Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 25-05-2011) 22-06-2011, n. 25039

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata il Tribunale di Venezia ha affermato la colpevolezza di B.M. e A.I. in ordine al reato:

a) di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a) loro ascritto per avere effettuato, in assenza della prescritta autorizzazione, il B. nella qualità di legale rappresentante della ditta Nuova Veneziana Restauri 2000 S.r.l. e l’ A. di titolare della omonima ditta individuale, il deposito di circa 2.600 me. di terre da scavo, da qualificarsi rifiuti, stante la mancata acquisizione del preventivo parere dell’ARPA e la mancata effettuazione degli accertamenti analitici previsti.

La sentenza ha, invece, assolto gli imputati dal reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 (capo b) perchè il fatto non sussiste.

Il giudice di merito ha accertato in punto di fatto che la ditta Nuova Veneziana Restauri 2000 S.r.l.. aveva fatto trasportare dagli automezzi della ditta A. su un terreno di sua proprietà 2.600 metri cubi di terre da scavo prelevate in un cantiere ove erano in costruzione alcuni edifici.

Successivamente la stessa ditta aveva provveduto alla rimozione di circa 1.125 metri cubi di materiale e provveduto al livellamento del terreno residuo. Nella sentenza si da altresì atto che mediante le analisi successivamente effettuate era stato accertato che le terre da scavo erano prive di sostanze inquinanti.

In sintesi, il giudice di merito, pur avendo rilevato che non è più richiesto dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 come sostituito dal D.Lgs. n. 4 del 2008, art. 2, comma 23, per il riutilizzo delle terre da scavo il preventivo parere dell’ARPA, ha ritenuto che le stesse dovessero egualmente qualificarsi rifiuto, non essendosi ottemperato alle prescrizioni previste dalla legge per il loro riutilizzo. La sentenza ha altresì escluso che nel caso in esame potesse ravvisarsi un’ipotesi di deposito temporaneo di rifiuti, non essendo avvenuto il deposito sul luogo di produzione dei rifiuti stessi.

La sentenza ha inoltre condannato gli imputati, in solido con il responsabile civile Nuova Veneziana Restauri 2000 S.r.l. al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle costituite parti civili WWF Italia e Legambiente Volontariato Veneto.

Avverso la sentenza ha proposto appello il difensore degli imputati e l’impugnazione è stata trasmessa a questa Suprema Corte ai sensi dell’art. 568 c.p.p., u.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti contestano la quantificazione del terreno oggetto di deposito, denunziando la erroneità del metodo "ad occhio" utilizzato dai vigili per calcolarne la consistenza; deducono, poi, nella sostanza che il materiale depositato era costituito da terreno vegetale, in nessun caso equiparabile alle terre da scavo; terreno che doveva essere utilizzato per costituire l’area verde di palazzine in corso di costruzione. Si osserva, infine, che a seguito della modifiche apportate al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 dalla L. n. 4 del 2008 non è più richiesto il parere dell’ARPA per il riutilizzo delle terre da scavo e che nel caso in esame le terre rispondevano a tutti i requisiti richiesti dalla legge per il loro reimpiego.

Con il secondo motivo di impugnazione viene censurata la mancata concessione della attenuante della riparazione del danno per equivalente. Si deduce che il terreno accumulato sul fondo di proprietà della "Nuova Veneziana Restauri" è stato completamente asportato e si contesta in punto di fatto la diversa valutazione del giudice di merito.

Con il terzo motivo di impugnazione viene censurata l’omessa concessione delle attenuanti genetiche e l’eccessività della pena inflitta.

Con l’ultimo motivo si chiede il rigetto della pretesa risarcitoria formulata dalle parti civili, deducendosi la carenza di legittimazione delle associazioni costituitesi.

Si deduce che, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 2006, ai sensi dell’art. 311, comma 2, del testo unico, titolare del diritto al risarcimento del danno ambientale è solo lo Stato e non anche gli enti territoriali minori. L’art. 318 del testo unico in materia ambientale inoltre ha abrogato la L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18 ad eccezione del comma 5, in tal modo legittimando all’azione risarcitorìa solo lo Stato e non più l’ente locale. L’art. 318, comma 2, lett. b), sempre del testo unico, ha abrogato il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 9, comma 3, che consentiva alle associazioni ambientaliste di proporre le azioni risarcitorie che "spettino al Comune ed alla Provincia conseguenti a danno ambientale".

