Cons. Stato Sez. V, Sent., 28-06-2011, n. 3868 Strade pubbliche e private

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La società O. F. s.r.l. chiedeva, con ricorso dell’aprile 1996 al T.A.R. per l’Emilia Romagna – Sezione di Parma, l’annullamento della concessione edilizia rilasciata dal Comune di Parma alla s.n.c. E. con il n. 1641/95.

A sostegno dell’impugnativa era dedotto il seguente, articolato motivo di gravame: Violazione degli artt. 37 e 13 delle N.T.A. del vigente P.R.G. comunale e delle corrispondenti norme della variante generale al P.R.G.; Eccesso di potere per contraddittorietà – illogicità – manifesta ingiustizia.

La ricorrente, proprietaria di un terreno che, al pari di quello della controinteressata, si affaccia (dallo stesso lato) su una strada privata ubicata in zona artigianale ed industriale di completamento, contestava il titolo edilizio rilasciato all’avversaria per il fatto che questo, in sintesi, con il permettere l’edificazione a distanza di circa m. 2 dal ciglio della predetta strada, avrebbe violato le disposizioni di cui agli artt. 37 e 13 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. comunale, norme che per la zona in questione prevedono precise distanze minime dei fabbricati dal ciglio stradale (m. 10 o almeno m.7).

Il Comune di Parma, con nota del 1°/9/1995 (e successiva di conferma del 26/9/1995), aveva comunicato alla ricorrente che, nel caso di edificazione sul terreno di proprietà, la sua costruzione avrebbe dovuto "…rispettare la distanza di m.10 dalla strada". Con la concessione edilizia rilasciata alla controinteressata, invece, la stessa Amministrazione aveva poco dopo consentito alla medesima di costruire a distanza di appena m.2 dal ciglio della stessa strada, privata, sì, ma "di uso pubblico".

Nel ricorso si esponeva, più in dettaglio, quanto segue.

L’art. 37 delle N.T.A. del P.R.G. prevede che nelle zone di completamento, quale quella su cui insistono i terreni delle parti, le costruzioni debbano rispettare la distanza minima dal ciglio stradale di m.10. La norma impone la precisata distanza rispetto a tutte le strade, senza alcuna differenziazione basata sul loro regime di proprietà (per quanto riguarda genericamente gli "altri confini", invece, essa prevede una distanza di m.6).

L’art.13 delle N.T.A., nella nuova formulazione di cui alla variante generale del P.R.G. approvata dal Consiglio Comunale con deliberazione n.267 del 11/10/1995, e la tabella richiamata da tale disposizione, impongono dal canto loro una distanza delle costruzioni dalle strade locali urbane pari all’indice di visuale libera.

Pur nel contrasto tra le due norme, assumeva la ricorrente, in ogni caso non sarebbe stata possibile un’edificazione come quella assentita alla controinteressata, distante solamente 2 metri dal ciglio della detta strada di penetrazione interna.

Né, d’altra parte, per legittimare tale edificazione si sarebbe potuta prendere quale punto di riferimento della distanza da rispettare la linea di mezzeria della suddetta strada. Tale linea non poteva essere intesa quale confine tra le proprietà, avendo una propria specificità quale elemento della strada, pur privata, anche perché gravata da servitù di pubblico passaggio e, infine, integrante un’opera di urbanizzazione primaria, come risulterebbe dalla concessione edilizia rilasciata al dante causa della ricorrente.

La controinteressata, costituitasi in giudizio, eccepiva l’inammissibilità del ricorso per carenza d’interesse e, nel merito, la sua infondatezza, chiedendone la reiezione.

In pari tempo, con separato atto introduttivo recante le medesime doglianze, la stessa ricorrente aveva impugnato anche la concessione edilizia rilasciata il 22\2\1996 alla A. M. di T. M., per la realizzazione di un capannone lungo la stessa strada. E il relativo contraddittorio si era sviluppato su binari del tutto simili a quelli appena descritti, anche in tal caso con la costituzione in giudizio della contro interessata in resistenza all’impugnativa.

Il T.A.R. adito respingeva i due ricorsi con le sentenze in epigrafe.

Il Tribunale riteneva di poter prescindere dall’esame dell’eccezione d’inammissibilità dei ricorsi per carenza d’interesse in considerazione della loro infondatezza nel merito.

Le due sentenze poggiano sulle considerazioni appresso esposte.

L’assunto di partenza della ricorrente è, come si è visto, che la proprietà privata della strada su cui si affacciano i terreni interessati non costituisca ostacolo all’applicazione della sopra indicata normativa sulle distanze minime dalle strade.

La ricorrente ritiene che la strada in questione, ancorché privata, sia asservita all’uso pubblico, come indicato dal regolamento allegato all’atto di compravendita dell’area stipulato dalla stessa ricorrente, ed in quanto opera di urbanizzazione primaria.

