T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 27-06-2011, n. 5675 Concorso interno

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- I ricorrenti, tutti dipendenti del Ministero dell’economia e delle finanze, ebbero ad impugnare dinanzi al T.A.R. Lazio, con ricorso rubricato al n. R.g. 11128 del 2007, i provvedimenti datati 26 luglio 2007 con i quali il Ministero dell’economia e delle finanze aveva respinto le istanze volte ad ottenere la ripartizione tra gli uffici regionali dei residui 367 che ancora dovevano essere coperti a seguito della procedura interna, bandita l’11 luglio 2001, per il passaggio all’area C, posizione economica C1, per complessivi 715 posti. Il ricorso ebbe esito favorevole ai ricorrenti tanto che questa Sezione, con sentenza 29 luglio 2009 n. 7639 annullò gli atti impugnati. Non essendo intervenuto alcun adempimento in merito al decisum del Tribunale amministrativo, nonostante non fosse stato interposto appello dall’Amministrazione finanziaria, i ricorrenti proponevano il primo dei due ricorsi qui in esame (rubricato al n. R.g. 5466 del 2010) per ottenere l’esecuzione del giudicato ormai formatosi sulla suindicata sentenza.

Pendente iudicio, con atto depositato nella Segreteria della Sezione in data 6 novembre 2010, la difesa erariale produceva il decreto n. 62689 del 27 luglio 2010 con il quale il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione generale del personale e dei servizi del Ministero dell’economia e delle finanze aveva disposto la revoca della procedura di selezione interna per la copertura di n. 715 posti disponibili nell’area C, posizione economica C1, bandita con decreto n. 13302 dell’11 luglio 2001, del Dipartimento delle politiche fiscali del medesimo Ministero.

2. – A questo punto, venuti a conoscenza solo in occasione del deposito giudiziale di tale atto, i ricorrenti proponevano ricorso recante motivi aggiunti impugnando, limitatamente all’assegnazione dei 367 posti residuali di cui all’art. 1, comma 2, del bando, l’atto di revoca sostenendone la nullità perché elusivo del giudicato ormai formatosi sulla sentenza 29 luglio 2009 n. 7639 nonché, comunque la illegittimità nel merito.

I ricorrenti, ad ogni buon conto, proponevano anche ricorso autonomo nei confronti del predetto atto di revoca (rubricato al n. R.g. 600 del 2011) con il quale ribadivano le ragioni di nullità ed illegittimità del ridetto atto ministeriale già sostenute con il ricorso recante motivi aggiunti del quale sopra si è detto.

3. – E’ costituito in giudizio con riferimento ad entrambi i ricorsi il Ministero intimato. La difesa erariale sostiene la legittimità e la correttezza della procedura svolta dagli Uffici competenti che, tenendo conto del nuovo assetto ministeriale rispetto alla, ormai lontana, epoca in cui fu bandito il concorso ed ai sopravvenuti interventi normativi anche interni che hanno modificato sostanzialmente il volto organizzativo del Ministero, hanno inevitabilmente dovuto prendere atto della impraticabilità di una concreta attuazione degli esiti della procedura svolta, ottemperando alla sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio del 2009 e facendo chiarezza sulla impossibilità di procedere alla attribuzione delle nuove posizioni ai richiedenti.

I ricorsi sono stati trattenuti per la decisione nel corso dell’udienza di merito dell’11 maggio 2011.

4. – Va anzitutto disposta la riunione del ricorso n. Rg. 600 del 2011 al ricorso n. R.g. 5466 del 2010, per la evidente connessione soggettiva ed oggettiva che collega intimamente i due giudizi, posto che il contenuto dell’atto recante motivi aggiunti proposto con riferimento al secondo dei due ricorsi suindicati coincide pianamente, a mò di duplicazione, con l’oggetto del ricorso n. Rg. 600 del 2011.

Non impedisce la riunione dei due ricorsi la eccepita litispendenza tra i due processi evidenziata dalla difesa erariale.