Nel nuovo assetto normativo, pertanto, le associazioni ambientaliste, riconosciute della L. n. 349 del 1986, ex art. 13 hanno solo la possibilità di intervenire nel giudizio per danno ambientale con i poteri spettanti alla parte offesa e di ricorrere in sede giurisdizionale amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi, così come prevede il sopravvissuto della L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5.

Nel prosieguo del motivo di gravame, esclusa la risarcibilità in favore delle associazioni ambientaliste del cosiddetto danno ambientale, si osserva, in sintesi, che nel caso in esame deve essere esclusa l’esistenza di un danno risarcibile diverso ed, in particolare, nella specie non sono ravvisabili nè il dedotto "discredito che ha investito l’effettività delle funzioni svolte dall’associazione …", nè il "deterioramento dell’immagine dell’associazione stessa". hi subordine si deduce la illegittimità costituzionale della L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5, in relazione all’art. 3 Cost..

Con memoria pervenuta il 12.5.2011 la difesa dei ricorrenti ha inoltre dedotto la illegittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., comma 3, nella parte in cui stabilisce la inappellabilità delle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda, per contrasto con l’art. 3 Cost..

Tale contrasto viene rapportato al fatto che a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 26 che ha apportato modifiche alla L. n. 689 del 1981, art. 23 le sentenze dei giudici ordinali rese nei procedimenti ex L. n. 689 del 1981 sono divenute appellabili.

Il ricorso non è fondato.

Preliminarmente deve essere rilevata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., comma 3, sotto il profilo, dedotto dai ricorrenti, della disparità di trattamento tra soggetti condannati alla pena dell’ammenda, nei cui confronti la sentenza di condanna è inappellabile, e soggetti destinatari di un’ordinanza-ingiunzione al pagamento di una sanzione amministrativa, i quali, a seguito delle modifiche della L. n. 689 del 1981, art. 23 introdotte dalla L. n. 40 del 2006, art. 26 possono appellare la sentenza emessa dal giudice ordinario nel giudizio di opposizione.

E’ noto che la discrezionalità legislativa trova sempre un limite nella ragionevolezza delle statuizioni che comportano disparità di trattamento tra i soggetti. (Corte Costituzionale 16.4.1985 n. 104).

A tal fine è, però, necessario che vi sia sostanziale omogeneità tra le situazioni fattuali e processuali disciplinate irrazionalmente in modo diverso, rientrando altrimenti la diversità di disciplina nella discrezionalità del legislatore, che non può essere oggetto di sindacato di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 3 Cost..

Orbene, non sussiste alcuna omogeneità tra il procedimento che porta all’emissione di una ordinanza-ingiunzione relativa alle sanzioni amministrative con il successivo eventuale giudizio di opposizione ed il procedimento penale che si conclude con la sentenza di condanna alla pena dell’ammenda per un fatto costituente reato contravvenzionale.

Sul punto è agevole osservare che l’applicazione delle sanzioni amministrative avviene direttamente da parte della pubblica amministrazione, senza il previo contraddittorio con l’autore della violazione, ed il successivo giudizio di opposizione è caratterizzato da una sostanziale sommarietà del procedimento, nel quale l’opponente può anche non essere assistito da un difensore ed il giudice convalida l’ingiunzione in caso di mancata comparizione della parte privata senza giustificato motivo (della L. n. 689 del 1981, art. 23, commi 4 e 5).

L’accertamento del reato, anche se punito con la sola pena dell’ammenda, avviene a seguito dell’esercizio dell’azione penale da parte del P.M. in un giudizio caratterizzato dalla necessità della difesa tecnica dell’imputato e dalla piena osservanza del contraddittorio tra le parti, cui fa seguito la condanna dell’imputato solo se la sua responsabilità viene accertata al di la di ogni ragionevole dubbio (art. 533 c.p.p., comma 1).

Sicchè, non essendovi omogeneità, sul piano delle garanzie processuali, tra il procedimento attraverso il quale avviene l’accertamento delle violazioni amministrative e quello concernente i reati, nel quale vi è piena garanzia della difesa dell’imputato, che giustifica per le violazioni che vengano punite con la sola pena dell’ammenda l’unicità del giudizio di merito, si versa nel campo della discrezionalità legislativa insindacabile ai sensi del parametro di legittimità costituzionale richiamato dai ricorrenti.

Tanto premesso, osserva la Corte che il primo motivo di gravame è infondato.

Ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, comma 3, come sostituito dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, art. 2, comma 23, ove la produzione di terre e rocce da scavo avvenga nell’ambito della realizzazione di opere soggette a permesso di costruire o a denuncia di inizio di attività, la sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 186, comma 1 nonchè i tempi dell’eventuale deposito che non possono superare un anno, devono essere dimostrati e verificati nell’ambito delle procedure previste per il permesso di costruire o della DIA. Ai sensi del comma 7 per i progetti già in corso di realizzazione gli interessati possono integrare la documentazione comunicando il rispetto dei requisiti prescritti.

Ai sensi del comma 5 "Le terre e rocce da scavo qualora non utilizzate nel rispetto delle condizioni di cui al presente artìcolo, sono sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti di cui alla parte quarta del presente decreto".

La sentenza impugnata, pertanto, ha correttamente affermato che le terre da scavo di cui alla contestazione sono soggette alla disciplina dei rifiuti, non essendo state osservate le prescrizioni di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 in ordine alle possibilità di riutilizzo, sia nella formulazione previgente della norma citata, che prevedeva la redazione di un progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale o, quanto meno, ad approvazione dell’amministrazione competente previo parere dell’ARPA, sia nella formulazione attualmente vigente (come sostituita dal D.Lgs. n. 4 del 2008, art. 2), in cui è richiesto che l’accertamento dei requisiti prescritti dall’art. 186, comma 1 siano dimostrati e verificati nell’ambito del procedimento per il rilascio del permesso di costruire o della DIA. Per completezza di esame sul punto va anche osservato che non è applicabile, in quanto in contrasto con l’accertamento di fatto, la riserva costituita dal rinvio a quanto previsto dall’art. 185 e, nel caso concreto, al comma 1, lett. e bis), (lettera aggiunta dal D.L. 28 novembre 2008, n. 185, art. 20, comma 10 sexies, lett. a), convertito in L. 29 gennaio 2009, n. 2), ai sensi del quale non rientra nel campo di applicazione della parte quarta del decreto: "Il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale scavato nel corso dell’attività di costruzione ove sia certo che il materiale sarà utilizzato a fini di costruzione allo stato naturale nello stesso sito in cui è stato scavato".

E’ il caso, poi, di rilevare che tale ultimo disposizione trova sostanziale riscontro nella vigente formulazione dell’art. 185, comma 1, lett. c), del testo unico sull’ambiente, come sostituito dal D.Lgs. n. 205 del 2010, art. 13 che ha dato attuazione alla Direttiva 2008/98/CE. Nel resto le censure contenute nel primo motivo di gravame hanno esclusivamente natura fattuale e sono, perciò, inammissibili.

Il secondo ed il terzo motivo di gravame, invece, contengono solo censure e doglianze di merito, inammissibili in sede di legittimità, e, peraltro, in contrasto con l’accertamento di fatto in ordine al quantitativo di terreno effettivamente rimosso dai ricorrenti.

E, infine, infondato il terzo motivo di gravame.

E’ stato già reiteratamente affermato da questa Suprema Corte in ordine alla costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste che, anche dopo l’abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale, le stesse sono legittimate alla costituzione di parte civile "iure proprio" nel processo per reati ambientali, (sez. 3, 11.3.2009 n. 19883, Fabris, RV 243720).

L’espressa disposizione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, comma 2, che riserva allo Stato la possibilità di costituirsi parte civile in materia di danno ambientale e l’abrogazione delle norme in materia di potere surrogatorio degli enti territoriali da parte delle associazioni ambientaliste, salva la facoltà dell’intervento in giudizio ad adiuvandum, non esclude l’applicabilità delle regole generali in materia di risarcimento del danno e di costituzione di parte civile, (sez. 2, 28.3.2007 n. 20681, Cuzzi e altri, RV 236779).

Orbene, l’ordinanza, con la quale il giudice di merito ha ammesso la costituzione delle parti civili, e la sentenza impugnata hanno fatto puntuale riferimento proprio agli enunciati principi di diritto e la pronuncia di condanna degli imputati in favore delle parti civili risulta correttamente correlata ad un potenziale danno proprio delle associazioni da accertarsi in sede civile.

Pertanto, non vi è stata nè violazione da parte del giudice di merito delle disposizioni richiamate dai ricorrenti, nè una interpretazione della L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5, che configuri un non meglio precisato contrasto della norma con l’art. 3 Cost..

Il ricorso deve essere, perciò, rigettato con le conseguenze di legge.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna singolarmente i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *