Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 03-05-2011) 22-06-2011, n. 25094

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 19 luglio 2008 il Tribunale di Marsala dichiarava E. R. colpevole dei delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso aggravata (art. 416 bis c.p., commi 1, 3, 3, 4, 5 e 6), concorso in turbata libertà degli incanti ( art. 110 c.p., art. 353 c.p., commi 1 e 2), corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (artt. 110, 319 e 319 bis c.p.), nonchè di trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori (L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies), aggravati ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7 e, ritenuta la continuazione fra i reati, lo condannava alla pena di otto anni di reclusione.

Affermava la penale responsabilità di R.V. in ordine al delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso aggravata (art. 416 bis c.p., commi 1, 3, 3, 4, 5 e 6), condannandolo alla pena di sei anni di reclusione.

Riconosceva, infine, Z.V. colpevole dei delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis c.p., commi 1, 3, 3, 4, 5 e 6), concorso in turbata libertà degli incanti ( art. 110 c.p., art. 353 c.p., commi 1 e 2) ed, esclusa l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, ritenuta la continuazione fra i reati, lo condannava alla pena di otto anni di reclusione, di cui sei mesi condonati.

Condannava gli imputati in solido al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.

Dichiarava E., R., Z. interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e interdetti legalmente durante l’espiazione della pena, nonchè incapaci di contrattare con la pubblica amministrazione e disponeva che, a pena espiata, gli stessi venissero sottoposti alla libertà vigilata per la durata di un anno.

Disponeva la confisca degli immobili indicati ai punti 3) e 4) del decreto di sequestro preventivo emesso dal gip del Tribunale di Palermo il 23 dicembre 2005, nonchè delle quote sociali indicate nel medesimo provvedimento concernenti le s.r.l. "Bep", "Gard Costruzioni", "Marsala Residence". Disponeva anche la confisca della ditta individuale "Errevi Sevice" intestata a R.V..

2. Il 13 aprile 2010 la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, impugnata dagli imputati, unificava per continuazione, nei confronti di R.V., il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso con quello già giudicato con la sentenza della Corte d’appello di Palermo del 30 aprile 2008 e, per l’effetto, rideterminava la pena complessiva in sette anni e otto mesi di reclusione.

Confermava nel resto la decisione del Tribunale di Marsala.

3. Da entrambe le sentenze di merito emergeva che i tre imputati erano stabilmente inseriti nella famiglia mafiosa di Marsala, capeggiata, a partire dal 1990 e sino al 1993 (data del suo arresto), da P.A., quindi da B.N. (privato della libertà personale il 31 marzo 2003), coadiuvato dai fratelli A. G. e A.T., arrestati il (OMISSIS).

L’associazione era finalizzala all’acquisizione e al controllo di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti, servizi pubblici in vista del controllo di pertinenza della consorteria mafiosa marsalese e del rafforzamento della stessa, alla interferenza nello svolgimento e nella gestione di appalti banditi da pubbliche amministrazioni, al procacciamento di voti in occasione di consultazioni elettorali e di posti di lavoro in favore di appartenenti all’associazione, di loro congiunti o di persone ad essi vicine.

In tale contesto Z., su incarico del capofamiglia B. N., aveva il compito di mantenere i contatti con il comune di Marsala e, in particolare, con E., capo dell’ufficio tecnico comunale, facendogli pervenire la segnalazione della impresa che, di volta in volta, avrebbe dovuto ottenere l’aggiudicazione della gara d’appalto oppure la possibilità di eseguire i lavori in sub-appalto.

Ciò era avvenuto per la gara relativa ai lavori di costruzione del nuovo cimitero di (OMISSIS), in cui E. si era occupato della turbativa d’asta d’intesa con R.V. che, su incarico dell’organizzazione, aveva provveduto alla raccolta delle buste con le singole offerte, già predeterminate, delle imprese partecipanti, in modo da garantire l’aggiudicazione a quella segnalata (l’impresa "Sicilstrade" di D.G.S.) e il subappalto di alcuni lavori ad altra impresa nella titolarità di un prestanome di B.N.. Analoga alterazione della procedura di gara era avvenuta per il pubblico incanto relativo alla gestione del complesso architettonico ambientale di "(OMISSIS)", situata nel comune di (OMISSIS), in cui E., nella sua qualità di direttore di gara e, dunque, di persona preposta dalla legge all’incanto, aveva informato L.V. del numero delle ditte partecipanti e dell’importo dell’offerta presentata da ciascuna di esse, contribuendo così a far risultare aggiudicataria, con un’offerta di 31 milioni – in aumento dei cinque milioni previsti dal bando di gara – la s.a.s. "Nirvana", società nella quale lo stesso E. vantava una partecipazione occulta, mentre Z., su indicazione di L., mediante ricorso al metodo mafioso, si era occupato di fare ritirare D.V.G., pretendendo una quota parte nell’associazione aggiudicataria quale forma di garanzia rispetto ad eventuali pretese estorsive avanzate da terzi.

R. si rendeva in vario modo disponibile a procurare al sodalizio mafioso vantaggi, quali la protezione dei latitanti fratelli A., la riscossione del prezzo delle estorsioni o, comunque, delle tangenti imposte a titolo di "protezione" alle imprese operanti nel territorio controllato dall’organizzazione. Si occupava, inoltre, in concorso con altri, tra cui E., di turbare le gare d’appalto relative a lavori pubblici, al fine di pilotarne l’assegnazione mediante la predeterminazione concordata delle offerte in modo da farle aggiudicare alle imprese di volta in volta gradite alle cosca mafiosa.

4. I giudici di merito ritenevano provata la responsabilità di R. in ordine al delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso – di cui peraltro l’imputato non aveva contestato, nei motivi d’appello, nè l’operatività nè l’articolazione in territorio di Marsala – sulla base delle dichiarazioni rese dall’imprenditore D.A. (sub-appaltatore dei lavori per il rifacimento dei marciapiedi del comune di (OMISSIS) che aveva corrisposto a R., legato a Ch.Fi., vicino alla famiglia mafiosa di (OMISSIS), la somma complessiva di dodici – tredici milioni) per ottenere la protezione contro eventuali azioni di danneggiamento dei mezzi lasciati incustoditi in luogo pubblico), delle stesse dichiarazioni rese dall’imputato, che ammetteva di avere ricevuto il denaro da D., delle propalazioni dei collaboratori di giustizia C.M., L.V., P.A., delle testimonianze di D.B.G. (impiegata comunale), del capitano L.P.R., della sentenza, acquisita ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p., in ordine alla tentata estorsione posta in essere in danno di B.M., del contenuto delle intercettazioni ritualmente disposte nei confronti di R., della documentazione acquisita, degli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria.

5. Nei confronti di E., ad avviso dei giudici, prove univoche e concordanti di colpevolezza in ordine ai delitti a lui ascritti erano costituite dal contenuto del colloquio avvenuto, il 30 maggio 2005, tra Z. e L. e registrato da quest’ultimo, avente ad oggetto l’alterazione della gara per l’aggiudicazione dei lavori del cimitero di (OMISSIS), secondo stralcio, grazie al contributo fornito da E., cui erano state versate rilevanti somme di denaro in contanti quale prezzo della sua corruzione.

Univoci e concordanti elementi di colpevolezza venivano, inoltre, desunti dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia M. C., L.V., F.O., Bi.

A. che riferivano in ordine all’organico inserimento dell’imputato nel sodalizio e alle attività illecite gestite nell’interesse dello stesso nel settore degli appalti pubblici di cui, quale unico responsabile, alterava il procedimento in modo da far risultare aggiudicatane le imprese indicate dall’organizzazione per il tramite di Z.. F.O. riferiva anche in ordine all’impegno profuso da E. nell’interesse dell’organizzazione in occasione delle consultazioni amministrative in modo da ottenere l’elezione di candidati disponibili a coadiuvare l’associazione nel perseguimento dei suoi fini illeciti e a favorire l’assunzione di suoi componenti, di loro familiari o amici.

Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia trovavano un obiettivo elemento di riscontro nella testimonianza di Bu.

C., in passato legata sentimentalmente a E., che riferiva in ordine ai rapporti intercorsi tra quest’ultimo e G. S. (anch’egli membro del sodalizio di stampo mafioso) che, con la complicità di E., era riuscito a pilotare gare d’appalto per lavori pubblici. Tali circostanze erano comprovate dalla sentenza pronunziata nei confronti di G., condannato per il suo ruolo di intermediario tra l’organizzazione e E., e da quella emessa ex art. 444 c.p.p. nei confronti di D.G. in ordine alla turbata libertà dell’incanto realizzata con la complicità di E. per l’aggiudicazione dei lavori del cimitero di (OMISSIS), secondo stralcio.

Il complesso di questi elementi trovava, ad avviso dei giudici, ulteriori clementi di conforto nel contenuto dell’intercettazione ambientale del 20 ottobre 2002 sull’auto di L., avente ad oggetto un colloqui intercorso tra costui e E. in merito ai futuri lavori pubblici da appaltare e alla possibilità di una loro aggiudicazione pilotata, nonchè negli accertamenti patrimoniali svolti dalla Guardia di Finanza e nelle risultanze della consulenza tecnica svolta in ordine alle società di cui E. era amministratore di fatto e di cui aveva attribuito la fittizia intestazione a S.S.P..

6. La responsabilità di Z. veniva ritenuta provata sulla base delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia M. C., L.V., F.O., Bi.

A., della testimonianza dell’ispettore G. che riferiva in merito agli accorgimenti adottati dall’imputato per mantenere i contatti con i complici (mediazione di terze persone e ricorso al cambio di schede telefoniche), delle sentenze irrevocabili di condanna per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. pronunciate nei confronti delle persone con le quali l’imputato manteneva abituali rapporti, delle indagini esperite in merito all’ospitalità da egli fornita ai fratelli A. presso la sua abitazione di contrada (OMISSIS) in attesa di una migliore sistemazione.

Il complesso di questi elementi trovava ulteriori elementi di conferma nelle sentenze ex art. 444 c.p.p. pronunciate nei confronti di L. e F. per concorso esterno in associazione mafiosa, nelle dichiarazioni rese da G.E. in ordine alle riunioni politiche cui aveva preso parte Z., quale rappresentante degli interessi dell’associazione in relazione alla candidatura di determinati esponenti, funzionale ad ottenere da questi futuri favori (in particolare assunzioni di parenti e di persone vicine al sodalizio), nella testimonianza di P. che riferiva in merito agli incontri segreti a "(OMISSIS)" cui partecipava Z. insieme con E. ed altri membri.

I giudici richiamavano, inoltre, quali ulteriori elementi a carico dell’imputato, il contenuto del colloquio svoltosi il 30 maggio 2005 tra Z. e L., e la consulenza svolta dalla dott.ssa N. in ordine alle gravi irregolarità che avevano contraddistinto lo svolgimento della procedura per l’aggiudicazione dell’appalto relativo al cimitero di (OMISSIS), secondo stralcio.

7. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori di fiducia, gli imputati.

7.1. R., anche mediante una memoria difensiva, formula le seguenti censure.

Deduce violazione dei canoni di valutazione probatoria in relazione alle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, prive di credibilità soggettiva, di attendibilità oggettive e non assistite da riscontri estrinseci individualizzanti.

Lamenta violazione di legge, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta partecipazione dell’imputato all’associazione di stampo mafioso in assenza di condotte causalmente rilevanti e obiettivamente significative.

Censura, infine, l’omesso riconoscimento della diminuzione di un terzo per il rito abbreviato richiesto nel corso dell’udienza preliminare e subordinato all’audizione di D.A. in ordine al quale il giudice non ha mai sciolto la riserva assunta.

7.2. Z. denuncia violazione dei canoni di valutazione probatoria, contraddittorietà e illogicità della motivazione circa la ritenuta convergenza delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia C., L. e B. in ordine all’asserito intervento di mediazione svolto da esponenti della famiglia mafiosa di Marsala (in specie Ch. e Z.) tra l’imprenditore D.G.S. e E. in vista dell’aggiudicazione al primo della gara d’appalto successivamente gestita mediante il subappalto affidato all’impresa di Ch.

F., notorio prestanome di B.. Tali dichiarazioni, secondo il ricorrente, sono caratterizzate da insanabili divergenze in ordine all’epoca del versamento del denaro, al relativo ammontare, nonchè da significative carenze nella ricostruzione degli episodi e nella indicazione della fonte delle conoscenze e sono, in ogni caso, prive dei necessari riscontri estrinseci individualizzanti.

Lamenta, quindi, l’inutilizzabilità della conversazione intercorsa il 30 maggio 2005 tra Z. e L. e registrata da quest’ultimo, che aveva agito di concerto con la polizia giudiziaria che aveva provveduto a fornirgli la relativa apparecchiatura.

Deduce anche violazione di legge e illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta falsità delle dichiarazioni rese, in grado d’appello, da D.G. e al rigetto della richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ai fini dell’acquisizione delle sentenze irrevocabili pronunciate nei riguardi di Ch. e D.G., coimputati di Z. nei medesimi reati di turbata libertà degli incanti e corruzione, contestati ai capi 3) e 4).

Si duole, poi, con riferimento al capo 2), della carenza della motivazione, in quanto, ai fini dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, i giudici hanno opposto alle dichiarazioni liberatorie del teste D.V. proprie deduzioni argomentative.

Lamenta violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, desunta dal ruolo asseritamente avuto dall’imputato negli episodi di corruzione e turbativa d’asta – per i quali, peraltro, è stata esclusa l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 – e in assenza di elementi obiettivi da cui inferire un consapevole e volontario contributo causalmente rilevante alla vita del sodalizio.

Deduce violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Rappresenta i vizi di violazione di legge e di vizio della motivazione in merito alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6. 7.3. E. lamenta violazione dei canoni di valutazione probatoria con riferimento alla ritenuta attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia C., L., Bi. con specifico riguardo all’asserito ruolo di mediazione svolto da esponenti della famiglia mafiosa di Marsala, in specie Ch. e Z., tra l’imprenditore D.G.S. ed E. per l’aggiudicazione al primo della gara d’appalto, successivamente gestita mediante il subappalto affidato all’impresa di Ch., prestanome di B..

Deduce violazione dell’art. 238 bis c.p.p. e illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta falsità delle dichiarazioni rese nel giudizio d’appello da D.G..

Si duole, inoltre, della violazione dell’art. 603 c.p.p. in relazione al rigetto della richiesta difensiva di riapertura dell’istruttoria dibattimentale per acquisire le sentenze irrevocabili che avevano definito le posizioni di D.G. e Ch., coimputati di E. per i reati contestati ai capi 3) e 4).

Lamenta carenza e illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente il delitto associativo pur in assenza di un contributo causalmente rilevante alla vita del sodalizio e ha inferito la prova della partecipazione dell’imputato all’associazione di stampo mafioso dall’aggiudicazione dell’appalto per l’affidamento del servizio di gestione del complesso monumentale di "(OMISSIS)", episodio con riguardo al quale, peraltro, la sentenza di primo grado ha escluso la configurabilità dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e la sentenza di patteggiamento emessa nei confronti di D.G. ha parimenti escluso la sussistenza della suddetta aggravante.

Deduce violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui allA L. n. 203 del 1991, art. 7 in difetto del relativo elemento psicologico, costituito dalla volontà di agevolare il sodalizio mafioso.

Si duole dei vizi di violazione di legge e di vizio della motivazione in merito alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, fondata sulla esclusiva valorizzazione della testimonianza della Bu. e delle dichiarazioni di L. con totale pretermissione dei relativi rilievi difensivi.

