Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-06-2011) 22-06-2011, n. 25176

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe, il Tribunale di Monza applicava a S.C.C.J., a norma degli artt. 444 e 448 c.p.p., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, la pena di mesi 4 di reclusione e di 200 Euro di multa per il reato di furto e di cinque mesi e dieci giorni di reclusione per il reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, fatti accertati entrambi il 19.8.2010. 2. Propone ricorso per cassazione l’imputato che si duole della mancanza di motivazione in ordine al giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche e all’omesso riconoscimento della continuazione tra i due reati.

Motivi della decisione

1. Va preliminarmente rilevato, d’ufficio, che la fattispecie di reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, non può più trovare applicazione alla luce della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008 (2008/115/CE), recante "Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare", il cui termine di trasposizione è scaduto il 24 dicembre 2010, e della interpretazione datane dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza del 28 aprile 2011, procedimento C-61/11 PPU, imp. Hassen El Dridi, Con tale sentenza la Corte Europea ha affermato che "la direttiva 2008/115, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo".

E ha dichiarato che spetta al giudice nazionale "disapplicare ogni disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l’art. 14, comma 5-ter, di tale D.Lgs.", tenendo altresì nel debito conto il principio "dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri".

La decisione della Corte di Giustizia e il diritto dell’Unione, interpretato dalla Corte in maniera autoritativa con effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni, incidono sul sistema normativo impedendo la configurabilità del reato e producendo effetti che non possono che considerarsi analoghi all’abolitio criminis.

Non può a tale proposito ingenerare incertezze il riferimento contenuto, nel monito della sentenza El Dridi, alla applicabilità della "pena più mite". Nell’ordinamento non sono individuabili reati diversi e meno gravi i cui elementi costitutivi possano ritenersi interamente contenuti nella fattispecie delineata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, e che siano perciò capaci di riespandersi a fronte della necessaria disapplicazione della fattispecie da disapplicare (previa riqualificazione e concessione comunque di un termine a difesa nel rispetto dei principi consegnati dalla sentenza Drassich, 11 dicembre 2007 – ricorso n. 25575/04, della Corte EDU).

Nè potrebbero prendersi in considerazione in sede di legittimità eventuali ipotesi di reato alternative che richiederebbero una modificazione della contestazione in fatto, l’accertamento degli ulteriori e diversi elementi costitutivi, il riconoscimento del diritto dell’imputato di difendersi anche in relazione ai diversi aspetti richiesti per l’integrazione di tali ipotesi.

Il richiamo alle tradizioni costituzionali comuni e ai diritti fondamentali rende per altro evidente che i principi evocati dalla sentenza El Dridi sono quelli elaborati, anche dalla Corte EDU, in tema di art. 7 della Convenzione, mentre la sentenza della CtGUE lager, pure richiamata (e che tratta di sanzioni amministrative), palesa come nel linguaggio della Corte il termine "pene" si riferisca a qualsivoglia regime sanzionatorio o afflittivo, non necessariamente corrispondente ad un trattamento "penale" secondo l’ordinamento italiano. Con la conseguenza che il richiamo al principio della applicabilità della pena più mite deve intendersi comprensivo sia delle ipotesi di vera e propria successione di legge più favorevole nel tempo sia delle ipotesi di depenalizzazione o abolitio criminis.

In relazione al reato in esame, realizzato prima della scadenza dei termini per il recepimento della direttiva, deve per conseguenza dichiararsi che il fatto non è (più) preveduto dalla legge come reato, adottando cosi la formula che più s’attaglia alla situazione normativa in esame, non espressamente considerata, per evidenti ragioni storiche, dai redattori del codice di rito.

Più volte la stessa Corte costituzionale ha d’altra parte riconosciuto che "i principi enunciati nella decisione dalla Corte di giustizia si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno, con il valore di jus superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui quella norma conserva efficacia e deve essere applicata anche da parte del giudice nazionale" (C. Cost. ordinanza di n. 63 del 2003, nonchè ordinanze nn. 255 del 1999, 125 del 2004 e 241 del 2005). Così mostrando di annettere valore conformativo alle sentenze della CtGUE che in via d’interpretazione pregiudiziale dichiarano l’incompatibilità del diritto nazionale con quello Europeo.

E analogamente, in relazione a ipotesi in qualche modo simile, questa Corte, sez. 1, sentenza del 20.1.2011, imp. Titas Luca, ha già ritenuto (citando altresì Corte Cost. nn. 13 del 1985, 389 del 1989, 168 del 1991) che la pronunzia della Corte di Giustizia che accerta l’incompatibilità della norma incriminatrice con il diritto Europeo (si trattava del caso Schwibbert) "si incorpora nella norma stessa e ne integra il precetto con efficacia immediata", così producendo "una sorta di abolitio criminis" che impone, in forza di interpretazione costituzionalmente necessitata, di estendere a siffatte situazioni di sopravvenuta inapplicabilità della norma incriminatrice nazionale, la previsione dell’art. 673 cod. proc. pen..

In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio in relazione al reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 15, comma 5-ter, perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato, con eliminazione della relativa pena.

2. Per il resto il ricorso deve essere rigettato, giacchè i motivi sono, con riguardo al delitto di furto, all’evidenza infondati, non potendo l’imputato dolersi del trattamento sanzionatorio da lui stesso richiesto se esso non è illegale.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter, perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato ed elimina la relativa pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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