Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-11-2011, n. 23167 Associazione in partecipazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Confermando la decisione di primo grado, la Corte d’appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, ha rigettato la domanda di I.G., titolare di un’attività di parrucchiere ed estetica, intesa a contestare la pretesa creditoria dell’INPS per contributi omessi con riferimento alla lavoratrice dipendente C.G., sul rilievo che, nonostante la dedotta (dallo I.) esistenza di un contratto di associazione in partecipazione prevedente l’attribuzione alla C., a titolo di utili, del 25% del reddito riferibile al settore estetico. l’attività lavorativa di costei non poteva qualificarsi che come prestazione di lavoro subordinato. avendo il nominato CTU accertato, sulla base alla documentazione contabile in atti, che alla lavoratrice, per l’anno 2000, era stata erogata una somma non coincidente con il suddetto 25% e non trovando, per altro verso, giustificazione l’attribuzione della somma in questione in altri rapporti lavorativi con caratteristiche di autonomia, perchè mai invocati dallo I..

Per la cassazione di questa sentenza I.G. ha proposto ricorso affidato ad un unico motivo.

L’INPS ha depositato la procura speciale ai propri difensori, che hanno, poi, partecipato all’udienza di discussione.

Motivazione Semplificata.

Motivi della decisione

1. Nell’unico motivo, con denuncia di violazione e falsa applicazione degli artt. 2459 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., il ricorrente contesta alla sentenza impugnata di non aver vagliato in maniera esauriente gli elementi distintivi del rapporto di associazione in partecipazione rispetto a quelli propri del rapporto di lavoro subordinato; di non aver dato alcun valore al contratto del primo tipo sottoscritto tra le parti nonchè alla circostanza che la lavoratrice aveva il potere di prendere visione dei rendiconti dell’azienda e di controllare la relativa gestione; di non aver assegnato la dovuta rilevanza alla mancanza di ogni prova della subordinazione; di non aver considerato, infine, che la differenza (accertata dal CTU) tra la somma corrispondente al 25% degli utili del settore estetico e quella di fatto corrisposta alla lavoratrice era minima, si da giustificarsi con il normale margine di aleatorietà proprio del corrispettivo spettante all’associato.

2. Il ricorso non è fondato.

3. Premette la Corte che, secondo la propria giurisprudenza, in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, pur avendo indubbio rilievo il "nomen iuris" usato dalle parti, occorre verificare in concreto l’autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell’associato at rischio di impresa (Cass. n. 4524 del 2011, n. 24781 del 2006, n. 19475 del 2003. n. 2693 del 2001).

Al riguardo si è, ulteriormente, precisato, con il principio che il Collegio condivide e fu proprio (vedi Cass. n. 24781 del 2006 citata), che, ove si accerti che la prestazione lavorativa è inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione del lavoratore al rischio di impresa e senza una sua ingerenza nella gestione della impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato retribuito con partecipazione agli utili, in ragione di un generale "favore" accordato dal precetto dell’art. 35 Cost. che tutela il lavoro "in tutte le sue forme e applicazioni". 4. Nella specie il ricorrente lamenta che. nella propria indagine, il giudice d’appello non ha dato il dovuto rilievo al contratto di associazione in partecipazione esistente tra le parti e alla relativa regolamentazione; senonchè tale deduzione è priva di ogni indicazione in ordine al contenuto di tale contratto, che non è trascritto, in nessuna delle sue parti, nel ricorso per cassazione, così come imponeva il principio di autosufficienza dell’atto (vedi, fra tante, Cass. n. 17915 del 2010, n. 15952 del 2007, n. 18506 del 2006, n. 12984 del 2006). Senza dire che neppure risultano osservate le prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006), non recando il ricorso indicazioni circa 1"avvenuta produzione del documento contrattuale nelle fasi di merito con la specificazione della sede (fascicolo di parte o altro) in cui il documento in questione era rinvenibile (cfr., sulla necessità di siffatti adempimenti, Cass. Sez. un. N. 7161 del 2010). A questa Corte, pertanto, non è reso possibile verificare se il regolamento pattizio prevedesse – come sembra sostenere il ricorrente – la partecipazione della C. at rischio di impresa ( seppure limitato al settore estetico), il suo (asserito) potere di controllo sulla gestione di tale settore (art. 2552 c.c., comma 2) e il suo diritto at relativo rendiconto periodico (art. 2552 c.c., comma 3).

Nè dell’avvenuta dimostrazione dell’esistenza di tali elementi attraverso altre, non esaminate, risultanze istruttorie si fa cenno da parte del ricorrente medesimo, il quale neppure lamenta di aver contestato – in sede di merito – i risultati della disposta consulenza tecnica di ufficio sotto il profilo dell’errore di calcolo (che solo in questa sede si prospetta come compiuto dall’ausiliare tecnico) e neppure, da ultimo, censura l’affermazione della Corte di merito, secondo la quale nessun altro rapporto di collaborazione autonoma era stato invocalo per giustificare l’erogazione alla C. della somma risultante dalla perizia contabile.

5. In difetto di una valida contestazione della sentenza impugnata con riferimento al mancato esame di decisive clausole contrattuali o di altre determinanti risultanze istruttorie, dirette a rappresentare ed avvalorare un diverso quadro dei rapporti tra le parti e certo essendo, per altro verso, che la prestazione lavorativa della C. era stabilmente inserita nel contesto dell’organizzazione aziendale dell’odierno ricorrente (è pacifico in atti che la lavoratrice era addetta al settore estetico del negozio di parrucchiere ed estetica di cui era titolare lo I.) e che per tale prestazione, la stessa riceveva un corrispettivo, nessuna censura può muoversi al giudizio in conclusivamente espresso dalla Corte di merito nel senso della qualificazione del rapporto di lavoro in termini di subordinazione.

6. In conclusione il ricorso è rigettato.

7. Il ricorrente è condannato al pagamento, in favore dell’INPS, delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 per esborsi e in Euro 1.200,00 (milleduecento) per onorari.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’INPS. delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 per esborsi e in Euro 1.200.00 per onorari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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