Lamenta violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla disposta confisca dei beni, basata sulla valorizzazione esclusiva della consulenza disposta dal pubblico ministero, inidonea a dimostrare l’assenza di proporzione tra i redditi del ricorrente e gli investimenti fatti.

Deduce, infine, violazione di legge e vizio della motivazione circa l’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche e il complessivo trattamento sanzionatorio.

Motivi della decisione

I ricorsi non sono fondati.

1. Non fondata è la censura – avente carattere logicamente preliminare rispetto alle altre – di inutilizzabilità della conversazione tra presenti registrata da L.V. il 30 maggio 2005 e intercorsa tra lo stesso e Z., dedotta dalla difesa di quest’ultimo.

L’art. 15 Cost., che sancisce l’inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione e dispone che la loro limitazione è eccezionalmente consentita "soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge", ha indubbia natura precettiva e protegge due distinti interessi: a) quello inerente alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall’art. 2 Cost.; b) quello connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso oggetto di protezione costituzionale (cfr.

Corte Cost. sentenza n. 34 del 1973).

Il bilanciamento di tali interessi e, quindi, la loro concreta tutela è affidata ad una duplice riserva, di legge e di giurisdizione: al legislatore ordinario è affidata l’individuazione delle "garanzie" che consentono le limitazioni dei valori indicati dal dettato costituzionale; l’autorità giudiziaria è legittimata a disporre le predette restrizioni con provvedimento motivato.

La tutela costituzionale del diritto alla segretezza delle comunicazioni non si estende, però, anche ad un autonomo diritto alla riservatezza che riceve tutela soltanto in via mediata, quale componente della libertà personale (intesa nella prospettiva di libertà morale), della libertà di domicilio (quale diritto dell’individuo ad avere una propria sfera privata spazialmente delimitata), della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione. La riservatezza è, pertanto, costituzionalmente garantita nei limiti in cui la stessa va ad incidere su alcuni diritti di libertà.

La disciplina legislativa in tema di intercettazioni da attuazione ai diritti garantiti dall’art. 15 della Carta fondamentale, assicurando il contemperamento tra la tutelare dell’inviolabilità della libertà e della segretezza delle comunicazioni -beni intimamente connessi alla protezione del nucleo essenziale della dignità umana e al pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali – e l’inderogabile dovere dello Stato di prevenire e reprimere i reati.

In coerenza con tale articolato contesto normativo e con i principi espressi dalla Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. sent. n. 81 del 1993), le Sezioni Unite di questa Corte, con una decisione condivisa dal Collegio, hanno chiarito che con il termine "intercettazione" deve intendersi l’apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio, c.p.p. (cfr., Sez. Un,, 28 maggio 2003, n. 36747; nello stesso senso cfr.

Sez. Un. 23 febbraio 2000, n. 6).

L’intercettazione di comunicazioni interprivate richiede, quindi, per essere qualificata tale, una serie di requisiti: a) l’intento dei due soggetti che prendono parte al colloquio di escludere estranei dal contenuto della comunicazione e l’adozione di modalità tali da tenere quest’ultima segreta; b) l’uso di strumenti tecnici di percezione (elettro-meccanici o elettronici) particolarmente invasivi ed insidiosi, idonei a superare le cautele elementari che dovrebbero garantire la libertà e segretezza del colloquio e a captarne i contenuti ( art. 268 c.p.p.); c) l’assoluta estraneità al colloquio del soggetto captante che, in modo clandestino, consenta la violazione della segretezza della conversazione (Sez. Un., 28 maggio 2003, n. 36747).

Non può, quindi, parlarsi di "intercettazione", quando, come nel caso di specie, la registrazione di un colloquio, svoltosi a viva voce, avvenga ad opera di una delle persone che vi partecipi attivamente o che sia comunque ammessa ad assistervi. In questa ipotesi, intatti, difettano la compromissione del diritto alla segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente appreso soltanto da chi palesemente vi partecipa o vi assiste, e la "terzietà" del captante. La comunicazione, una volta che si è liberamente e legittimamente esaurita, senza alcuna intrusione da parte di soggetti ad essa estranei, entra a fare parte del patrimonio di conoscenza degli interlocutori e di chi vi ha non occultamente assistito, con la conseguenza che ognuno di essi ne può disporre, a meno che, per la particolare qualità rivestita o per lo specifico oggetto della conversazione, non vi siano specifici divieti alla divulgazione.

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, laddove ha evidenziato che alla conversazione tra L. e Z. presero parte solo i due dialoganti, che la stessa non venne contestualmente captata con mezzi occulti da soggetti ad essa estranei e che uno dei due interlocutori adottò liberamente la cautela e l’accorgimento di registrare il colloquio per acquisire, nella forma più opportuna, documentazione e quindi prova di ciò che, nel corso dello stesso, pose in essere e che altri posero in essere nei suoi confronti; in altre parole, con la registrazione, L. non fece altro che memorizzare fonicamente le notizie lecitamente apprese dall’altro interlocutore.

Per tutte queste ragioni non sussiste la dedotta inutilizzabilità probatoria della conversazione.

2. Privo di pregio è anche il motivo di ricorso con il quale le difese di Z. ed E. lamentano la violazione dell’art. 603 c.p.p..

In tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in sede d’appello, l’art. 603 c.p.p. reca diversità di previsione, a seconda che si tratti di prove preesistenti o concomitanti al giudizio di primo grado, emerse in un diverso contesto temporale o fenomenico, ovvero di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio. Nel primo caso, il giudice d’appello deve disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti; nel secondo, deve rinnovare l’istruzione, osservando i soli limiti del diritto alla prova e dei requisiti della stessa. Con riguardo alla prima ipotesi, in considerazione del principio di presunzione di completezza dell’istruttoria compiuta in primo grado, la rinnovazione del dibattimento in appello è istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non potere decidere allo stato degli atti. Pertanto, in caso di rigetto della richiesta avanzata dalla parte, la motivazione potrà essere implicita e desumibile dalla struttura argomentativa della sentenza d’appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti all’affermazione o alla negazione di responsabilità dell’imputato (Sez. 5, 1 febbraio 2000, n. 01075; Sez. 2, 7 luglio 2000, n. 08106; Sez. 5, 8 agosto 2000, n. 08891).

Considerato, quindi, che nel giudizio di appello la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, postulando una deroga alla presunzione di completezza della indagine istruttoria svolta in primo grado, ha caratteristica di istituto eccezionale, nel senso che ad essa può farsi ricorso quando appaia assolutamente indispensabile, cioè nel solo caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, il Collegio ritiene che, da un lato, il giudice di merito ha dimostrato in positivo, con spiegazione immune da vizi logici e giuridici, la sufficiente consistenza e l’assorbente concludenza delle prove già acquisite e, dall’altro, che i ricorrenti non hanno dimostrato l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavatoli dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora si fosse provveduto all’acquisizione in sede di appello delle sentenze irrevocabili pronunziate nei confronti di Ch. e D.G. (coimputati di Z. ed E. in relazione ai reati contestati ai capi 3 e 4 della rubrica), idonee a svalutare il peso del materiale probatorio raccolto e valutato.

3. Non meritano accoglimento le censure con le quali tutti i ricorrenti denunciano violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso e di elementi probatori da cui inferire la prova della partecipazione alla stessa degli imputati.