L’istituto della litispendenza non è specificamente disciplinato dal decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 104, recante il Codice del processo amministrativo; tuttavia nel caso descritto dall’art. 39 c.p.c. la disposizione processualcivilistica troverà piana applicazione dinanzi al giudice amministrativo, per effetto del rinvio "mobile e costante" alle disposizioni del codice di procedura civile realizzato dalla previsione di cui all’art. 39, comma 1, c.p.a. in sede di "rinvio esterno", secondo la quale "Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali".

Il principio, posto anche nel processo amministrativo dall’art. 70 c.p.a., (testualmente "Il collegio può, su istanza di parte o d’ufficio, disporre la riunione di ricorsi connessi") secondo il quale se più procedimenti relativi a cause connesse pendono davanti allo stesso giudice questi, anche d’ufficio, può disporne la riunione, infatti, ha carattere generale, giacché risponde alle stesse esigenze di ordine processuale (evitare il pericolo di contraddittorietà e, in ogni modo, di duplicità di giudicati) in base alle quali, salvi i limiti del giudicato che sì fosse già formato, la litispendenza può essere dichiarata in ogni stato e grado del processo (cfr. art. 39 c.p.c.). Sta di fatto, però, che appare corretto parlare di litispendenza in senso tecnico solo quanto i ricorsi identici siano pendenti dinanzi a giudici diversi, determinandosi l’obbligo in capo al giudice successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, anche d’ufficio, di dichiarare con ordinanza la litispendenza e di disporre la cancellazione della causa dal ruolo ( art. 39, comma 1, c.p.c., per come modificato dall’art. 45, comma 3, lett. a), della legge 18 giugno 2009 n. 69).

D’altronde il principio di cui all’art. 39, comma 1, c.p.c., anche prima della entrata in vigore del Codice del processo amministrativo avvenuta in data 16 settembre 2010, è stato ritenuto dalla giurisprudenza applicabile anche al processo amministrativo (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 12 novembre 2009 n. 5059, T.A.R. Piemonte, Sez. I, 26 febbraio 2008 n. 302 e T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 9 gennaio 2008 n. 73)

Pertanto, nel caso che qui occupa, essendo i due giudizi pendenti dinanzi allo stesso giudice, più che di litispendenza si potrà parlare di causa di connessione, provvedendosi per tale verso alla riunione tra i giudizi e non alla cancellazione di uno di essi.

5. – Né può ritenersi che costituisca ostacolo alla riunione tra i giudizi la circostanza che quello rubricato al n. R.g. 5466 del 2010 abbia ad oggetto l’esecuzione di una sentenza, mentre l’altro abbia ad oggetto una domanda di annullamento di un atto ai sensi dell’art. 29 c.p.a..

A parte il fatto che in entrambi i ricorsi viene eccepita la nullità per elusione di giudicato dell’atto di revoca, tuttavia nella specie si assiste ad una ipotesi ormai descritta e regolata dall’art. 32, comma 1, c.p.a. secondo il quale "È sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o incidentale. Se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo quanto previsto dai Capi I e II del Titolo V del Libro IV".

Posto che il ricorso n. R.g. 5466 del 2010 ha ad oggetto l’ottemperanza di una sentenza di Tribunale amministrativo regionale ai sensi (oggi) dell’art. 112 e ss. c.p.a. e che le disposizioni disciplinanti il giudizio di ottemperanza non sono collocate nel Titolo V del Libro IV del Codice, l’avere i ricorrenti prodotto motivi aggiunti nell’ambito di un giudizio di ottemperanza provoca soltanto il mutamento del rito, in ordinario, con il quale quel giudizio prosegue e viene deciso.

Può quindi disporsi la riunione del ricorso n. R.g. 600 del 2011 al ricorso n. R.g. 5466 del 2010.

6. – Riuniti i ricorsi va preliminarmente risolto il problema della tempestività della proposizione dei motivi aggiunti nell’ambito del giudizio di ottemperanza n. R.g. 5466 del 2010 nonché della tempestività dell’autonomo ricorso n. R.g. 600 del 2011, atteso anche che la difesa erariale ne chiede espressamente la verifica (cfr. pagg. 8 e 9 della memoria di costituzione prodotta dall’Avvocatura generale).

La vicenda appare complessa dal punto di vista della successione temporale che ha caratterizzato il realizzarsi delle incombenze di notifica e deposito degli atti attraverso i quali la difesa dei ricorrenti ha proposto i due gravami che, come sopra si è specificato, hanno contenuto identico.

Sta di fatto che i ricorrenti, in difetto di elementi probatori presenti in atti che possano riscontrare una conoscenza anticipata del provvedimento impugnato (vale a dire l’atto di revoca del concorso), sono venuti a conoscenza della determina dirigenziale impugnata in occasione del deposito della stessa nella Segreteria della Seconda sezione del T.A.R. Lazio da parte della difesa erariale avvenuto in data 6 novembre 2011.

Orbene, come si è già sopra chiarito, nei confronti di tale atto sono stati proposti due ricorsi identici:

– il primo, incardinato nel ricorso per ottemperanza n. R.g. 5466 del 2010, attraverso lo strumento dei motivi aggiunti, che sono stati notificati in data 17 novembre 2010 e depositati in Segreteria il giorno successivo;

– il secondo ricorso, che ha preso il n. R.g. 600 del 2011, è stato notificato il 4 gennaio 2011 e depositato il 24 gennaio 2011.

Come è noto, ai sensi dell’art. 87, comma 3, primo periodo, c.p.a., "Nei giudizi di cui al comma 2, con esclusione dell’ipotesi di cui alla lettera a), tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti". Posto che tra i giudizi indicati al comma 2 dell’art. 87 c.p.a. compaiono, alla lettera c), i giudizi di ottemperanza, ciò sta a significare che per tali giudizi, fermo il termine di proposizione del ricorso, gli atri termini processuali, tra i quali quelli di deposito del ricorso, sono dimezzati.

Nel caso che ci occupa nessuna tardività è riscontrabile.

Infatti:

A) il ricorso per ottemperanza, n. R.g. 5466 del 2010, per effetto della proposizione dei motivi aggiunti ha subito il mutamento del rito ai sensi dell’art. 32, comma 1, c.p.a. e quindi, trasformandosi in giudizio ordinario non vede applicarsi la previsione della dimidiazione dei termini di cui al surriprodotto art. 87, comma 2, c.p.a. che, del resto, non avrebbe avuto alcun rilievo nel caso di specie dal momento che il ricorso recante motivi aggiunti è stato depositato in Segreteria il giorno successivo rispetto alla notifica del ricorso all’Amministrazione intimata;

B) il ricorso n. R.g. 600 del 2011 ha introdotto un giudizio ordinario, rispetto al quale trova piena applicazione l’art. 45 c.p.a. secondo il quale il termine perentorio per il deposito del ricorso è "di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario" (comma 1), mantendosi "salva la facoltà della parte di effettuare il deposito dell’atto, anche se non ancora pervenuto al destinatario, sin dal momento in cui la notificazione del ricorso si perfeziona per il notificante ovvero" (comma 2).

Non apprezzandosi, quindi, elementi di tardività con riferimento alle impugnazioni proposte, con ricorsi distinti, nei confronti del medesimo atto di revoca, i due gravami risultano essere tempestivi e possono essere scrutinati nel merito.

7. – Sulla scorta della documentazione prodotta da entrambe le parti possono ricostruirsi le vicende che fanno da sottofondo al contenzioso qui in esame.

Nel 2001, con determina dirigenziale 11 luglio 2001 n. 13303 veniva bandito dal Ministero dell’economia e delle finanze (d’ora in poi, per brevità, MEF) un concorso a 715 posti per il passaggio all’area C, posizione economica C1, la cui partecipazione era riservata a dipendenti del soppresso Ministero delle finanze collocati in area B (B1, B2 e B3). Il bando prevedeva che fossero immediatamente coperti 348 posti, mentre i residui 367 sarebbero stati coperti al momento in cui, una volta terminate le operazioni di passaggio orizzontale nell’area C (per il passaggio a C2 e C3), si fossero resi disponibili i 367 posti nella posizione C1.

Subito dopo la conclusione della procedura volta a coprire i primi 348 posti gli odierni ricorrenti proposero istanza per ottenere il passaggio con riferimento ai residui 367 posti, ma l’Amministrazione finanziaria rispose in senso negativo: da qui la proposizione di un ricorso innanzi a questa Sezione definito con la sentenza 28 luglio 2009 n. 7639 che annullò quelle risposte negative e che, con il primo ricorso qui in esame, i ricorrenti chiedono venga eseguita essendo ormai passata in casa giudicata.

L’Amministrazione finanziaria, con il decreto direttoriale n. 62689 del 27 luglio 2010 ha revocato la procedura bandita nel 2001 nella sola parte riferita all’assegnazione dei 367 posti residui, in quanto (e principalmente perché):

a) per i 367 posti non è stato ammesso nessun dipendente al percorso formativo per il passaggio alla posizione economica C1;

b) è trascorso un notevole lasso di tempo dall’emanazione del bando di concorso nel 2001, durante il quale l’organizzazione del Ministero è sensibilmente mutata "per addivenire, in data 1° gennaio 2009, all’istituzione del ruolo unico del Ministero dell’Economia e delle Finanze" (così, testualmente, a pag. 2 del provvedimento di revoca);

c) a causa della nuova organizzazione del MEF sarebbe inattuabile promuovere un percorso formativo per i dipendenti di un solo dipartimento (considerando che il bando, nel 2001, era stato emanato dal solo dipartimento per le Politiche fiscali);

d) la sentenza del T.A.R. Lazio, Sezione seconda, n. 7693 del 2009 lasciava discrezionalità al Ministero in riferimento all’eventuale esercizio, sul bando di concorso, dei poteri di autotutela;

e) si sono subite ulteriori riduzioni di organico per effetto del decreto legge 25 giugno 2008 n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008 n. 133 ed altre sono previste con riferimento alla legge 26 febbraio 2010 n. 196, che impone riduzioni lineari delle dotazioni organiche nella misura del 10%.

8. – Orbene, pare al Collegio essenziale per la decisione della presente controversia verificare il contenuto della sentenza del T.A.R. Lazio, Sezione seconda, n. 7693 del 2009 per comprenderne appieno la effettiva portata applicativa, posto che il Ministero ha ritenuto di eseguirla proprio disponendo la revoca, in parte qua, del bando del 2001 e della procedura con riferimento avviata limitatamente ai 367 posti residui da nominare C1.

Va detto anzitutto che la Sezione, prima di pronunciarsi definitivamente sul ricorso recante il n. R.g. 11128 del 2007 con la sentenza suindicata, ritenne necessario disporre nei confronti dell’Amministrazione finanziaria resistente, con sentenza non definitiva n. 4397 del 29 aprile 2009, "incombenti istruttori intesi ad acquisire, anche per valutare l’attualità dell’interesse azionato in questa sede, motivati e documentati chiarimenti in ordine alle attuali vacanze per le pos. econ. C1 per il personale degli uffici centrali del DPF e delle Commissioni tributarie (ora, del Dipartimento delle finanze), ad eventuali procedure attuate o definite per la copertura delle vacanze in tal modo evidenziate ed alle modalità di copertura dei posti residui per cui è causa" (così si legge espressamente nella sentenza n. 7693 del 2009).

Chiarito ciò, va poi specificato che la sentenza definitiva n. 7693 del 2009, nell’esporre le ragioni che conducevano all’accoglimento del ricorso proposto e ad annullare gli atti di diniego espressi dall’Amministrazione nei confronti delle richieste dei ricorrenti (attualmente tali) formulate in data 6 luglio 2007 e volte ad ottenere che il Ministero realizzasse la ripartizione dei residui posti in attuazione del bando del 2001, anche in applicazione dell’intesa sindacale dell’8 febbraio 2006, sottolineava che, anche in funzione dell’esito della disposta istruttoria (i virgolettati che seguono riproducono fedelmente i passaggi della sentenza n. 7693 del 2009):

1) fosse assodato che la procedura selettiva per cui è causa "fu svolta nel momento di passaggio tra la vecchia organizzazione del Ministero delle finanze e l’istituzione delle Agenzie fiscali";