Anche a prescindere da tale aspetto, però, essa sarebbe pur sempre una strada, entità come tale già ontologicamente distinta rispetto ai generici confini di proprietà, per i quali solo lo strumento urbanistico consente l’edificazione a distanza non inferiore a m. 6.

Le controinteressate, invece, esprimono l’opposto avviso che, trattandosi di strada privata non soggetta all’uso pubblico, ma unicamente al transito dei residenti, la distanza delle nuove costruzioni dalla medesima debba essere calcolata quale distanza dai confini di proprietà: pertanto, essendo la stessa strada di proprietà delle controinteressate fino alla linea di mezzeria, sarebbe legittima la costruzione dei fabbricati in discorso, situati a m. 6 da tale confine.

Al cospetto di tali argomentazioni, il primo giudice ha ritenuto che la definizione di "strada" cui fanno riferimento le suindicate disposizioni delle N.T.A. del piano regolatore del Comune di Parma, essendo queste finalizzate a disciplinare, a tutela della sicurezza della circolazione, le fasce di rispetto delle costruzioni rispetto ad aree comunque destinate a pubblico transito, non possa essere intesa in modo diverso da quello definito dall’art. 1 del Codice della strada, secondo il quale: "Ai fini dell’applicazione delle norme del presente codice si definisce "strada" l’area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali".

Pertanto, può giuridicamente definirsi quale "strada" anche un’area di proprietà privata, ma soltanto ove essa sia asservita all’uso pubblico.

Il Tribunale ha perciò disatteso l’argomentazione del ricorrente basata su un concetto di "strada" svincolato dall’uso pubblico.

Il T.A.R., di riflesso, ha reputato necessario, ai fini della soluzione della controversia, accertare incidenter tantum se effettivamente sussistesse l’estremo dell’uso pubblico della strada in questione. Solo in caso di esito positivo di tale verifica, infatti, le distanze dei fabbricati di nuova costruzione si sarebbero dovute calcolare dal ciglio della strada e non dal confine dell’area di proprietà, con conseguente illegittimità dei gravati provvedimenti.

Ciò posto, il Tribunale ha ritenuto che le risultanze disponibili non suffragassero gli assunti di parte ricorrente.

Non solo non è stata reputata convincente, in quanto affermazione non supportata da alcun elemento probatorio, la considerazione ricorsuale secondo la quale la strada in questione sarebbe stata di proprietà comunale per effetto della sua realizzazione quale onere di urbanizzazione primaria (dagli atti di causa risulta, infatti, che la strada è di proprietà dei frontisti privati titolari delle aree che rispettivamente vi si affacciano).

Ma il Tribunale ha ritenuto che l’affermazione dell’uso pubblico della strada, basata unicamente su un dato estrapolato dal regolamento allegato al rogito di compravendita dell’area della ricorrente, e quindi su un atto tra privati, non fosse sufficiente a far accertare l’esistenza di una servitù di uso pubblico gravante sulla stessa, in mancanza sia della documentata sussistenza di altri elementi idonei allo scopo, sia, soprattutto, di qualsivoglia accertamento di tale uso promanante dall’Amministrazione Comunale.

Per quanto esposto, il primo giudice ha concluso che la strada, avente natura privata, doveva ritenersi non soggetta all’uso pubblico, con la conseguenza della sua assimilabilità alle limitrofe aree di proprietà parimenti privata. Da qui la legittimità degli atti comunali che avevano consentito alle controinteressate l’edificazione a distanza di m. 6 dalla linea di mezzeria della strada.

Contro le due sentenze del TAR la ricorrente ha esperito i presenti appelli, con i quali ha riproposto le argomentazioni offerte al primo giudice criticandone la decisione. Essa ha assunto, quindi, non solo che le risultanze fornite sarebbero state sufficienti a riscontrare l’uso pubblico della strada, ma altresì che, anche a prescindere da tale estremo, i provvedimenti in contestazione dovevano reputarsi comunque illegittimi per le motivazioni sopra già esposte.

Le ragioni dell’appellante sono state ribadite ed illustrate con successiva memoria, con la quale si è insistito per l’accoglimento delle impugnative.

Alla pubblica udienza del 22 marzo 2011 i due ricorsi sono stati trattenuti in decisione.

Gli appelli, dei quali è opportuna la riunione per ragioni di connessione, sono infondati.

1 La Sezione condivide, in primo luogo, la valutazione del primo giudice circa l’essenzialità dell’elemento della destinazione ad uso pubblico della strada intorno alla quale si controverte.

La ricorrente ritiene che quest’ultima, anche a prescindere dal suo dedotto asservimento all’uso pubblico, sarebbe pur sempre una strada, ed in quanto tale già comunque soggetta alle prescrizioni dello strumento urbanistico sulle distanze dalle nuove costruzioni.