3.1. L’associazione di tipo mafioso viene qualificata come tale in ragione dei mezzi usati e dei fini perseguiti. L’art. 416 bis c.p., comma 3 individua il "metodo mafioso" mediante la fissazione di tre parametri caratterizzanti – forza intimidatrice del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e condizione di omertà – da considerare tutti e tre come elementi necessari ed essenziali, perchè possa configurarsi questo reato associativo, come del resto si desume senza possibilità di dubbio dall’uso della congiunzione e impiegata nel testo normativo. Il ricorso specifico, da parte di ciascun membro del gruppo, all’intimidazione, all’assoggettamento e all’omertà non costituisce una modalità di realizzazione della condotta tipica – la quale si esaurisce nel fatto in sè di associarsi, ovvero di promuovere, dirigere, organizzare un’associazione di questo tipo, apportando un certo contributo all’esistenza dell’ente – ma rappresenta l’elemento strumentale tipico di cui gli associati si avvalgono in vista della realizzazione degli scopi propri dell’associazione. In altri termini, ai fini della consumazione del reato associativo in questione, non è necessario che i suddetti strumenti siano stati utilizzati in concreto dai singoli associati, sempre che costoro, però, siano effettivamente nelle condizioni e nella consapevolezza di poterne disporre. La consorteria deve, infatti, potersi avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, nel senso che è l’associazione e soltanto essa, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati, ad esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione, che rappresenta l’elemento strumentale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi propri dell’associazione. E’, pertanto, necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione, sino a estendere intorno a sè un alone permanente di intimidazione diffusa, tale che si mantenga vivo anche a prescindere da singoli atti di intimidazione concreti posti in essere da questo o quell’associato.

E’ ovvio che, qualora emergano prove di concreti atti di intimidazione e di violenza, esse possono utilmente riflettersi anche sulla prova della forza intimidatrice del vincolo associativo; ma vi si riflettono solo in via ausiliaria, poichè ciò che conta è che, anche mancando la prova di tali atti, l’elemento della forza intimidatrice sia desunto da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere timore propria dell’associazione, e ricollegabile ad una generale percezione della sua terribile efficienza nell’esercizio della coercizione fisica. Tale capacità deve essere, peraltro, attuale e non solo potenziale, e l’alone di intimidazione diffusa deve essere effettivo ed obiettivamente riscontrabile, essendo insufficiente la prova della sola intenzione di produrlo e di avvalersene.

La violenza e la minaccia, rivestendo natura strumentale nei confronti della forza intimidatrice, costituiscono un accessorio eventuale o, meglio, latente, della stessa, ben potendo derivare dalla semplice esistenza e notorietà del vincolo associativo. Esse, quindi, non costituiscono una modalità con la quale deve puntualmente manifestarsi all’esterno la condotta degli agenti, dal momento che le condizioni di assoggettamento e gli atteggiamenti omertosi, indotti nella popolazione e negli associati stessi, ben possono costituire, più che l’effetto di singoli atti di sopraffazione, la conseguenza del prestigio criminale dell’associazione, che, per la sua fama negativa e per la capacità di lanciare avvertimenti anche simbolici ed indiretti, si accredita come temibile ed effettivo centro di potere. In mancanza di una quadro indiziario emergente dal compimento di atti diretti ad intimidire, deve, comunque, emergere aliunde e deve essere obiettivamente dimostrabile un clima di intimidazione diffusa scaturente dall’associazione medesima, quale risultante di un’antica e, in ogni caso, consolidata consuetudine di violenza, che venga chiaramente percepito come tale all’esterno e del quale gli associati si avvantaggino per perseguire i loro fini.

La tipicità del modello associativo delineato dall’art. 416 bis c.p. risiede nella modalità attraverso cui l’associazione si manifesta concretamente (modalità che si esprimono nel concetto di metodo mafioso) e non negli scopi che si intendono perseguire, delineati nell’art. 416 bis c.p., comma 3 in modo alternativo.

Gli indizi del reato associativo possono essere legittimamente tratti dalla commissione dei reati fine, interpretati alla luce dei moventi che li hanno ispirati, quando questi valgano ad inquadrarli nella finalità dell’associazione (Sez. 6, 10 febbraio 2000, n. 01612; Sez. 5, 20 aprile 2000, n. 04893).

3.2. Alla luce dei principi giurisprudenziali sopra enucleati in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso e dell’analisi retrospettiva della struttura razionale delle inferenze probatorie che legano la linea logica della motivazione, ritiene il Collegio che nel caso di specie i giudici di merito abbiano effettuato una compiuta motivazione in ordine a tutti gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e al contributo causalmente rilevante consapevolmente e volontariamente fornito da ciascuno degli imputati.

Essi, infatti, hanno ricostruito, anche sulla base delle sentenze acquisite ex art. 238 bis c.p.p., la genesi, la composizione, gli ambiti territoriali e i settori di operatività, la metodologia, le finalità del sodalizio di stampo mafioso "cosa nostra", operante in (OMISSIS) – la cui esistenza e attività non sono state, peraltro contestate dai ricorrenti – , l’apporto fornito da ciascuno degli imputati alla vita dell’organizzazione. In tale ottica hanno argomentato che E., nella sua qualità di corruttibile capo dell’ufficio tecnico comunale, aveva il compito di assegnare gli appalti per opere pubbliche alle imprese che gli venivano appositamente segnalate dalla cosca sì da consentire il conseguimento di rilevanti illeciti profitti, il controllo capillare del territorio e il rafforzamento del prestigio criminale del gruppo sul territorio.

Z., nella sua qualità di membro dell’associazione di stampo mafioso, su incarico del "capofamiglia" B.N., fungeva da elemento di collegamento tra i membri del sodalizio, esponenti politici ed amministratori comunali e locali in genere , manteneva i rapporti con amministratori locali e funzionari in vista dell’aggiudicazione di lavori pubblici presso il comune di (OMISSIS), ove il referente stabile per lui e l’intero gruppo era rappresentato da E., cui faceva pervenire la segnalazione dell’impresa che, di volta in volta, avrebbe dovuto ottenere l’aggiudicazione della gara d’appalto oppure della necessità di eseguire i lavori in subappalto. L’ E. si occupava delle turbative d’asta d’intesa con R.V. che, sempre su designazione dell’organizzazione mafiosa, provvedeva alla raccolta delle buste con le singole offerte, già predeterminate, delle imprese partecipanti in modo da garantire l’aggiudicazione a quella segnalata.

I giudici di merito hanno puntualmente analizzato le prove di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e ai reati fine contestati ai singoli imputati, costituite dalle dichiarazioni rese, in particolare, dai collaboratori di giustizia M.C., L.V., P.A., Bi.An., F.O.. Tutti questi soggetti hanno fornito a vario titolo notizie dettagliate sull’inserimento dei ricorrenti nel sodalizio di stampo mafioso, sulla sua composizione, sul suo modus operandi, sugli obiettivi strategici perseguiti, sull’apporto fornito da ciascuno dei ricorrenti alla vita del sodalizio.

Il provvedimento impugnato, dopo un’approfondita disamina delle suddette prove dichiarative alla luce dei principi indicati dall’art. 192 c.p.p. (sul punto si rinvia allo specifico paragrafo 4 in cui è affrontata tale problematica), ha indicato con motivazione compiuta ed esente da vizi logici e giuridici le ulteriori prove (deposizioni degli ufficiali di polizia giudiziari, nonchè di P., D. A., D.B.G., Bu.Ca., contenuto delle intercettazioni ritualmente svolte, contenuto del colloquio registrato il 30 maggio 2005 intercorso tra L. e Z., documentazione relativa all’espletamento delle gare d’appalto, consulenza della dott.ssa N. in ordine alle gravi irregolarità che avevano contraddistinto lo svolgimento della procedura per l’aggiudicazione dell’appalto relativo al cimitero di (OMISSIS), esito delle attività di indagine svolte, accertamenti patrimoniali, consulenza disposta dal pubblico ministero sulle società in sequestro, sentenze acquisite ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p.), che consentono, insieme con le prove dichiarative, di ritenere obiettivamente provata l’esistenza dell’organizzazione di stampo mafioso e la responsabilità degli imputati in ordine al reato associativo. Ciascuno di essi, infatti, forniva un consapevole, volontario e causalmente rilevante contributo alla vita del sodalizio e al conseguimento degli scopi dallo stesso perseguiti, occupandosi di alterare lo svolgimento delle procedure di pubblico incanto sì da consentire la loro aggiudicazione a società controllate e gestite di fatto da loro o da altri membri dell’organizzazione o, quanto meno, il subappalto ad imprese contigue, di organizzare incontri e riunioni funzionali alla elaborazione delle strategie criminose nel complessivo quadro di una progressiva espansione economica dell’associazione funzionale al rafforzamento del suo prestigio, all’acquisizione di ingenti utili, al reinvestimento dei profitti illeciti acquisiti anche grazie alla commissione di reati contro il patrimonio (estorsioni) o nel settore degli stupefacenti, nonchè di mantenere i contatti con gli altri associati e di prestare loro assistenza e supporto logistico.

4. Non meritano accoglimento neppure i rilievi difensivi circa l’inosservanza dei canoni di valutazione probatoria con riguardo alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in precedenza elencati al par. 3, fonti di prova privilegiate e cardini dell’accusa, e l’inesistenza di idonei riscontri esterni "individualizzanti.

4.1. Le corti del merito (entrambe le decisioni di primo e di secondo grado concordano nella puntigliosa analisi e nella scrupolosa valutazione degli elementi probatori e la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (Sez. Un., 4 febbraio 1992, n. 6882), ai fini della identificazione dei componenti dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, della ricostruzione della metodologia dalla stessa utilizzata, dei singoli episodi criminosi ad esse riconducibili, hanno efficacemente valorizzato il complessivo materiale probatorio.

Esso è costituito dalle deposizioni degli ufficiali di polizia giudiziaria incaricati dello svolgimento delle indagini ed esaminati a dibattimento, dalle risultanze delle attività di accertamento svolte, dalle indagini patrimoniali effettuate, dalle deposizioni dell’imprenditore D.A., di Bu.Ca. (già legata sentimentalmente a E.), di P., dell’impiegata comunale D.B.G., dalla documentazione acquisita in ordine all’espletamento delle diverse gare d’appalto, dalla consulenza della dott.ssa N. in ordine alle gravi irregolarità che avevano contraddistinto lo svolgimento della procedura per l’aggiudicazione dell’appalto relativo al cimitero di (OMISSIS), dalle sentenze definitive, acquisite ex art. 238 bis c.p.p., nonchè, infine, dalle dettagliate dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia C.M., L.V., A. P., Bi.An., F.O..

Questi ultimi hanno fornito a vario titolo notizie dettagliate sulla composizione del gruppo criminale, sui singoli appartenenti allo stesso, sulle sue strategie, ed alleanze, sulla metodologia utilizzata, sugli obiettivi illeciti perseguiti, sul suo modus operandi, e hanno spiegato le causali dei singoli delitti, le loro modalità spazio-temporali ed esecutive, il ruolo svolto da ciascun imputato sia all’interno di ciascuna associazione che nella realizzazione dei singoli reati. I giudici di merito hanno particolarmente valorizzato, ai fini della motivazione delle sentenze, le dichiarazioni auto ed etero-accusatorie dei collaboratori di giustizia, in grado di fornire notizie dettagliate sia per conoscenza diretta che per averlo appreso da altri in ordine ai fatti delittuosi oggetto del presente processo.

4.2. Sotto i profili della credibilità soggettiva e dell’attendibilità intrinseca del racconto dei dichiaranti la sentenza impugnata non merita censura, essendo supportata da adeguato e logico apparato argomentativo, immune da vizi sindacabili in sede di legittimità, avuto riguardo alla personalità di coloro che hanno reso le dichiarazioni, alle loro condizioni socio-economiche e familiari, al loro passato, ai loro rapporti con gli accusati, alla genesi remota e prossima della scelta processuale compiuta, alle caratteristiche di precisione, coerenza, costanza, spontaneità, mancanza di un movente calunniatorio delle dichiarazioni accusatorie.

Considerazioni analoghe valgono per l’affidabilità dei riscontri esterni di carattere generico, poichè la sentenza impugnata ha puntualmente indicato le coerenze, con altre significative risultanze processuali, di quanto narrato, in relazione alla composizione complessiva del sodalizio criminoso, alle dinamiche spazio-temporali, alle modalità e alle circostanze di tempo e di luogo di commissione dei singoli delitti.

E però, la presenza di riscontri esterni dimostrativi della sicura conoscenza da parte dei chiamanti delle modalità obiettive dei fatti dedotti nelle imputazioni non giustifica ancora l’affermazione giudiziale di responsabilità e la pronuncia di condanna in assenza di riscontri "individualizzanti", attinenti cioè anche alla partecipazione del singolo imputato a ciascuno degli episodi criminosi a lui addebitati. Risulta, invero, ormai compiutamente delineata nella giurisprudenza di legittimità, in tema d’interpretazione del canone di valutazione probatoria fissato dall’art. 192 c.p.p., comma 3, l’indicazione dell’operazione logica conclusiva di verifica giudiziale della chiamata in correità, secondo cui essa, perchè possa assurgere al rango di prova pienamente valida a carico del chiamato e possa essere posta a fondamento di un’affermazione di responsabilità, abbisogna, oltre che di un positivo apprezzamento in ordine alla sua intrinseca attendibilità, anche di riscontri estrinseci, i quali debbono avere carattere "individualizzante", cioè riferirsi a elementi di qualsiasi tipo e natura, anche di ordine puramente logico, ma che riguardano direttamente la persona dell’incolpato, in relazione a tutti gli specifici reati a lui addebitati. E, per il principio di frazionabilità della chiamata in correità, si aggiunge che, quando essa contenga più accuse in confronto di più persone per il medesimo episodio o per una pluralità di episodi, l’affermazione di responsabilità postula che a carico di ciascuno dei chiamati sia ravvisabile un elemento esterno di riscontro individualizzante, non potendo l’affidabilità delle dichiarazioni del chiamante, che pure trovino conferme oggettive negli accertati elementi del fatto criminoso e soggettivi nei confronti di uno dei chiamati, estendersi congetturalmente nei confronti di un altro chiamato sulla base di non consentite, reciproche, inferenze totalizzanti. E’, inoltre, pacifico che il riscontro possa consistere in altre chiamate in correità, le quali, per poter essere reciprocamente confermative, devono mostrarsi indipendenti, convergenti in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione e specifiche: la convergenza del molteplice dev’essere, cioè, individualizzante, nel senso che le plurime dichiarazioni accusatorie, pur non necessariamente sovrapponibili, devono confluire su fatti che riguardano direttamente sia la persona dell’incolpato sia le imputazioni a lui attribuite. Con l’ulteriore ed ovvio corollario che le accuse introdotte mediante dichiarazioni de relato, aventi ad oggetto la rappresentazione di fatti noti al dichiarante non per conoscenza diretta, ma perchè apprese da terzi, possono integrare una valida prova di responsabilità a carico dell’imputato solo se sorretta da riscontri estrinseci individualizzanti, in relazione al fatto che forma oggetto dell’accusa e alla persona incolpata, essendo necessario, per la natura indiretta dell’accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto della stessa.

4.3. Nel caso di specie la sentenza impugnata è conforme ai principi giuridici in precedenza illustrati, in quanto, con motivazione compiuta ed esente da vizi logici e giuridici, ha puntualmente analizzato, in relazione alle posizioni dei singoli ricorrenti, i motivi per i quali le dichiarazioni rese da C.M., L.V., P.A., Bi.An., F.O. sono da ritenere intrinsecamente attendibili e sono confortate da elementi di riscontro esterno "individualizzanti".