2) il Ministero aveva reso noti, per un verso, "la drastica riduzione della dotazione organica del personale del DPF in base al DPCM 8 febbraio 2006 e, per altro e conseguente verso, l’accordo sindacale del 1° agosto 2003, in virtù del quale fu prevista la possibilità di assegnare i vincitori delle procedure selettive in corso, tra cui quella per cui è causa, anche presso le Agenzie fiscali qualora costoro non avessero trovato utile collocazione nella struttura ministeriale, cosa, questa, che poi ha consentito sì l’assunzione di 402 vincitori nelle Agenzie medesime, ma solo per le poss. econ. C2 e C3, mentre il DPF ha assorbito solo 62 vincitori per la pos. econ. C1";

3) "il medesimo DPCM 8 febbraio 2006, nel definire la dotazione organica del personale del DPF, per la pos. econ. C1 ha assegnato 260 unità per le strutture centrali e 750 unità per le Commissioni tributarie", circostanza che però non conduce a dimostrare per certo "la totale incapienza di posti disponibili nella predetta posizione C1 e la conseguente impossibilità di procedere all’ulteriore ripartizione secondo le regole del bando del 2001, in quanto la pur vera riduzione d’organico dettata dal citato DPCM, rispetto a quanto a suo tempo previsto dal DPR 26 marzo 2001 n. 107, non è tale da giustificare siffatta assenza di disponibilità";

4) d’altronde, "mentre il DPR 107/2001 indicò una dotazione organica complessiva del DPF pari a 3813 unità di personale – senza specificare quella propria della pos. econ. C1 -, il DPCM 8 febbraio 2006 ha fissato in complessive 3469 unità la dotazione del DPF stesso, ripartite in 1054 per le strutture centrali (260 per la pos. econ. C1) e 2415 per le Commissioni tributarie (750 per la pos. econ. C1), sicché, in disparte una riduzione tutt’altro che drastica in valori assoluti, neppure è chiaro, ed in questo il Ministero intimato ha eluso la richiesta posta dalla sentenza n. 4397/2009, se ed in qual misura vi sia stata una contrazione della dotazione per la posizione in parola e se restino tuttora vacanze per questa";

5) peraltro, "seppure non si possa inferire con certezza una vacanza a priori circa la pos. econ. C1 dal solo fatto che la procedura in questione fu bandita ben dopo l’emanazione del DPR 107/2001 – posto che, nella specie, si controverte non già dei posti immediatamente da essa ripartiti, bensì di quelli eventualmente rimasti liberi dopo la conclusione di due procedure concorsuali coeve – la P.A. nulla ha inteso precisare su quella parte della sentenza n. 4397/2009 che si riferisce alla nota dello stesso DPF prot. n. 51763 del 26 settembre 2007, "… in base alla quale permanevano a quella data ancora 151 (per gli uffici centrali – NDE) e, rispettivamente, 307 (per gli organi della Giustizia tributaria) unità di personale…" della pos. econ. C1";

6) di conseguenza la Sezione, "in difetto d’ulteriori chiarimenti sul punto -e, anzi, a fronte della precisazione del Ministero intimato per cui "… nessuna altra procedura concorsuale è stata indetta… al di fuori di quelle obbligatorie previste dalla normativa ai fini dell’assunzione dei portatori di handicap…", non può disattendere il dato esposto da tale P.A. nella citata nota n, 51763/2007, onde deve concludere che quest’ultimo è effettivo e genuino e, perciò, impone alla P.A. intimata d’assumerlo quale criteriobase per il calcolo dei posti residui per la pos. econ. C1 e per l’effettuazione, doverosa a pena d’illegittima disapplicazione del bando del 2001, della relativa ripartizione, tranne che non intenda esercitare sul bando stesso poteri d’autotutela".

9. – La lettura dei passaggi cruciali della motivazione della sentenza n. 7693 del 2009 con la quale la Sezione ebbe ad accogliere il ricorso proposto allora dagli odierni ricorrenti avverso i dinieghi ministeriali di ripartizione dei posti residui relativi alla procedura concorsuale bandita nel 2001, appare di fondamentale importanza per cogliere se:

A) il MEF con il provvedimento di revoca qui impugnato ha eseguito o, al contrario, voluto eludere l’esecuzione il decisum della suindicata sentenza;

B) l’atto di revoca appaia o meno assistito da valide ragioni che ne sorreggano la legittima adozione e, quindi, sia scevro di quei vizi che i ricorrenti gli attribuiscano;

C) l’accertata legittimità dell’atto di revoca scongiuri l’esistenza di una condizione di responsabilità del MEF circa la richiesta di risarcimento del danno patito dagli odierni ricorrenti, domanda dagli stessi avanzata con i gravami qui in scrutinio.