Il Tribunale ha però giustamente osservato che, poiché le suindicate disposizioni delle N.T.A. del piano regolatore comunale sono finalizzate a disciplinare le fasce di rispetto delle costruzioni ai fini della sicurezza della circolazione, la definizione di "strada" cui le prime fanno riferimento non possa essere intesa (in linea, del resto, con l’art.1 del codice della strada) se non con riferimento alle sole aree ad uso pubblico destinate alla circolazione.

Che la ratio delle regole comunali sulle distanze sia proprio quella indicata non potrebbe del resto essere messo seriamente in discussione (e infatti non è stato fatto), e trova anche conferma nel testo dell’art. 13 cit., dove si osserva che le aree di rispetto stradale sono necessarie "per la protezione della sede stradale nei riguardi dell’edificazione".

D’altra parte, non vi è alcun elemento testuale che possa sorreggere la lettura -indiscriminatamente estensiva- delle norme edilizie comunali proposta dall’attuale appellante. Al contrario, l’individuazione e la definizione delle diverse tipologie di strade che si rinvengono nell’art. 13 cit. fanno parte di un capo, il II, che concerne solo le "Zone di uso pubblico e di interesse generale", àmbito cui sarebbe estranea una strada privata che sia tale anche nella destinazione, oltre che nell’appartenenza.

E tale lettura si presenta anche per più versi incongrua, in quanto assimilerebbe il trattamento delle aspettative edificatorie in due situazioni profondamente diverse, quelle dei frontisti di una strada ad uso pubblico o, invece, ad uso solo privato, imponendo così ai secondi delle limitazioni la cui giustificabilità sarebbe (quantomeno) tutta da dimostrare.

Deve dunque ribadirsi l’infondatezza delle argomentazioni del ricorrente basate su un concetto di "strada" svincolato dall’uso pubblico.

2 Posta questa premessa, sembra sufficientemente evidente sia che l’onere della prova circa la sussistenza del presupposto della destinazione della strada all’uso pubblico incombesse sul ricorrente, sia che lo stesso onere fosse rimasto inadempiuto.

2a Il Tribunale ha bene osservato che l’affermazione dell’uso pubblico della strada, in quanto basata unicamente su un dato estrapolato dal regolamento allegato al rogito di compravendita della ricorrente, e quindi su di un atto tra privati, non poteva dirsi in alcun modo sufficiente a far accertare l’esistenza di una servitù di uso pubblico gravante sulla stessa strada, in mancanza di altri elementi e, soprattutto, di qualsivoglia accertamento di tale uso promanante dall’Amministrazione comunale.

Questa valutazione vieppiù si impone se si considera che il regolamento allegato all’atto di acquisto della controinteressata E. non recava menzione, come quello della ricorrente, di una servitù di "pubblico transito", bensì di una mera "servitù di transito a favore dei frontisti".

In aggiunta a tale dato, e sempre a conferma della conclusione del primo giudice, su un piano più astratto va osservato quanto segue.

Pur tenendosi nel debito conto che nella presente fattispecie non si controverte di acquisto del carattere demaniale da parte di una strada privata, ma – più semplicemente – dell’uso pubblico della stessa (sulla distinzione fra i rispettivi requisiti cfr. C.d.S., sez. V, 24 maggio 2007, n. 2618), è però pur sempre vero che la costituzione su una strada privata di una servitù di uso pubblico può avvenire, alternativamente, a mezzo della cd. dicatioad patriam – costituita dal comportamento del proprietario di un bene che metta spontaneamente ed in modo univoco il bene a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l’effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico -, ovvero attraverso l’uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all’usucapione (C.d.S. ult. cit.).

Simmetricamente, secondo gli insegnamenti della giurisprudenza civile richiamati in primo grado dalle parti resistenti, l’accertamento in ordine alla natura pubblica di una strada presuppone necessariamente l’esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, e che la stessa sia destinata all’uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell’ente medesimo, senza che sia sufficiente a tal fine l’esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l’intervento di atti di riconoscimento da parte dell’amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta (Cassazione civile, sez. II, 07 aprile 2006, n. 8204).

Orbene, i principi esposti rendono ancor più evidente l’insufficienza del dato contrattuale allegato dalla ricorrente (per giunta, contraddetto dalle risultanze prodotte da uno dei controinteressati) ad integrare anche solo una semiplena probatio di una delle fattispecie costitutive appena menzionate.

2b L’appellante, nel giudizio di secondo grado, ha poi effettivamente prodotto un elemento probatorio astrattamente significativo, vale a dire una copia della deliberazione comunale -n. 1334 del 7\6\1996- avente ad oggetto la denominazione delle nuove aree di circolazione, che include anche quella di cui si discute.

