvolgimento nel sostegno delle spese del nucleo familiare risulterebbe in linea con i principi espressi dalla vigente normativa, sia statale, che regionale.

Parte ricorrente ha replicato, chiarendo, in primo luogo, come mai fosse stato richiesto dal Comune l’ISEE del nucleo familiare di appartenenza dell’assistita e come, nel caso di specie, contrariamente a quanto continua ad essere affermato dal Comune, la sig.ra M. si trovi in una condizione di "non autosufficienza" che ne legittimerebbe il ricovero in RSA, come certificato anche dal verbale della Commissione per l’accertamento degli stati di invalidità civile relativo alla seduta del 2.2.2011 che l’ha riconosciuta "invalida ultrasessantacinquenne con difficoltà permanente a svolgere i compiti e le funzioni della sua età con necessità di assistenza continua non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita". Ne risulterebbe attestato quell’aggravamento delle condizioni che giustificherebbe, a maggior ragione, allo stato attuale, il ricovero.

Ciò chiarito, parte ricorrente ha ribadito la propria tesi circa l’illegittimità del regolamento impugnato, il quale tende all’applicazione della normativa ISEE coinvolgendo i parenti tenuti agli alimenti, in violazione del divieto che sarebbe stato introdotto dall’art. 2, comma 6, del d. lgs. 109/1998. In ogni caso, secondo parte ricorrente, altro sarebbe la valorizzazione dei crediti alimentari ammessa dalla sentenza n. 1607/2011, rispetto all’addossare direttamente ai figli una quota del servizio.

Alla pubblica udienza del 9 giugno 2011 la causa, su conforme richiesta dei procuratori delle parti, è stata trattenuta in decisione, dando atto della ribadita richiesta, da parte del Comune resistente, di consulenza tecnica d’ufficio per attestare le condizioni di capacità psicofisica dell’utente.

Motivi della decisione

La questione portata all’attenzione del Collegio ha ad oggetto la contestata capacità della sig.ra M.A. di attendere in completa autonomia alle attività della propria vita quotidiana, la cui assenza legittimerebbe a pieno titolo la necessità del ricovero presso una residenza sanitaria assistitenziale e la conseguente assunzione della partecipazione ai relativi oneri da parte del Comune, nonché la pretesa dell’esclusione di ogni contribuzione da parte dei figli dell’assistita.

Una puntuale definizione della stessa non può, quindi, che muovere dalla valutazione dell’istanza istruttoria ribadita da parte resistente anche nel corso della pubblica udienza, al fine di dimostrare la legittimità della nota del 9 luglio 2010, con cui il Comune ha negato che qualsiasi contributo comunale fosse dovuto per l’inserimento della sig.ra M. in RSA, dal momento che lo stesso rappresentava un atto liberamente ed autonomamente deciso dai familiari, in assenza della condizione della necessità ed in violazione del diritto della stessa di permanere presso il proprio nucleo familiare di appartenenza.

Tale consulenza non appare, allo stato, né necessaria, né utile: la documentazione prodotta in atti non fornisce un adeguato principio di prova della condizione di non autosufficienza al momento dell’adozione dei provvedimenti censurati e la stessa non può oggettivamente essere accertata oggi con riferimento a quelle che erano le condizioni dell’assistita a quel tempo. Un accertamento che, invece, avesse ad oggetto le condizioni odierne della sig.ra M.A. sarebbe privo di rilevanza, in quanto si riferirebbe comunque ad una situazione attuale e che, quindi, potrebbe giustificare una nuova richiesta e una nuova valutazione delle condizioni dell’assistita, ma non incidere sulla legittimità delle scelte operate dall’Amministrazione all’incirca un anno fa.

Non si può peraltro trascurare che, nonostante la posizione assunta dal Comune, questi ha comunque, sin dalla deliberazione della Giunta comunale n. 173 del 21 luglio 2010 (del cui contenuto è stata data comunicazione con nota del 23 luglio 2010), riconosciuto, a favore della stessa sig.ra M., un contributo ad integrazione del reddito nella misura di Euro 208,00 "al fine di garantirLe l’accesso ad un percorso assistenziale adeguato alle sue esigenze, possibilmente alternativo al ricovero in RSA".

Si potrebbe, quindi, in concreto anche dubitare della lesività della originaria valutazione di inadeguatezza della scelta del ricovero, che si sarebbe riverberata in una esclusione di ogni contribuzione da parte del Comune (che, invece c’è stata) e, conseguentemente, dell’ammissibilità della doglianza che, per quanto sopra rappresentato si deve comunque ritenere infondata.

Per quanto attiene alla pretesa non adeguatezza del contributo riconosciuto all’utente, la censura appare eccessivamente generica perché si possa ritenere integrato quel principio di prova dell’asserita non proporzionalità della retta posta a carico dei familiari che renderebbe illegittimo il coinvolgimento di quest’ultimi.

A tale proposito il Collegio ritiene, in primo luogo, per quanto attiene alla legittimità del ricorso al sistema di valutazione delle condizioni economiche ISEE, di poter condividere quanto affermato dal Consiglio di Stato nella propria sentenza n. 1607 del 16 marzo 2011, nella quale si legge che "Il legislatore regionale" (della Regione Lombardia, n.d.r.) "ha però aggiunto un elemento al criterio dell’I.S.E.E.: la partecipazione dei soggetti civilmente obbligati e tale elemento non contrasta con alcuna disposizione statale e rientra nella riconosciuta possibilità di introdurre criteri differenziati e aggiuntivi dei selezione dei destinatari degli interventi".

Del resto appare conforme ai principi costituzionali e che permeano l’ordinamento in un’ottica di solidarietà sociale, distinguere, nell’ambito dei soggetti che maggiormente hanno bisogno di assistenza tra coloro che hanno comunque una fonte di sostentamento, costituita dalla presenza di un obbligato agli alimenti e chi tale fonte non ha. Equiparare le due situazioni, infatti, potrebbe comportare un vulnus agli stessi principi generali e livelli essenziali per l’accesso ai servizi sociali, potendo determinare in concreto una riduzione delle risorse da destinare ai soggetti più bisognevoli, perché sprovvisti di una rete di sostegno economico familiare (cfr in tal senso Consiglio di Stato, n. 1607/2011).

Ciò chiarito, però, non può trascurarsi il fatto che, nonostante la sopra richiamata legislazione abbia introdotto l’ISEE come criterio generale di valutazione della situazione economica delle persone che richiedono prestazioni sociali agevolate, il d. lgs. 109/98 (art. 3, comma 2 ter), con riferimento alle prestazioni erogate a domicilio o in ambiente residenziale rivolte a persone con handicap permanente grave o a soggetti ultra sessantacinquenni non autosufficienti (in entrambi i casi specificamente certificati), ha introdotto la deroga secondo cui deve essere presa in considerazione la situazione economica del solo assistito, salvo i limiti individuati da un apposito decreto ministeriale.

Nella fattispecie in esame non appare nemmeno certa l’applicabilità di tale deroga (in quanto, come già detto, non risulta dimostrato che, al momento dell’adozione degli atti censurati l’assistita fosse qualificabile come "non autosufficiente"), ma ciononostante ciò non risulta comunque essere determinante. Anche laddove dovesse ritenersi in concreto applicabile il comma 2 ter dell’art. 3 del d. lgs. 109/98, la rigida interpretazione del principio da esso ricavato, sostenuta anche da parte della giurisprudenza, può essere superata, in un’ottica di coordinamento con i principi costituzionali come più sopra individuati, alla luce del condivisibile orientamento espresso dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 551/2011, nella quale si legge che la mancata adozione del regolamento richiamato dall’art. 3 del d. lgs. 109/98 "non può esimere l’Amministrazione comunale dall’esaminare la situazione fattuale e reddituale del soggetto svantaggiato, essendo comunque presenti nella legislazione vigente gli elementi per tale determinazione".

Deve quindi ritenersi che, anche nel caso di specie, debba trovare applicazione la disciplina in tale norma contenuta. Peraltro la stessa sentenza chiarisce che "è fuori discussione che occorre tenere presente la situazione reddituale complessiva del nucleo familiare, e non solo quella del soggetto svantaggiato, essendo evidente il concorso del reddito complessivo del nucleo in parola per la sussistenza del soggetto in parola", così confermando quanto già precedentemente affermato da questo Tribunale nella propria sentenza n. 1470 del 2009. In tale occasione si era ritenuto che, in assenza del suddetto decreto attuativo (con il quale il Presidente del Consiglio potrebbe o avrebbe potuto dare attuazione al principio e delimitarne la portata, individuando le ipotesi marginali nelle quali può riespandersi la disciplina generale dell’ISEE familiare), le amministrazioni titolari delle funzioni amministrative in materia di interventi sociali sul territorio, debbano operare scelte concrete, in linea con i principi di dignità intrinseca, autonomia individuale e indipendenza della persone disabile affermati dalla Convenzione di New York, sottoscritta dall’Italia e recentemente ratificata dal Parlamento con legge 3/3/2009 n. 18.