Pare al Collegio che con l’atto di revoca qui impugnato, nelle premesse che ne anticipano la decisione di rimuovere in parte gli effetti del bando del 2001 e della procedura che ne è seguita con limitato riferimento "all’assegnazione dei 367 posti residui", il MEF abbia voluto fedelmente seguire il percorso (in qualche modo) suggeritogli dalla sentenza n. 7693 del 2009 (mai appellata) e quindi, tenute ferme quelle indicazioni già espresse al Tribunale in esecuzione della sentenza interlocutoria n. 4397 del 2009 con le quali si chiarivano le drasticamente mutate nel tempo condizioni organizzative del Ministero che rendevano altamente difficile poter procedere all’assegnazione dei 367 posti residui, cogliere l’occasione di rivalutare la sussistenza o meno delle condizioni di attuazione della procedura per poi determinarsi, in via di autotutela e sulla scorta della sopravvenienza normativa che ha da un lato ulteriormente ridefinito gli assetti organizzativi ministeriali e, per altro verso, provocato ulteriori tagli di personale, a revocare la procedura per quella parte della stessa non ancora completata.

Appare infatti evidente che la Sezione con la ripetuta sentenza ha sì accolto il ricorso allora proposto dagli odierni ricorrenti ma, nello stesso tempo, ha:

A) invitato il MEF ad effettuare una seria, completa ed approfondita verifica sulla possibilità di procedere all’assegnazione;

B) non escludendo l’evenienza di poter agire in via di autotutela ponendo nel nulla quella parte della procedura di riqualificazione del personale avviata nel 2001 e non ancora completata qualora fosse emersa la reale impossibilità giuridica di procedere all’assegnazione dei 367 posti residui.

E così è avvenuto, anche sulla scorta delle indicazioni espresse al MEF dall’Avvocatura generale dello Stato, ma soprattutto allorquando la ormai irreversibile trasformazione dell’organizzazione ministeriale ha confuso quella che un tempo era la posizione dei dipendenti del Dipartimento delle Politiche fiscali (ai quali era dedicata l’operazione di riqualificazione del 2001) con le posizioni degli altri dipendenti ministeriali, mescolandole in un inestricabile coacervo organizzativo quale è ora il ruolo unico del MEF (così dapprima con il D.P.R. 30 gennaio 2008 n. 43 e, successivamente, con il decreto 27 marzo 2009, che ha addirittura soppresso i precedenti ruoli di provenienza dei dipendenti ormai tutti confluiti nel ruolo unico del MEF), che dal 1° di gennaio 2009 ricomprende tutto il personale dipendente dei Dipartimenti (come ricorda la difesa erariale a pag. 9 della memoria di costituzione).

Una siffatta così radicale trasformazione organizzativa del MEF che sarebbe illogico, irrazionale e fuori di ogni approccio cognitivo ragionevole, voler considerare realizzata allo scopo di penalizzare gli odierni ricorrenti, quanto piuttosto resa necessaria dai numerosi interventi normativi che hanno ridefinito la sagoma delle singole strutture interne ed i profili identificativi di riconoscimento dell’organizzazione ministeriale, per meglio consentire ad un dicastero di importanza vitale per le sorti finanziarie del Paese quale è il MEF di meglio e più plasticamente raggiungere gli obiettivi propri della mission politicoistituzionale affidatagli, costituisce indubbiamente un serio "mutamento della situazione di fatto", rispetto al momento in cui fu avviata nel 2001 la procedura di riqualificazione del personale del Dipartimento delle Politiche fiscali, circostanza che incarna espressamente uno dei presupposti per l’applicazione dell’istituto della revoca per come disciplinato dall’art. 21quinquies della legge 7 agosto 1990 n. 241.

10. – Come è noto l’art. 21quinques della legge n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 14, della legge 11 febbraio 2005 n. 15, ha accolto una nozione ampia di revoca, prevedendo tre presupposti alternativi, che ne legittimano l’adozione (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 18 gennaio 2011 n. 283):

a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse;

b) per mutamento della situazione di fatto;

c) per nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.

