Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-06-2011) 22-06-2011, n. 25173 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Tribunale del riesame di Reggio Calabria rigettava il riesame presentato a B.D. avverso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in relazione al delitto di concorso esterno in associazione mafiosa e concorso nel delitto di turbativa d’asta aggravata dal metodo mafioso.

Preliminarmente osservava che il procedimento era scaturito nell’ambito dell’indagine conseguente alla cattura del latitante C.P. e all’enorme mole di intercettazioni telefoniche che erano state eseguite in vista di quell’obiettivo e tra queste era emerso che l’attuale indagato era un imprenditore al servizio della cosca Buda-Imerti. Dall’esame delle intercettazioni che lo riguardavano emergeva che egli aveva abituali colloqui col boss B. P. col quale discuteva di come pilotare gli appalti e che B. lo considerava importante per gli interessi della cosca; aveva conoscenze con altri boss della n’drangheta quali G.R., C.U., A.C. del quale aveva favorito la latitanza.

Dall’esame degli indizi raccolti sussisteva la possibilità di ritenere che il Ba. avesse instaurato con la cosca di riferimento un rapporto collusivo nel senso che egli veniva protetto e aiutato ad acquisire appalti, ad acquistare beni alle aste, a svolgere attività in altre aree territoriali e in cambio assicurava alla cosca vantaggi economici.

Non poteva però ritenersi che fosse intraneo alla cosca in quanto non aveva mai partecipato a summit mafiosi, non aveva interloquito con gli affari della medesima ed anzi aveva assunto atteggiamenti tipici di chi non è intraneo; ad esempio doveva contrattare le condizioni degli accordi col gruppo dirigente, doveva chiedere ai vertici di tenere fuori dagli accordi un intraneo. Ne conseguiva che la sua condotta doveva essere qualificata come concorso esterno in associazione anche se di particolare gravita per il suo carattere di continuità.

Tale fattispecie poteva coesistere con l’altro delitto contestato all’indagato inerente all’acquisto in asta immobiliare di beni immobili provenienti da fallimento e l’azione contestata aveva consentito al Ba., con l’uso di metodi di intimidazione mafiosa, di acquistare tali beni escludendo altri concorrenti al fine di agevolare il predominio della cosca di appartenenza nel territorio.

Il tribunale esaminava le obiezioni della difesa e rilevava che non era determinante la circostanza che anche Ba. avesse subito degli attentati, visto che anche l’imprenditore colluso, se opera in un territorio diverso, è costretto a sottostare alle intimidazioni della cosca di riferimento per quel territorio; inoltre l’indagato era rilevante per gli interessi della cosca visto l’interessamento da loro dimostrato a far vincere le gare proprio al Ba..

In relazione alle esigenze cautelari osservava che sussisteva il concreto pericolo di reiterazione visto che l’indagato era a conoscenza dei meccanismi di gestione dei latitanti, era legato ad una cosca potente e radicata nel territorio, capace di infiltrarsi nel tessuto economico del territorio.

Avverso la decisione presentava ricorso l’indagato con due distinti atti di ricorso con i quali deduceva:

– Violazione dell’art. 273 c.p.p. in quanto il giudizio di gravita indiziaria era fondato solo su una interpretazione lapidaria delle conversazioni intercettate, senza svolgere una motivazione logica e congrua su come avesse potuto lucrare dal suo rapporto con la cosca, su come avesse assunto una posizione di dominanza del mercato e non invece quella di soggetto succube della tracotanza della cosca, avendo egli subito danneggiamenti e minacce; la sua individuazione come imprenditore colluso configgeva con quella di concorrente esterno dell’associazione che presupponeva un collegamento sporadico con la cosca; mancavano i gravi indizi in relazione al reato di turbativa d’asta non essendo stati provati i metodi violenti per dissuadere gli altri contraenti;