Proprio un’interpretazione logicosistematica della normativa di settore impone una lettura dell’art. 3 comma 2ter del D. Lgs. 109/98 secondo cui sussiste "l’obbligo di sviluppare l’indagine sul reddito familiare valorizzando la posizione individuale del soggetto colpito da gravi limitazioni psicofisiche e dunque assumendo in via prioritaria i suoi redditi come autonomi e separati ai fini del calcolo della contribuzione al costo della prestazione resa. Ciò tuttavia non avviene senza limite alcuno, potendosi allargare la valutazione al nucleo di appartenenza ove la capacità contributiva complessiva superi una determinata soglia, determinata secondo canoni di correttezza, logicità e proporzionalità, ossia alla luce delle concrete condizioni di vita di una famiglia che accoglie al suo interno una persona svantaggiata" (principio già espresso nella sentenza TAR Brescia, I, n. 350 del 6 marzo 2008 e ribadito nella sentenza 1470/09, confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 551/2011).

In altre parole, non si può prescindere dal valorizzare il dato letterale di riferimento, il quale sembra affermare che l’applicazione dei principi sull’ISEE sia limitata ad ipotesi circoscritte, individuate con il decreto che deve (o avrebbe dovuto) riconoscere un rilievo predominante alla situazione economica del solo assistito nell’ottica di facilitare la sua convivenza con il nucleo familiare. Al riguardo il Collegio non ravvisa ragione di scostarsi dal proprio precedente, rappresentato dalla sentenza n. 18 del 14 gennaio 2010, con il quale si è affermato che "non sembra condivisibile una lettura della seconda parte del comma 2ter tesa a riconoscere un principio assoluto ed incondizionato, mentre al D.P.C.M. sarebbe demandata la funzione, esclusiva ed eventuale, di limitarne la portata. Da una lettura complessiva emerge viceversa che la disposizione affida all’autorità statale, in via contestuale, sia il compito di raggiungere il delineato obiettivo a favore dei soggetti tutelati sia la determinazione dei limiti residuali entro i quali l’ISEE familiare può comunque trovare applicazione: spetta in altre parole al Presidente del Consiglio dare attuazione al principio e delimitarne la portata, individuando le ipotesi marginali nelle quali può riespandersi la disciplina generale dell’ISEE familiare". In assenza del suddetto decreto, pare evidente che la proposizione normativa – come già detto immediatamente precettiva – debba essere nella sua globalità tradotta in scelte concrete dalle amministrazioni titolari delle funzioni amministrative in materia di interventi sociali sul territorio.".

Deve, quindi, essere respinto il ricorso nella parte in cui tende all’annullamento degli atti impugnati in ragione di una pretesa illegittimità della valutazione del reddito dell’intero nucleo familiare di appartenenza del disabile: correttamente, infatti, l’impugnato Piano socioassistenziale comunale ha individuato l’I.S.E.E. come criterio generale di valutazione della situazione economica delle persone che richiedono prestazioni sociali agevolate, considerando a tal fine la condizione economica del richiedente in relazione ad elementi reddituali e patrimoniali del nucleo familiare cui egli appartiene.

Anche la successiva ammissione a contributo – da cui si desume, a contrario, la quota di compartecipazione destinata a rimanere a carico delle ricorrenti – appare frutto della puntuale applicazione degli atti regolamentari adottati dal Comune di Rodengo Saiano, in un’ottica di valorizzazione dei principi sopra detti. Un’eventuale diversità e particolarità della situazione concreta, la quale avrebbe potuto richiedere una specifica istruttoria da parte del Comune, non risulta, nel caso di specie, nemmeno asserita in modo specifico, se non assistita da un principio di prova, con la conseguenza che, non potendosi conoscere la reale situazione reddituale del nucleo familiare coinvolto, non può essere apprezzata un’eventuale inadeguatezza del contributo riconosciuto dal Comune.

Né nel ricorso si trova alcun accenno al diverso profilo del collegamento che, secondo quanto rappresentato dalla ricorrente nella propria nota del 26 luglio 2010, il Comune avrebbe operato tra "non autosufficienza" (quale condizione per rendere "necessario" il ricovero) e percezione dell’indennità di accompagnamento, in ragione del quale la autosufficienza sarebbe comprovata dal mancato godimento di un assegno relativo all’indennità di accompagnamento.

Ciò preclude a questo giudice di entrare nel merito della questione, senza però, si ritiene, che ciò possa rendere inopportuno sottolineare, ai fini delle valutazioni proprie della parte ricorrente, che l’indennità di accompagnamento prevista dall’art. 1 della legge 1980 n. 18 spetta ai cittadini nei cui confronti "sia stata accertata una inabilità totale e che, in aggiunta, si trovino nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua" (cfr. tra le tante Cass. Civ., sez. lav., 22 ottobre 2008, n. 25569 e giurisprudenza ivi richiamata).

Data la natura prettamente interpretativa delle questioni dedotte, il Collegio ravvisa giustificati motivi per disporre la compensazione delle spese del giudizio tra le parti in causa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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