Nel primo e nel secondo caso si verifica la c.d. revoca per sopravvenienza, che si realizza quando il provvedimento originariamente adottato, che ha ben perseguito l’interesse pubblico, con il trascorrere del tempo si rivela non più opportuno per nuovi motivi di interesse pubblico, nonché per il mutamento di circostanze di fatto. Nel terzo caso, invece, non si realizza alcun mutamento delle circostanze di fatto, ma l’amministrazione, valutando nuovamente la medesima situazione alla base del provvedimento originariamente adottato, si accorge di aver mal ponderato l’interesse pubblico e alla luce di una nuova valutazione dello stesso reputa opportuna la rimozione della originaria statuizione. In tal caso la revoca costituisce espressione di uno ius poenitendi dell’amministrazione. La revoca di provvedimenti amministrativi è, quindi, possibile non solo in base a sopravvenienze, ma anche per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, c.d. ius poenitendi (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. III, 13 aprile 2011 n. 2291) nonché per mutamento della situazione di fatto che, se provocata da interventi normativi sopravvenuti, si sposa completamente con il terzo requisito della sopravvenienza di motivi di pubblico interesse, come è accaduto nella specie.

Ciò sta a significare che per valutare la legittimità del provvedimento di revoca si deve esaminare se l’Amministrazione abbia correttamente operato una valutazione delle circostanze sopravvenute e dell’interesse pubblico (cfr., in tal senso, T.A.R. Lazio, Sez. III, 9 marzo 2009 n. 2372).

L’attenta ricognizione dell’atto di revoca operata dal Collegio e più sopra riproposta, anche con riferimenti paralleli al decisum della Sezione espresso nella sentenza n. 7693 del 2009 che gli odierni ricorrenti chiedono che sia ottemperato, ha offerto elementi utili al fine di ritenere che il percorso istruttorio svolto dal MEF sia stato completo ed all’esito della indagine svolta dagli Uffici sia affiorato l’inevitabile carattere anacronisticoorganizzativo di una eventuale decisione volta a completare la procedura di riqualificazione del personale avviata nel 2001, ormai resa tecnicamente impossibile dalle norme organizzative sopravvenute.

Ma a rendere vieppiù impossibile il completamento di quel percorso di riqualificazione del personale, al quale aspirano gli odierni ricorrenti, militano gli interventi normativi riferiti ai "tagli di personale dei ministeri" provocati dapprima dal decreto legge 25 marzo 2010 n. 40, convertito nella legge 22 maggio 2010 n. 73 e poi dal decreto legge 31 maggio 2010 n. 78, convertito nella legge 30 luglio 2010 n. 122, che hanno imposto e realizzato una drastica riduzione delle risorse umane nei Ministeri ed in particolare nel MEF, sopprimendo ad esempio le direzioni territoriali dell’economia e delle finanze. Tale valutazione dei nuovi presupposti di fatto e dell’interesse pubblico a non vincolare l’Amministrazione con impegni di spesa non coperti, in un momento di forte riduzione delle risorse finanziarie, non può ritenersi illegittima e di tali elementi, posti a base del provvedimento impugnato, è stato dato espressamente conto nella motivazione.

11. – Verificata quindi la legittimità dell’atto di revoca, deve ora passarsi ad esaminare la richiesta risarcitoria avanzata dai ricorrenti.

Posta la domanda risarcitoria dai ricorrenti spetta al Collegio, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a. qualificare "l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali" e quindi definire se il pregiudizio asseritamente patito dai ricorrenti per effetti dell’intervenuta revoca della procedura di riqualificazione che li riguardava, anche sotto il profilo economico, sia ristorabile come risarcimento del danno nelle sue componenti di danno emergente e di lucro cessante o, come anche richiesto, a titolo di indennizzo.