– Violazione di legge in relazione al delitto di cui agli artt. 353 e 629 c.p. in quanto dalle telefonate emerge solo un intento di voler contattare gli altri partecipanti all’asta, senza che fosse stato provato l’uso dell’intimidazione che non poteva essere tratta dalla circostanza che costoro non avessero partecipato;

– Violazione di legge e difetto di motivazione sulla sussistenza dei gravi indizi in relazione ai reati ritenuti dal Gip visto che non vi era prova che la cosca Buda-Imerti lo avesse protetto e avesse svolto una attività di mediazione in suo favore, l’indagato nei momenti di difficoltà economica si era rivolto ai canali istituzionali e non alla cosca; le conversazioni erano state interpretate in senso sfavorevole all’indagato in modo incongruo; infatti il Ba. non aveva mai apportato vantaggi alla cosca e i rappresentati della medesima non riconoscevano a lui alcun ruolo in tal senso, era vittima della mafia, nella vicenda relativa alla partecipazione all’asta era stato l’unico a non versare il prezzo dell’acquisto e a nulla rilevava che avesse reso partecipe il B. dei margini di guadagno dell’affare;

– Presentava una memoria con la quale rilevava che a seguito di indagini difensive era stata acquisita la prova che i beni assegnati con asta erano stati poi ipotecati per mancato pagamento delle rate mensili;

– Presentava ulteriore memoria con la quale escludeva che i risultati delle intercettazioni consentissero di ritenere provata la collusione dell’imprenditore; esaminava tutti gli elementi dì fatto utilizzati dai giudici di merito per ritenere fondati i gravi indizi in relazione ai tre reati contestati e riteneva che la valutazione data dal giudice di merito fosse illogica e priva di riscontri oggettivi;

in relazione alla problematica figura dell’imprenditore colluso osservava che non poteva farsi ricorso a canoni omogenei di valutazione o a massime di esperienza, dovendosi tenere conto che in certe realtà territoriali il rapporto con gruppi mafiosi è necessario per la stessa sopravvivenza dell’impresa, mentre ciò a cui deve prestarsi attenzione è se l’imprenditore abbia accettato di entrare in rapporto sinallagmatico con la cosca mafiosa.

La Corte ritiene che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili in quanto si limitano e rielaborare gli elementi acquisiti a carico dell’indagato dando una diversa interpretazione di quelle conversazioni e delle azioni compiute, operazione non consentita in sede di legittimità. L’ordinanza ha dato conto con ampiezza dei risultati delle intercettazioni, del contenuto dei colloqui e delle azioni conseguenti, costruendo con logicità e congruità la figura del concorso esterno in associazione mafiosa di questo imprenditore che gestisce i suoi affari insieme ad appartenenti alla cosca, dando conto a loro delle proprie azioni allo scopo di aver protezione e aiuto, non potendo esservi nessuna altra spiegazione logica alle sue parole. La figura del concorso esterno in associazione mafiosa è stata correttamente esaminata evidenziando che nel caso di specie l’imprenditore colluso agiva da estraneo alla cosca servendosi di questa per ottenere vantaggi in cambio di utilità economiche. La partecipazione attiva alla turbativa d’asta non contraddice a tale costruzione, ben potendo l’imprenditore farsi parte attiva del reato utilizzando anche metodi mafiosi pur senza essere intraneo alla cosca. Le considerazioni introdotte con le memorie sono prive di specificità, astratte e si limitano ad offrire una diversa interpretazione delle conversazioni intercettate, con operazione non consentita in sede di legittimità. La circostanza che l’indagato non avesse provveduto a pagare i ratei del mutuo non eliminava l’illegalità della condotta antecedente tramite la quale aveva ottenuto il ritiro dall’asta di tutti gli altri contraenti, effetto direttamente collegato agli intenti manifestati nel corso delle intercettazioni con i responsabili della cosca mafiosa. Il quadro probatorio fino ad ora acquisito consente di ritenere sussistenti i gravi indizi di reato in relazione a tutte le fattispecie contestate.

Il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 alla Cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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