Essi sono costituiti dalle altre dichiarazioni rese da testimoni, imputati di reato connesso, dalle deposizioni degli ufficiali di polizia giudiziaria incaricati dello svolgimento delle indagini che hanno riferito in ordine all’esito degli accertamenti espletati, dalle deposizioni dei soggetti ( D.A., B.C., P., D.B.G.), a conoscenza dei fatti per cui si procede, dalla consulenza della dott.ssa N. in ordine alle gravi irregolarità che avevano contraddistinto lo svolgimento della procedura per l’aggiudicazione dell’appalto relativo al cimitero di (OMISSIS), dalla documentazione riguardante lo svolgimento delle gare d’appalto, dalle sentenze definitive acquisite ex art. 238 bis c.p.p..

Esaminando alla luce di queste premesse generali il percorso seguito dalla Corte territoriale per valutare le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia in ordine al ruolo di ciascuno dei ricorrenti nell’ambito dell’associazione di stampo mafioso e nella commissione dei singoli ulteriori delitti ad essi contestati e per rappresentare poi, in motivazione, le ragioni poste a base della decisione adottata, si osserva che la Corte territoriale ha compiuto una duplice operazione di verifica, di cui ha dato ampiamente conto nella sua sentenza. In primo luogo, il giudice di appello ha analizzato le posizioni dei collaboratori, ripercorrendo sinteticamente la loro storia personale e giudiziaria, individuando la genesi della loro scelta collaborativa, discutendo criticamente le motivazioni dell’atteggiamento processuale serbato, i differenti itinerari collaborativi, le fonti delle rispettive conoscenze, il contenuto del loro racconto.

Dopo aver fornito tali articolate e specifiche motivazioni sull’attendibilità dei dichiaranti e sulla credibilità di quanto da loro narrato – desunta dalla genesi, dalla concordanza e dalla verosimiglianza dei loro narrati – il giudice di appello ha ripreso in considerazione le dichiarazioni di tali soggetti nella parte della sentenza dedicata alla responsabilità dei ricorrenti per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. e per gli altri reati contestati unitamente ad un complesso di ulteriori e diversi elementi di conoscenza.

Quanto sin qui riportato sulla complessiva struttura della sentenza impugnata ed in particolare sugli specifici passaggi dedicati all’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori ed alla verifica di quanto da essi narrato, attraverso raffronti con altre dichiarazioni, consente di affermare che la motivazione della pronuncia si sottrae alla censura relativa alla violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 3, oltre che a quella di manifesta illogicità, secondo quanto meglio precisato di seguito. Da un lato, quindi, la decisione ha rappresentato, in forma logicamente ordinata e senza evidenti incongruenze, le ragioni per cui le dichiarazioni dei collaboratori sono state ritenute veritiere e credibili, fornendo conseguentemente una ricostruzione logica e non contraddittoria della responsabilità dei ricorrenti sia in ordine al reato di associazione per delinquere di stampo mafioso che ai singoli delitti rispettivamente contestati a ciascuno degli imputati; dall’altro lato la valutazione critica ed il riscontro di ciascuna delle dichiarazioni dei collaboratori attraverso gli omogenei e convergenti elementi di conoscenza provenienti dalle narrazioni degli altri collaboratori (menzionati in sentenza e motivatamente considerati degni di fede) consente di ritenere rispettato il canone dettato dall’art. 192 c.p.p., comma 3. 5. Privo di pregio è anche il vizio di contraddittorietà e illogicità della motivazione dedotto da tutti i ricorrenti.

Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute;

d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, n. 10951). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante èdetermini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, n. 10951).

Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse, perchè il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha illustrato il complesso degli elementi (dichiarazioni dei collaboratori di giustizia C.M., L.V., P.A., Bi.An., F.O., contenuto delle intercettazioni ritualmente svolte, registrazione del colloquio svoltosi il 30 maggio 2005 tra Z. e L.V., deposizioni di Bu.Ca. e D.A., risultanze delle sentenze acquisite ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p., accertamenti patrimoniali effettuati, documentazione relativa alle procedure di gare d’appalto) su cui hanno fondato l’affermazione di penale responsabilità degli imputati sia in ordine al delitto associativo che ai singoli delitti loro rispettivamente ascritti e hanno ritenuto provata, oltre ogni ragionevole dubbio, la loro responsabilità.

Quindi il controllo di legittimità di questo Collegio, appuntato esclusivamente sulla coerenza strutturale "interna" della sentenza, di cui ha saggiato la oggettiva "tenuta" sotto il profilo logico- argomentativo e, per tale via, anche l’accettabilità da parte di un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento e da osservatori disinteressati della vicenda processuale, non ha consentito di riscontrare l’esistenza dei vizi denunciati. E’ preclusa a questo giudice di legittimità – in sede di controllo sulla motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, sollecitata nei ricorsi, o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente e plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, pure sollecitata dalle difese dei ricorrenti. Queste operazioni trasformerebbero infatti la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

Le argomentazioni svolte dalle difese dei ricorrenti attengono pressocchè esclusivamente a profili di fatto e mirano a suggerire di volta in volta una diversa interpretazione di singole risultanze processuali o una possibile lettura alternativa delle vicende di cui è processo, ma non valgono ad inficiare l’impianto logico della sentenza impugnata ora per la loro intrinseca debolezza ora per la loro genericità e per la carente individuazione dei passaggi della motivazione della decisione impugnata asseritamente contraddittori o viziati da manifesta illogicità oppure inidonei a svolgere la funzione esplicativa di quanto deciso.

Sotto altro profilo non si può fare a meno di rilevare che i numerosi inviti – contenuti nei ricorsi e nella memoria difensiva di R. – a rivalutare criticamente il contenuto di singole dichiarazioni rese da testi o da collaboratori di giustizia, sono estremamente generici e parziali – essendo frutto di mirate estrapolazioni di singoli passi da dichiarazioni di ben maggiore ampiezza e complessità – e comunque non valgono ad evidenziare gravi contraddizioni risultanti dal testo del provvedimento impugnato come richiesto dal codice di procedura penale ai fini dell’esistenza del vizio di motivazione. In quest’ottica sono privi di pregio anche i rilievi difensivi concernenti l’omesso compiuto apprezzamento delle dichiarazioni rese in grado d’appello da D.G. e il contenuto delle sentenze pronunziate nei confronti suoi e di Ch., entrambi separatamente giudicati. I giudici di merito, infatti, hanno puntualmente risposto ai rilievi difensivi, evidenziando che la versione dei fatti offerta nel giudizio d’appello da D.G. è smentita dalle dichiarazioni registrate il 30 maggio 2005, è chiaramente improntata a reticenza e si pone in una linea di continuità e di coerenza con il ruolo di D.G., imprenditore protetto da "cosa nostra", mosso dall’intento di volersi continuare ad accreditare quale interlocutore ancora affidabile per l’organizzazione e meritevole anche per il futuro delle sue attività. Nessuna cesura e frattura logica è neppure riscontrabile nelle considerazioni svolte dai giudici di merito in ordine all’autonomia delle posizioni processuali di D.G. e Ch., separatamente giudicati, alla conseguente irrilevanza degli esiti dei procedimenti celebrati a loro carico rispetto alla specificità delle posizioni degli odierni ricorrenti, all’autonomia del reato associativo di cui all’art. 416-bis c.p. rispetto ai singoli reati fine circostanziati o meno.

6. Non merita accoglimento il motivo di ricorso con il quale la difesa di E. deduce violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies.

Il reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies, comma 1 (trasferimento fraudolento di valori) è una fattispecie a forma libera, che si concretizza nell’attribuzione fittizia della titolarità o disponibilità di denaro o di qualsiasi altro bene o utilità, realizzata con qualunque modalità al fine di eludere specifiche disposizioni di legge. La condotta vietata consiste nella creazione di una situazione di apparenza formale della titolarità di un bene, difforme dalla realtà sostanziale, e nel mantenimento consapevole e volontario di tale situazione.