Orbene, osserva il Collegio, che la domanda di risarcimento del danno, per poter essere proposta, presuppone illegittimità del provvedimento di revoca e la relativa pretesa risarcitoria scaturisce dalla asserita qualificabilità come non iure della condotta dell’Amministrazione. Diversamente la domanda di indennizzo, logicamente incompatibile con la prima, muove dalla legittimità del provvedimento di revoca, dal quale scaturisce comunque un’obbligazione indennitaria da atto lecito a carico dell’Amministrazione, a norma di quanto disposto dall’art. 21quinquies della legge n. 241 del 1990 che, dopo aver individuato i casi in cui l’Amministrazione può esercitare il potere di revoca, introduce l’obbligo dell’amministrazione di provvedere all’indennizzo dei pregiudizi in danno sofferti dai soggetti direttamente interessati dal provvedimento.

Ciò premesso, nella fattispecie, poiché si è sopra acclarata la legittimità del provvedimento di revoca qui impugnato, la domanda risarcitoria proposta non può essere scrutinata, presupponendo questa l’illegittimità dell’azione amministrativa e il comportamento doloso o colposo dell’amministrazione (che va comunque provato dal soggetto che assume di aver subito il pregiudizio).

Ne consegue logicamente l’inapplicabilità dei canoni di cui gli articoli 1223 e 2043 c.c. e quindi l’impossibilità di riconoscere, oltre al danno emergente, anche il lucro cessante derivante dalla perdita di un’opportunità di guadagno, come pure richiesto dai ricorrenti, legata alla corresponsione dello stipendio più elevato se fosse stato loro consentito di completare la procedura di riqualificazione con l’inquadramento nella posizione economica superiore rispetto a quella posseduta.

12. – Occorre ora verificare se residui lo spazio per riconoscere ai ricorrenti un indennizzo derivante dall’adozione legittima dell’atto di revoca da parte del MEF.

Come è noto, perché possa essere accolta la richiesta di indennizzo, nell’ambito dell’istituto di cui all’art. 21quinquies della legge n. 241 del 1990 non occorre che il privato provi né l’illegittimità dell’atto, né il dolo né la colpa, atteso che il citato art. 21quinquies impone all’Amministrazione che eserciti il potere di revoca di corrispondere l’indennizzo.

Il caso in esame presenta, tuttavia, caratteristiche peculiari.

Infatti, coma ha ben ricordato la difesa erariale (cfr. pag. 30 della memoria di costituzione) e per quel che emerge dalla documentazione depositata, i ricorrenti non hanno mai avuto la possibilità di partecipare alla procedura concorsuale. Essi lealmente non negano di non aver partecipato al corso di riqualificazione e quindi che non si sono mai collocati in alcuna graduatoria.

Il livello di aspettativa dei ricorrenti ad ottenere un nuovo e superiore inquadramento nella posizione C1 non si è mai spostato da un ambito meramente embrionale, tanto che esso, fin dall’inizio era condizionato dal completamento delle procedure per i passaggi a C2 e C3 e dal loro esito: solo tale completamento procedurale avrebbe potuto aprir loro la strada dell’avvio della procedura per l’assegnazione dei 367 posti residui.

Conseguentemente non affiora alcun elemento utile per poter apprezzare il pregiudizio subito dai ricorrenti i quali, allo stato, ma anche prima della parziale revoca della procedura avviata nel 2001, assumevano ed assumono la identica posizione di qualsiasi altro dipendente che aspira a progredire nella carriera anche solo con riferimento ad un miglioramento economico rispetto alla posizione acquisita e posseduta.

Ne deriva che, ad avviso del Collegio, non vi è spazio per riconoscere che sia dovuto in capo al MEF alcun indennizzo in favore dei ricorrenti per effetto dell’adozione dell’atto di revoca qui impugnato.

13. – In virtù delle suesposte considerazioni e della infondatezza delle censure dedotte i ricorsi, siccome riuniti, vanno respinti.

Attesa la peculiarità e la complessità della vicenda che ha dato luogo alla qui decisa questione contenziosa, stima il Collegio che sussistano le condizioni per disporre, ai sensi degli artt. 26, comma 1, c.p.a. e 92 c.p.c., la integrale compensanzione tra le parti costituite le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

pronunciando in via definitiva sui ricorsi indicati in epigrafe:

1) dispone la riunione del ricorso n. Rg. 600 del 2011 al ricorso n. R.g. 5466 del 2010;

2) li respinge entrambi;

3) compensa le spese di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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