Si tratta però di una delibera risalente all’anno 1996, che come tale avrebbe ben potuto essere prodotta già nel contesto del primo grado di giudizio, essendo in definitiva coeva all’instaurazione del medesimo. La sua produzione soltanto in questo grado deve ritenersi allora inammissibile per violazione del divieto di jus novorum in appello.

Sul punto è sufficiente richiamare la giurisprudenza più recente di questo Consiglio (cfr. sez. VI, 5 ottobre 2010, n. 7293; V, 7 maggio 2008, n. 2080; IV, 4 febbraio 2008, n. 306; IV, 6 marzo 2006, n. 1122; Ad. Plen., 29 dicembre 2004, n. 14) che ha sancito l’applicabilità al processo amministrativo dell’art. 345 c.p.c. nella sua interezza.

Una volta assodata l’estensione del divieto dei nova previsto dal menzionato art. 345 c.p.c. anche al processo amministrativo, infatti, è giocoforza recepirne l’interpretazione fornita di recente dalle sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. 20 aprile 2005, nn. 8202 e 8203), e da ultimo anche recepita nel novellato comma 3 dell’art. 345 c.p.c., secondo la quale il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello riguarda anche le prove c.d. precostituite, quali i documenti, la cui produzione è quindi subordinata, al pari delle prove c.d. costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile che abbia impedito alla parte di esibirli in primo grado, oppure alla valutazione della loro indispensabilità.

La ratio della disposizione limitativa delle nuove prove, che forma sistema con quelle attinenti alle nuove domande ed eccezioni in appello, non è difatti tanto quella che non si attenti alla speditezza del giudizio di secondo grado, quanto quella di assicurare la serietà del processo a partire dal suo primo grado di giudizio.

Quanto all’estremo della eventuale "indispensabilità" della nuova prova, la giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. Civ., sez. III, 19 agosto 2003 n. 12118) ha insegnato che l’indispensabilità richiesta dall’art. 345, comma 3, c.p.c. nuovo testo, non va intesa come mera rilevanza dei fatti dedotti (condizione di ammissibilità, in fondo, di ogni mezzo istruttorio), ma postula la verificata impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse l’onere di fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge processuale, sicché il potere istruttorio attribuito al giudice di appello dalla norma in parola, pur ampiamente discrezionale, non può essere esercitato per sanare preclusioni e decadenze già verificatesi nel giudizio di primo grado, atteso che la prova richiesta, in tal caso, non può neppure considerarsi prova nuova, per essere invece prova dalla quale la parte è decaduta.

Ebbene, nel caso di specie non si rinviene -né del resto è stato invocato- alcuno degli speciali motivi previsti dall’art. 345 c.p.c.. Ne discende la inammissibilità della prova documentale di cui si è detto.

3 L’appellante risulta inadempiente ai propri oneri di allegazione e prova anche sotto un ulteriore profilo.

Una dimostrata destinazione della strada all’uso pubblico avrebbe comportato, come si è visto, l’applicabilità delle regole sulle distanze fissate dalle N.T.A. in precedenza menzionate.

La stessa parte attrice, peraltro, rileva che nell’ambito di queste regole sarebbe ravvisabile un conflitto, che chiama in causa: da un lato, l’art. 37 delle N.T.A., che prevede che nelle zone di completamento le costruzioni debbano rispettare la distanza minima dal ciglio stradale di m. 10 (e rispetto agli "altri confini" di m. 6), ma per le strade "interne" impone il rispetto dell’indice di visuale libera; dall’altro, la nuova formulazione dell’art. 13 delle stesse N.T.A., che prevede una distanza delle costruzioni pari all’indice di visuale libera anche dalle strade "locali" urbane.

Costituiva, pertanto, onere del medesimo ricorrente sin dall’impostazione dei propri gravami quello di dare concretezza di contenuto, nello specifico, alla formula del c.d. "indice di visuale libera", nel quale si concretizzava in pratica il vincolo da rispettare nel caso concreto, al fine di farne constare l’eventuale violazione.

Ma non è valsa a indurre la parte ad adempiere il proprio onere neppure la circostanza che la controinteressata E. abbia versato agli atti (all. 7 della produzione di primo grado; cfr. anche la pag. 3 della memoria presentata dalla stessa società) una perizia giurata, a firma del direttore dei lavori, da cui risultava che la distanza in applicazione dell’indice di visuale libera era di appena metri 1,88.

4 In conclusione, non avendo l’attuale appellante ritualmente adempiuto il proprio onere di allegazione e prova i ricorsi devono essere respinti.

La mancata costituzione in giudizio degli appellati esime dal dare disposizioni sulle spese processuali.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), riuniti gli appelli in epigrafe, li respinge.

Nulla per le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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