L’interpretazione letterale e logico-sistematica della norma rendono evidente che il suo ambito di applicabilità non è limitato alle ipotesi riconducigli a precisi schemi civilistici, ma comprende tutte quelle situazioni in cui il soggetto viene a trovarsi in un rapporto di signoria con il bene e, inoltre, che essa prescinde da un trasferimento in senso tecnico-giuridico, rimandando non a negozi giuridici tipicamente definiti ovvero a precise forme negoziali, ma piuttosto ad una indeterminata casistica, individuabile soltanto attraverso la comune caratteristica del mantenimento dell’effettivo potere sul bene attribuito in capo al soggetto che effettua l’attribuzione ovvero per conto o nell’interesse del quale l’attribuzione medesima viene compiuta.

Tenuto conto della ratto, delle finalità e della struttura della disposizione, è possibile affermare che colui che si rende fittiziamente titolare di denaro, beni o utilità, al fine di eludere le norme in materia di misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando, o di agevolare la commissione dei reati di ricettazione, riciclaggio o impiego di beni di provenienza illecita, risponde, a titolo di concorso, del medesimo reato ascritto a colui che ha operato la fittizia attribuzione in presenza di un consapevole e volontario contributo causalmente rilevante alla lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice. (Sez. 2, 9 luglio 2004, n. 38733; Sez. 1, 10 febbraio 2005, n. 14626; Sez. 1, 26 aprile 2007, n. 30165).

Il disvalore della condotta è dato, poi, dalle finalità che costituiscono il profilo soggettivo (dolo specifico) della figura delittuosa, intesa ad eludere – come già sopra detto – le misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando ovvero ad agevolare la commissione di reati che reprimono fatti connessi alla circolazione di mezzi economici di illecita provenienza.

Il giudice di merito è libero di procedere a tutti gli accertamenti del caso al fine di pervenire ad un giudizio non vincolato necessariamente da criteri giuridico-formali, ma soltanto rispettoso dei parametri normativi di valutazione delle prove o degli indizi emergenti da elementi fattuali o logici.

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto, con puntuale richiamo agli elementi probatori acquisiti (dichiarazioni del collaboratore di giustizia L., testimonianze rese da Bu.Ca., S.S. P., P.G., B.S., accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria) ha argomentato, con ragionamento immune da vizi logici e giuridici, che il ricorrente aveva fittiziamente attribuito a S.S.P. quote della società "Marsala residence" s.r.l., di cui l’imputato svolgeva funzioni di amministratore di fatto, il (OMISSIS), ossia dopo alcuni mesi dall’inizio delle prime collaborazioni con gli inquirenti che lo avevano particolarmente allarmato al pari della notizia delle operazioni di polizia che avevano coinvolto numerosi imprenditori ed esponenti mafiosi in relazione agli appalti per la costruzione dell’ospedale di (OMISSIS), vicenda in cui l’imputato era pesantemente coinvolto per le gravi irregolarità commesse, secondo quanto da lui stesso confessato in lacrime alla teste Bu..

I giudici di merito, pur tenendo conto dei rilievi difensivi, hanno correttamente sottolineato, con motivazione compiuta ed esente da vizi logici e giuridici, che la condotta di E. era chiaramente finalizzata a scongiurare possibili provvedimenti di confisca in un periodo in cui stava reinvestendo i proventi illeciti della sua attività criminosa, considerato anche che nel 2002 aveva incamerato buona parte della tangente per la turbativa d’asta relativa alla costruzione del cimitero di (OMISSIS) e che in un arco di tempo non molto diverso aveva acquisito un’altra partecipazione (rimasta del tutto occulta) nell’A.T.I., aggiudicataria dell’allato riguardante "Villa Genna". 7. Priva di pregio è anche la doglianza prospettata dalla difesa di Z. circa l’insussistenza dei presupposti per l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di turbata libertà degli incanti, contestato al capo 2) della rubrica, tenuto conto delle dichiarazioni liberatorie rese da D.V.G..

I giudici di merito hanno, infatti, specificamente apprezzato le dichiarazioni di D.V. (figlio della sorella della moglie dell’imputato) in ordine alle motivazioni sottese al ritiro dell’offerta già presentata per il pubblico incanto concernente la gestione del complesso architettonico e ambientale di " (OMISSIS)", sottolineandone l’assenza di intrinseca credibilità e la mancanza di coerenza logica alla luce delle complessive modalità del fatto e delle scansioni procedimentali della gara. Hanno, inoltre, evidenziato, con puntuale richiamo alle circostanze di fatto (in quanto tali insindacabili in sede di legittimità, ove sorrette, come nel caso di specie, da una solida e compiuta argomentazione), che il narrato di D.V. è smentito dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia L. e F.. Questi ultimi hanno concordemente riferito in ordine allo strumentale rinvio della gara dal (OMISSIS), su determinazione del coimputato E., già informato delle iniziative assunte da Z. per far desistere D.V. dalla partecipazione e consentire in tal modo l’aggiudicazione pilotata all’"A.T.I.", di cui erano soci occulti, tra gli altri, L. e lo stesso Z.. Hanno, poi, dichiarato che "(OMISSIS)" costituiva la base logistica per incontri tra esponenti dell’associazione di stampo mafioso, tra cui, oltre a loro stessi, Z., E. che lì discutevano le strategie criminali. In proposito la sentenza indicava, quali elementi di conferma del narrato dei collaboratori, le risultanze dei servizi di osservazione svolti dalla p.g. e la testimonianza dell’ispettore G., in grado di riferire anche in ordine alle assunzioni di familiari di esponenti del clan mafioso presso " (OMISSIS)".

I giudici d’appello hanno, inoltre, richiamato, a conferma delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la testimonianza di P.S., avvicinato in momenti diversi da Z. e L., entrambi accreditatisi come persone che, pur nell’ambito di un’attività formalmente intestata a terzi, avevano titolo per occuparsi di "(OMISSIS)" e, in tale veste, erano interessate alla sua collaborazione.

La sentenza impugnata ha, inoltre, messo in luce la circostanza che delle vicende relative all’aggiudicazione del pubblico incanto per la gestione di "(OMISSIS)" si parla, con univoci e chiari riferimenti, nella conversazione del (OMISSIS) tra L. e Z..

8. Insussistente è il vizio di violazione della L. n. 203 del 1991, art. 7 dedotto dalle difese di Z. ed E..

8.1. Il D.L. n. 152 del 1991, art. 7 richiede che i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo siano commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso. Si tratta di due ipotesi distinte, quantunque logicamente connesse. La prima ricorre quando l’agente o gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica – non necessariamente su una o più persone determinate, ma, all’occorrenza, anche su un numero indeterminato di persone, conculcate nella loro libertà e tranquillità – con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata. In tal caso non è necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica; essa può essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono, sia già di per sè tale da evocare nel soggetto passivo l’esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso. La seconda delle due ipotesi previste dal citato art. 7, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, implica invece necessariamente l’esistenza reale, e non più semplicemente supposta, di un’associazione di stampo mafioso, essendo impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un sodalizio semplicemente evocato (Cass. Sez. 1, 18 marzo 1994, n. 1327, rv. 197430).

L’aggravante in questione, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi, sia che essi siano essi partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia che risultino ad esso estranei (Sez. Un. 22 gennaio 2001, n. 10; Cass., 23 maggio 2006, n. 20228).

8.2. L’ordinanza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi in precedenza illustrati, laddove ha correttamente valorizzato, ai fini della configurabilità dell’aggravante ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, l’intraneità di entrambi i ricorrenti al sodalizio di stampo mafioso che hanno realizzato le turbative d’asta loro contestate su precise disposizioni del "capofamiglia", in pieno accordo con gli altri esponenti dell’associazione e nell’interesse della stessa, strategicamente protesa al rafforzamento del suo controllo del territorio in vista del conseguimento di ingenti, illeciti profitti, funzionali alla sua piena operatività. 9. Non sussistente è anche il vizio di violazione di legge e di vizio della motivazione, prospettato dalla difesa di Z. con riferimento alla ritenuta configurabilità delle aggravanti previste dall’art. 41 bis c.p., commi 4 e 6. 9.1. Occorre premettere che l’aggravante della disponibilità di armi e di esplosivi da parte di un sodalizio di stampo mafioso (art. 416 bis c.p., comma 4) è una circostanza aggravante oggetti va, in quanto concernente i mezzi e le modalità di attuazione della condotta criminosa (Sez. 6, 4 dicembre 2003, n. 7707), e, pertanto, deve essere riferita all’attività dell’associazione e non alla condotta del singolo partecipe (Sez. 6, 15 ottobre 2009, n. 42385).

Di conseguenza è applicabile anche nei confronti degli associati che non abbiano personalmente custodito o utilizzato le armi.

Inoltre, per il riconoscimento della circostanza aggravante in esame non è necessaria l’esatta individuazione delle armi, ma è sufficiente l’accertamento in fatto della disponibilità di un armamento, desumibile anche dai fatti di sangue perpetrati dal gruppo criminale (Sez. 5, 6 ottobre 2003, n. 957).

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto, richiamando il contenuto delle sentenze irrevocabili di condanna acquisiste ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p., e pronunziate nei procedimenti denominati "patti+40", "Omega", "Peronospera 1", ha evidenziato che alcuni esponenti storici del sodalizio di stampo mafioso in cui erano organicamente inseriti i ricorrenti ( D.V., fratello di G., a sua volta "compare" di Z., C.F., T.A. e molti altri) erano stati soppressi a seguito di una vera e propria "guerra di mafia" interna sino al ripristino del controllo della "famiglia" da parte della fazione alleata ai corleonesi e che altri omicidi in danno di soggetti non affiliati erano stati consumati, con l’uso di armi da fuoco, anche da coloro ( B.N., i fratelli A.) che, in epoca più recente, avevano assunto la dirigenza del sodalizio di stampo mafioso.

In tale ottica la sentenza impugnata ha, quindi, correttamente concluso che i ricorrenti, in virtù del consapevole, stabile e causalmente rilevante contributo fornito alla vita dell’associazione, avente la disponibilità di armi e adusa a ricorrere alla violenza e all’impiego di tali strumenti per il perseguimento dei propri fini, devono rispondere di tale aggravante a prescindere dal fatto che abbiano o meno personalmente utilizzato le armi.

9.2. L’aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 6 ricorre quando gli associati intendono assumere il controllo di attività economiche, finanziando l’iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti commessi in attuazione del programma criminoso. L’apporto di capitale deve corrispondere a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un intervento repressivo (Sez. 2, 4 novembre 2002, n. 9172).

Trattasi di una circostanza oggettiva, poichè il perseguimento con i mezzi previsti della finalità descritta si presenta come attributo della specifica associazione, qualificandone la pericolosità alla pari del suo carattere armato, ed è quindi, valutabile a carico di ogni componente del sodalizio in base all’art. 59 c.p., comma 2.

La sentenza impugnata ha ritenuto sussistente l’aggravante in base alla dimostrata collaborazione di Z. con gli esponenti di vertice del sodalizio per consentire loro di svolgere un’attività imprenditoriale occulta mediante un prestanome ( Ch.Fi.) e la conclusione di contratti di sub-appalto e di nolo a freddo, al fine di consentire in tal modo il reinvestimento dei proventi delle attività illecite (estorsioni, traffici di droga, turbative d’asta), cui il gruppo mafioso era stabilmente dedito.

10. Priva di pregio è la censura con la quale la difesa di E. denuncia violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla disposta confisca del 51% delle quote della s.r.l.

"Marsala residence", del 48% delle quote della s.r.l. "Bep Costruzioni", del 50% delle quote della s.r.l, "Gard Costruzioni", di un immobile situato in (OMISSIS) e della nuda proprietà dell’immobile posto anch’esso in (OMISSIS).

In proposito occorre premettere che l’applicazione della confisca ai sensi della L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies è subordinata all’esistenza dei seguenti presupposti: a) rapporto di sproporzione tra il valore dei beni e il reddito dichiarato ai fini dell’applicazione delle imposte sul reddito, oppure rispetto all’attività economica svolta dall’imputato, avuto riguardo al momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti; b) l’omessa giustificazione credibile da parte del titolare dei beni circa la liceità della loro provenienza.

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto ha fondato la misura abitativa sulle risultanze delle indagini, anche di natura patrimoniale, condotte dalla Guardia di Finanza e riferite a dibattimento dal teste L.P., sulla deposizione della Bu., sulle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia in merito alle illecite modalità con le quali E. aggiudicava gli appalti, abusando del suo ruolo, nonchè sugli accertamenti svolti dal consulente tecnico del pubblico ministero, rag. G., che ha fondato la sua analisi sui dati ricavati dai dati bancari e su quelli contabili delle società partecipate da E. e da suoi familiari. Dal complesso di questi elementi emerge in modo obiettivo e in equivoco che E., grazie alla sua incondizionata disponibilità alla corruzione, messa a disposizione del sodalizio di stampo mafioso, ha potuto nel corso degli anni accumulare rilevanti somme di denaro in contanti che gli hanno consentito un elevato tenore di vita, l’acquisizione di un cospicuo patrimonio e ingenti finanziamenti in favore delle società da lui partecipate.

I giudici di merito, con motivazione coerentemente argomentata, hanno altresì spiegato i motivi per i quali sono prive di qualunque seria valenza probatoria le dichiarazioni rese da G.A. che hanno inficiato l’assunto difensivo illustrato nella consulenza di parte, tenuto conto della imprecisione delle circostanze riferite dal teste, della assoluta mancanza di documentazione a sostegno delle singole prospettazioni, della contabilizzazione dei rapporti di dare-avere fra soci e fra questi e la società con conseguente impossibilità di qualsiasi forma di verifica a riscontro della veridicità dell’assunto della tesi offerta dall’imputato ricorrente.

11. Non meritano accoglimento neppure le censure formulate da E. in merito all’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla dosimetria della pena.

La sentenza impugnata ha correttamente fondato il diniego delle circostanze attenuanti generiche sulla estrema gravità delle condotte criminose poste in essere, sorretta da un dolo particolarmente intenso, che hanno pesantemente condizionato la legalità dell’operato della pubblica amministrazione, hanno alterato le regole della libera e leale concorrenza tra operatori economici, hanno gravemente pregiudicato l’efficacia e la trasparenza dell’azione amministrativa, ispirata per un considerevole periodo di tempo all’osservanza di metodi mafiosi nella gestione della cosa pubblica, alla disponibilità alla corruzione, all’espediente della gestione occulta o indiretta di partecipazioni societarie ed iniziative economiche.

12. Le doglianze di violazione di legge per omessa applicazione della diminuente per il rito abbreviato formulate da R. sono manifestamente infondate.

La sentenza impugnata ha correttamente ritenuto inammissibili tali censure che non avevano formato oggetto dei motivi d’appello e sono state introdotte per la prima volta con i motivi nuovi (peraltro tardivamente depositati) che, secondo il costante orientamento di questa Corte, devono avere ad oggetto i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di gravame ai sensi dell’art. 581 c.p.p., lett. a), (Sez. Un. 25 febbraio 1998, n. 4683; Sez. 1, 9 maggio 2005, n. 33662; Sez. 6, 20 maggio 2008, n. 27325).

13. Al rigetto dei ricorsi consegue di diritto la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione in solido delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Comune di Marsala, Provincia Regionale di Trapani e "Associazione Antiracket di Marsala – onlus", che vengono liquidate per ciascuna parte civile nella somma complessiva di Euro tremila, oltre spese generali, I.V.A., C.P.A. come per legge.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè in solido alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Comune di Marsala, Provincia Regionale di Trapani e "Associazione Antiracket di Marsala – onlus", che liquida per ciascuna parte civile nella somma complessiva di Euro tremila, oltre spese generali, I.V.A., C.P.A. come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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